Un gruppo di bambini siede su seggiole di legno disposte ordinatamente in cerchio in un’aula scolastica. In silenzio, disegnano, assorti nel loro lavoro. Colorano con gesti lenti e precisi usando le loro matite colorate. Inclinano leggermente la testa a guardare il loro lavoro, come a valutarlo. Potrebbero essere gesti e movimenti di bambini qualunque in una qualunque aula scolastica in un qualsivoglia luogo del mondo. Ma poi si alzano e iniziano ad appendere i loro lavori alla parete coprendola con le rappresentazioni grafiche delle violenze e degli abusi subiti per mano dell’ISIS. I loro disegni parlano di odio e atrocità. Sono una testimonianza visiva delle loro ferite ancora aperte. Il dolore che prende forma davanti a noi, disegno dopo disegno mentre la macchina da presa inquadra una dopo l’altra le atrocità silenziose delle loro narrazioni visive, ci afferra allo stomaco. È profondo e dilaniante. Un bambino, ripreso di spalle, osserva la parete, quasi a volerne trovare un senso. Quel bambino siamo noi. Siamo tutti noi. Viviamo la sua tragedia, il suo disorientamento, la sua paura davanti a tanta incomprensibile violenza.
È questa una delle sequenze di Notturno di Gianfranco Rosi, un film che tutti dovremmo vedere ma che in questo momento, ancora segnato dalle paure dei contagi della pandemia, pochi vedono perché quasi nessuno va al cinema. Io stessa ho dovuto superare la mia idiosincrasia per le visioni cinematografiche in solitaria e rassegnarmi a vederlo da sola, perché nessuno era disposto ad accompagnarmi. Mi piace condividere la visione di un film, sedere vicino a qualcuno che pur fruendo della stessa esperienza, vedrà forse cose diverse, porterà con sé storie, immagini e idee altre dalle mie. Mi piacciono i rispettosi minuti di silenzio alla fine del film e attendo con ansia il momento delle prime parole post-visione. Eppure, questa volta è diverso. Sono contenta di essere venuta da sola. Quando i titoli di coda di Notturno scorrono sullo schermo non ho voglia di parlare con nessuno. Sto ancora respirando le immagini, la loro bellezza, i traumi che hanno raccontato. Le sto elaborando, riorganizzandole nel tessuto complesso di una narrazione che nel raccontare la realtà l’ha resa universale con rispetto, misura e attenzione. Il silenzio è quindi necessario e dovuto.
Notturno è un film ricco di testimonianze, storie, suggestioni, immagini che penetrano il nostro animo con forza, quasi ci aggrediscono con il loro rigore e la loro bellezza. Nonostante sia lento, e offra allo sguardo i modi e i tempi di assorbirne la visione, richiede un’elaborazione che pienamente giustifica il vederlo più di una volta. Una spettatrice in sala condivide, infatti, con il pubblico presente di averlo già visto, e di aver provato un’emozione così forte e profonda da desiderare di rivederlo nuovamente. È un film fatto per essere goduto sul grande schermo. E a onore del vero, le dimensioni dello schermo della piccola sala in cui è proiettato non gli rendono giustizia. Avrei voluto essere avvolta dalle immagini, riempirmene, e perdermi nella loro bellezza. Diventare parte della visione, partecipando degli spazi, dei paesaggi, e dei volti ritratti sullo schermo. Avrei voluto l’esperienza di un’immersione totale.
Di Notturno si è scritto e detto molto dalla sua presentazione a Venezia. Si è parlato delle soluzioni estetiche del film, dei suoi pregi, dei suoi eccessi, e dei suoi ipotetici difetti. Si è parlato di premi meritati e non ricevuti, della sua attualità ma anche del suo essere quasi offensivo nell’estrema estetizzazione del dolore. Lo stesso regista, amplificato da mezzi d’informazione e piattaforme social, ha condiviso in modo convincente e appassionato in numerose interviste il percorso che lo ha portato alla realizzazione del film.
In questa mia soggettiva, che non intende essere né un’analisi né una recensione, voglio spezzare una lancia a favore dell’esperienza della visione. Smettiamo di parlare di Notturno, e andiamo invece a vederlo. Non ne saremo delusi. Facciamoci coinvolgere dalle storie, dalle vite, dalle sofferenze, dallo scorrere quotidiano dell’umanità di un paese sempre in guerra. Perché quel Medio Oriente senza confini che Rosi ci racconta, anche se geograficamente, culturalmente e cognitivamente così distante da noi, è in realtà più vicino di quanto pensiamo. Nei 100 minuti di visione, Notturno ci entra dentro, ci prende nel profondo attraverso emozioni e sentimenti che Rosi sa rendere universali. Il dolore delle madri che piangono i loro figli è il dolore di tutte le madri. È un dolore che non ha confini, né barriere linguistiche o culturali. Lo comprendiamo perché è anche nostro ma possiamo accedervi grazie alla capacità del regista di catturare il nostro sguardo e di farlo posare su quelle lacrime, quelle rughe tracciate dal dolore che ci sarebbero altrimenti estranee.
Diceva Pasolini che fare cinema è la capacità di prelevare immagini “dal sordo caos delle cose”. Ci parlava di cinema come lingua poetica e Notturno è una lunga poesia per immagini, fatta di versi silenziosi che in perfetto equilibrio recitano una preghiera di dolore ma anche di speranza. La poesia è negli sguardi di una giovane coppia innamorata che da un tetto guarda il cielo, si sorride, si guarda negli occhi e immagina un domani nonostante i suoni della guerra in lontananza. È nell’uscita dei carcerati per l’ora d’aria, piccole macchie umane nelle loro uniformi arancioni, unico tocco di colore e di vita sullo sfondo di un paesaggio plumbeo in cui il grigio del cemento quasi non si distingue da quello del cielo. La poesia è nell’intimità di una casa, nelle immagini di fratellini che fanno i compiti, mangiano, dormono nella quotidianità di una stanza. Uno spazio privato, caldo e accogliente, che nella sua modestia, cambia funzione con il passare delle ore del giorno, piccola isola domestica nella guerra. Sono poesia il teatro, la voce, il corpo, le espressioni di rielaborazione del trauma in un ospedale psichiatrico in cui uomini e donne cercano una cura alle loro ansie, angosce e paure rintracciando la storia del loro paese. È poesia il muro che porta impresso il dolore di un prigioniero torturato, ed è poesia la natura i cui colori non osano mai brillare.
Il Cristo Morto di Andrea Mantegna, un’opera che in modo sublime, rompendo schemi di prevedibile prospettiva e introducendo nuovi punti di vista, rappresenta in modo ineguagliabile un’esperienza di profondo e sovraumano dolore, assolve in modo eccelso a uno dei compiti dell’arte. Non rappresentare ma reinterpretare il dolore. E questo è esattamente ciò che fa Rosi. Va oltre. Oltrepassa quella sovraesposizione a un dolore superficiale di brutture raccontate frettolosamente e affonda lo sguardo così da poter vedere e permetterci di vedere. Per questo è importante andare al cinema a godere della visione di Notturno. Per farsi catturare, per cercare di capire di più, ma anche per sperare, perché solo aumentando la consapevolezza può crescere l’empatia collettiva. I volti ritratti in Notturno, le sue storie, le sue voci e i suoi silenzi sono una porta di accesso a una comprensione diversa, più profonda, che passa attraverso le emozioni. Sono volti e storie che si imprimono nella memoria e nell’immaginazione. Sono i volti e le storie di una guerra senza fine e senza confini ma sono anche volti e storie di attesa, di possibilità. Perché Rosi, nel non offrire risposte, lascia a tutti noi la libertà di cercarle.
tania.convertini@dartmouth.edu
(l’articolo è uscito in precedenza nella rivista Antinomie)
L'autore
- Tania Convertini is Research Assistant Professor at Dartmouth College where she directs the Language Program in the Department of French and Italian. Her main areas of research include foreign language pedagogy and digital pedagogy, intercultural education, and media studies. She has published articles on the pedagogical use of film and technology in the language classroom, as well as critical readings of films, television shows and literary texts. Her current project explores the work of the Italian educator, humanist and television host Alberto Manzi and the role of Italian educational television in the 60s.
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