In copertina Gillo Dorfles in occasione della mostra di Arnaldo Pomodoro
sulle mura di Paestum (foto di Ugo Di Pace), courtesy museo mmmac
«Il mio incontro con Dorfles pittore risale al 1985 quando, per le edizioni Taide, si decise di dedicare un numero monografico della rivista» alla sua avventura più strettamente creativa: per la prima volta, dopo tanto tempo di attento silenzio, pittura e disegno, poesia e novella riaffiorano da una serie di cassetti per essere raccolti in un pregiato fascicolo, testimonianza vivace d’un’attività mai tralasciata, ma anzi sempre perseguita – anche se mantenuta in disparte, quasi come un secretum da rivelare al momento opportuno, come una attività clandestina, come «una vera passione, custodita con riservatezza e forse con eccessivo pudore»[1].
Nel ricordo di Maria Cristina Di Geronimo che colloca appunto al 1985 il suo «primo incontro con Dorfles pittore» è presente, mi pare, la più precisa traccia di un percorso che collega «il nostro prezioso e insostituibile»[2] decano in estetica all’«intima vocazione»[3] della pittura, e richiama nel contempo alla memoria il lungo sodalizio che dagli anni Cinquanta del secolo scorso vede Dorfles frequentare la piazza creativa di Napoli e Salerno e Amalfi e infine Paestum, locus amoenus dove «la voglia di dipingere e di scrivere viene eccitata […]»: perché in questo luogo, proprio a Paestum, «l’atmosfera è prodigiosa», l’«ambiente», la «campagna», ha «una qualità talmente eccezionale che incita alla creazione»[4].
Salerno, si sa, Dorfles la frequenta sin dagli anni Sessanta: è invitato da Filiberto Menna nell’ambito della Prima Rassegna di Scultura Italiana Contemporanea (1967) allestita sotto i portici del Palazzo comunale (per l’occasione Menna si fa affiancare da lui e Renato Barilli), è presente in provincia, ai tre appuntamenti di Amalfi (1966-1968), e Napoli, il cervello d’Italia, non dimentichiamo che i rapporti con la città si erano aperti sul finire degli anni Quaranta con i ragazzi del MAC napoletano (Barisani, De Fusco, Tatafiore, Venditti)[5], rappresenta una meta irrinunciabile, perché coacervo di stimoli culturali da cui partire per conoscere e esplorare il presente.
Dopo anni di ininterrotto lavoro manuale e mentale, è proprio a Salerno che Dorfles decide di riaprire il proprio dossier sulla pittura, presentando una serie di Materiali minimi datati 1938-1985 dove coadiuvano fattori allegorici, simbolici, fantastici, mitici. Curato e pensato «dall’amico pittore-scrittore (e dunque doppiamente “collega”) Emilio Tadini che», a ricordarlo è lo stesso Dorfles, «ha avuto la pazienza di aiutarmi a sceverare quei “materiali minimi” che a lui parevano più degni (o meno indegni) di essere pubblicati»[6], il volume rappresenta non solo un reale ritorno alla scena dell’arte, ma anche l’ampia impronta di una attività mobile e nobile, densa di riferimenti, camaleontica e inesauribilmente versatile, eclettica. Nelle poesie scritte attorno agli anni Quaranta, nelle prose degli anni Ottanta e nel brillante nucleo di opere pittoriche e grafiche che «appartengono a tre periodo distinti: un primo gruppo agli anni 38-44; un secondo gruppo agli anni 48-58 (ossia al periodo in cui si svolse l’attività del MAC milanese di cui – assieme a Monnet, Munari e Soldati – fui fondatore e membro): un terzo gruppo agli anni successivi e prevalentemente al periodo 1980-1985»[7], è possibile individuare i nuclei e i grumi di un lavoro scandito in primis dalla raffinatezza cromatica, dalla conoscenza sintattica e quasi atavica e laica del colore, dallo studio cromemico che guida ogni scelta, ogni piacere nel dirigere il sapere della mano e il caos della mente inteso come ordine a sé stante, dove lo spazio e il tempo giocano a fare i biricchini. «Ci sono, qui, immagini fatte senza staccare la penna o la matita dal foglio» puntualizza Tadini nelle Note su disegni e dipinti. «Ghirigori tracciati da qualche sismografo dei sogni… Ma costituiscono anche, quelle immagini, una piccola lezione di semiologia figurata. Il segno che insegue se stesso… e che altro? A quale dannata lepre va dietro quell’inesausto cacciatore eternamente insoddisfatto? Non sembra avere altra forma, la cosa inseguita, se non sia quella stessa in cui prende la sua forma evasiva l’atto dell’inseguire. E quando la penna, o la matita, si stacca dal foglio, precipita una minuscola catastrofe silenziosa. Nel figurato si mostrano soltanto i relitti, i ruderi che quella catastrofe si è lasciata dietro»[8].
Qualche anno prima di pubblicare questa piccola antologia che mostra di fatto una immaginazione figurale fortemente impegnata nel precisare concretamente la psicologia cromatica della forma, tra l’autunno e l’inverno del 1982, sempre per le edizioni Taide, Gillo Dorfles cura un numero della rivista Taide materiali minimi[9] «con la quale Pietro Lista e Cristina Di Geronimo» (che dirigeva la testata assieme a Michele Santoro), «nel 1980, sono intervenuti con un taglio secco nei lavori in corso, consolidando, al tempo stesso, il sodalizio con un gruppo che, a Salerno e in Italia, da due decenni ha lavorato insieme nel misurarsi con i fatti dell’arte, della critica e degli strumenti del comunicare»[10]. Dedicato al ritorno della pausa (un segmento estetologico a cui Dorfles aveva dedicato un libro nel 1980)[11], il quarto numero della rivista Taide è, per Dorfles, una mostra di carta dove riunire undici artisti e illustrare il disegno teorico d’impostazione intervallare per definire al meglio la via del «materiale minimo – ossia lo schizzo, l’abbozzo, il non-finito, l’embrionale, il magmatico»: l’«intervallo tra il momento ancora miocinetico del gesto e quello ponderato della costruzione» dove «si cela – non sempre ma spesso – l’unica traccia di quel tempuscolo o corpuscolo di nuovo, di genuino, di automatico, di cui noi stessi non ci eravamo accorti, ma che costituisce l’unica autentica base d’ogni nostra successiva creazione»[12].
Questi discorsi che avevano guidato tutto il decennio precedente e che erano stati prolegomeni squillanti, nella prima metà degli anni Novanta si rinsaldano attorno all’idea di un museo laboratorio che vede la luce tra le albe e i tramonti di Paestum e che trova proprio in Dorfles una figura portante, se non decisiva. Nato nel 1993 su iniziativa di Pietro Lista e inaugurato l’anno successivo con una doppia personale di Ugo Marano e Alessandro Mendini, il MMMAC – Museo Materiali Minimi d’Arte Contemporanea[13] rappresenta il primo esempio di uno spazio dedicato interamente alla scoria, al borborigmo visivo, alla freschezza del segno-gesto-parola non ancora imprigionato dal dominio della ragione e che anzi a questa sfugge come un fiotto di irrazionalità o magari di piacevole indeterminatezza.
Proprio qui, dopo la preziosa antologica dedicata a Emilio Tadini (1995), nel 1996 viene organizzata una esposizione sul lavoro di Dorfles[14], invitato in residenza per realizzare nuove opere, per vivere qualche settimana in formato amicale e abbozzare studiare lavorare nell’armonia assolata del sud: «invitandomi a venire a Paestum mi era stato proposto anche di dipingere alcuni quadri che potessero poi essere utilizzati per una mostra nel museo. La cosa naturalmente mi solleticava molto e quindi il fatto di passare in buona compagnia, in ambiente estremamente suggestivo qualche giorno, per di più preparando questi quadri, non poteva altro che essere una cosa molto piacevole»[15]. Da questo momento la frequenza di Gillo a Paestum, assidua fino al 2016, è scandita in estate da ritmi ben precisi (mattinate dedicate al nuoto e pomeriggi designati alla pittura o a incontri con conoscenti e amici) per realizzare opere importanti, lasciate in molti casi nella loro forma preparatoria per poi essere concluse a Milano nei mesi a seguire: e sempre con la stessa disciplinata diastemia che ne contraddistingue la sillabazione cromatica, l’intermittenza sottile, l’apletoricità.
Questa nuova mostra, organizzata nella Torre 28 di Paestum, non è soltanto un omaggio all’amico, ma anche e soprattutto un appuntamento che toglie la fine al finale e che apre a nuovi discorsi, a nuove avventure. Tra i disegni e le pitture su tela, le carte e i cartoncini, le ceramiche e le serigrafie, il mondo di Gillo – all’anagrafe Gillo era Angelo Eugenio – è mostrato in tutta la sua coerenza e evoluzione: da alcuni lavori degli anni Quaranta fino ai più recenti del 2009 e 2010 la linea assume la forza timbrica del colore, diventa via via schema di un sintomo psichico che accoglie l’occasione emotiva e la coagula sulla superficie come gesto della mente, come filo che collega aperto e chiuso, innen und außen. Si tratta di un continuo inesauribile entretien con la materia pittorica che si impasta e si attorce e si ferma a volte allo stato crudo o anche si amalgama per dar luogo a forme sempre nuove: ma prima di tutto a puntuali accostamenti cromatici – e bisogna insistere su questo punto perché per Dorfles non è la forma ma il colore (necessità fisiologica) alla base della sua pittura.
Avrei potuto aprire questo testo evidenziando che anche quando l’ago della bussola si è spostato con maggiore insistenza sul versante della critica, della teoria dell’arte o dell’estetica, Gillo Dorfles non ha mai smesso di fare pittura e di elaborare un proprio personale percorso creativo, tra i più avvincenti del secondo Novecento. Avrei potuto raccontare del suo legame con quel Movimento per l’Arte Concreta che a partire dal 1948 ha stabilito nuovi contatti con l’ambiente intellettuale d’oltralpe per uscire da una situazione «quanto mai statica e provinciale […] come era allora buona parte dell’arte nostrana»[16]. Avrei potuto evidenziare che è stato sin dai suoi primi passi «critico e pittore assieme»[17], figlio di una culla culturale – «l’intelligenzija triestina degli anni Trenta»[18] più esattamente – alimentata dai nuovi astri della letteratura, da scrittori come Kafka, Wedekind, Strindberg, Spengler e tanti altri, conosciuti tutti attraverso l’inesauribile versatilità di Bobi Bazlen[19]. Avrei potuto ricordarlo anche con le sue stesse parole (un po’ lo sto facendo perché ne vale la pena): «sono nato vicino al mare, a Trieste, il grande porto dell’Impero austro-ungarico» ha ricordato nel 2007: «un crocevia di razze, destini e identità meticce – un luogo privilegiato dell’incontro tra popoli. Anche se formalmente eravamo sudditi austriaci, parlavamo italiano: in realtà, se ci si inoltrava per i vicoli lastricati della Città Vecchia, si poteva sentire la cantilena triestina mescolarsi alla lingua slava e a quella tedesca. A completare questo affascinante mélange c’erano una ricca e popolosa colonia ebraica, il cuore artistico e intellettuale della città, e una variopinta colonia greca, da cui provenivano le famiglie più facoltose. […]. «In quegli anni iniziarono anche i pellegrinaggi dall’Italia di illustri scrittori come Montale, Ferrero e Debenedetti […] che venivano a salutare Saba e Svevo. Erano queste le persone che incontravamo molto spesso. Qualche volta, ad esempio, dopo aver passato la giornata al Bagno Savoia, Leonor Fini, Bobi Bazlen, Leo Castelli ed io, si andava a giocare a bocce con Italo Svevo. Formavamo un gruppo di giovani “intellettuali chic” – oggi si direbbe “di Sinistra”, ma all’epoca non sapevamo neanche cosa fosse la Sinistra – eravamo dei “pensatori mondani”»[20].
Ma forse questa storia, ricostruita un po’ a singhiozzi e in minima parte, è utile a far conoscere l’amicizia di Gillo con Pietro Cristina Nuvola e Pierpaolo (uno dei suoi artisti italiani preferiti, un suo protetto)[21], come pure a far percepire il legame sincero con un territorio che gli ha voluto bene, che lo ha reso cittadino onorario e che oggi lo ricorda come lui voleva essere ricordato: un pittore, semplicemente un pittore che si rischiara la voce per parlare del proprio lavoro. «Cerchiamo ora di svelare come avvenga la nascita d’una di codeste opere concrete di cui tanto s’è ragionato, quasi sempre osservandole e criticandole dal di fuori; mai cercando di penetrarne l’intimo meccanismo formativo. Per molti artisti moderni, un modulo grafico – prima ancora che un’immagine cromatica – è il primum movens della creazione pittorica; modulo che può svilupparsi da un ghirigoro, da un segno elementare, che può derivare da un impulso dinamico non perfettamente cosciente e razionalizzato. Ma, più spesso, è invece la ricerca precisa e lucida d’una determinata forma a guidare la matita o il pennello: forma che parte da alcunché di già esperimentato o che a quello tende, sia che la mano tracci un segno preso a prestito a un elemento reale (ma non però copia d’un oggetto naturalistico), sia che si valga di alcuni schemi formali sempre ricorrenti e che, a mio avviso, si possono considerare come i progenitori d’ogni espressione grafica, conscia od inconscia. Avremo cosi: la voluta, la lemniscate, la S, la “greca”, o forme più complesse e imprecisabili: potremmo veder affiorare la forma ameboide d’una cellula, gli aspetti di strane strutture organiche o minerali. Potremmo assistere cioè alla proiezione di archètipi formativi, restati allungo inutilizzati, e che oggi riappaiono, diventando i generatori di nuovi spunti plastici. E alla stessa stregua potremmo constatare come spesso, in molti lavori concreti, vengano utilizzate semplici e schiette figure geometriche: quadrati, losanghe, triangoli; sono le prime pietre costruttive d’un edificio architettonico che è fissato nei suoi elementi morfologici invece che nella sua fase terminale già organizzata e pianificata. Oppure ancora possono apparire altri segni, utilizzati già innumerevoli volte lungo il cammino di tutta quanta l’arte, cosiddetta decorativa, e che ora riappaiono, non più sotto il mero aspetto ornamentale, accompagnatorio, del pretesto decorativo, dell’attributo artigiano, ma con maggior validità perché vengono a costruire il centro formativo dell’intera opera d’arte. Sono dunque codesti i nuovi “protagonisti” di quest’arte d’oggi, che – stanca delle ormai viete figurazioni naturalistiche – non ha affatto annullato il compito figurativo che spetta alla pittura e alla plastica, ma l’ha soltanto rinnovato e dilatato, riproducendo quanto dall’intimo vengono sviluppando sulla tela le forze creatrici dell’artista»[22].
[1] M. C. Di Geronimo, Il mondo di Gillo, in Dorfles, cat. della mostra tenuta al MMMAC – Museo Materiali Minimi d’Arte Contemporanea Marcello Rumma di Paestum, dal 9 ottobre al 10 novembre 1996, Edizioni Ibis, Paestum 1996, p. 9.
[2] R. Barilli, Dorfles e le sue provvidenziali TAC sul divenire delle arti, in M. Carboni, a cura di, Divenire di Gillo Dorfles, Castelvecchi, Roma 2010, p. 23.
[3] A. Trimarco, L’angelo della critica, in Gillo Dorfles, pubblicazione edita in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria di Paestum, MMMAC Edizioni, Fisciano 1999, ora anche in Id., L’arte e l’abitare, Editoriale Modo, Milano 2001, p. 49.
[4] U. Di Pace, L’incontro. Gillo Dorfles: Paestum m’ispira (intervista), in «Corriere del Mezzogiorno», venerdì 24 settembre 2010, p. 19.
[5] Cfr. L. P. Finizio, Il MAC napoletano 1950-1954, Istituto Grafico Editoriale Italiano, Napoli 1990.
[6] G. Dorfles, Prefazione, in Gillo Dorfles. Materiali minimi 1938-1985, introduzione e note di E. Tadini, Taide, Salerno 1986 p. 9.
[7] G. Dorfles, Prefazione, in Gillo Dorfles, cit., p. 9.
[8] E. Tadini, Note su disegni e dipinti, in in Gillo Dorfles, cit., s.p.
[9] Sulla storia della Galleria si vedano M. Bignardi, G. Rescigno, Lo spazio di Taide. Un luogo della creatività nel cuore degli anni Settanta, Guttenberg Edizioni, Fisciano (SA) 2013 e R. D’Andria, Da Taide al MMMAC. Sui materiali minimi, con contributi di G. Dorfles e A. Trimarco, MMMAC Edizioni, Salerno 2011.
[10] A. Trimarco, Per un ritratto (di gruppo), in R. D’Andria, Da Taide al MMMAC. cit., p. 11.
[11] Mi riferisco a L’intervallo perduto, Einaudi, Torino 1980. Per tali questioni rimando a A. Tolve, Gillo Dorfles. Arte e critica d’arte nel secondo Novecento, La Città del Sole, Napoli 2011 e a A. Tolve, S. Zuliani, a cura di, L’intervallo necessario. Artisti in dialogo con Gillo Dorfles, cat. della mostra tenuta negli spazi dell’Archivio dell’Architettura Contemporanea di Salerno, 12 novembre 2011 al 12 dicembre 2011, Edizioni Fondazione Menna, Salerno 2012.
[12] G. Dorfles, a cura di, Il ritorno della pausa, n. monografico della rivista «Taide materiali minimi», a. 3, n. 4, sett.- dic. 1982, p. 7. Sulla tematica si veda anche A.Tolve, a cura di, Avventure minime. Miocinesia nell’arte d’oggi, con testi di B. Menna (Tomaso Binga), G. Dorfles, S. Zuliani, cat. della mostra tenuta a Salerno negli spazi dell’Archivio Generale / Sede Storica – ex Convento di San Lorenzo (22 maggio – 23 giugno 2010), MMMAC, Salerno 2010.
[13] Cfr. S. Zuliani, Esperienze minime, in Museo d’Arte Contemporanea Materiali Minimi, MMMAC Edizioni, Paestum 1999.
[14] A queste esposizioni seguono il tuffatore di (1998), il Cavallo di sabbia di Mimmo Paladino (1999) recentemente collocato , il Segno della croce (2001), Guido Crepax (2002), Mr. Nettuno di Marco Lodola (2003), l’Archeologia metafisica di Lucio Del Pezzo (2004), Lisa Ponti (2000), Arnaldo Pomodoro (2005) e Carol Rama (2007).
[15] U. Di Pace, Conversando con Dorfles, in Dorfles, cit., pp. 14-15.
[16] G. Dorfles, Il Mac milanese, in Concretismo – Milano, Firenze, Roma 1947-1956, cat. della mostra tenuta a Firenze, nel 1964, presso la Galleria di Palazzo Libri, Valecchi, Firenze 1964, pp. 62 e 64.
[17] P. Fossati, Il movimento arte concreta 1948-1958. Materiali e documenti, Martano Editore, Torino 1980, p. 27.
[18] G. Dorfles, Lacerti della memoria, Lacerti della memoria. Taccuini intermittenti, con una conversazione tra A. Colonetti e G. Dorfles, Editrice Compositori, Milano 2007, p. 18.
[19] Cfr. C. Battocletti, Bobi Bazlen. L’ombra di Trieste, La Nave di Teseo, 2017.
[20] G. Dorfles, Leo Castelli: un uomo elegante, in A. Jones, Leo Castelli. l’italiano che inventò l’arte in America, introd. di G. Dorfles, Castelvecchi, Roma 2007, pp. 9, 10-11 (corsivo di chi scrive).
[21] G. Dorfles, Arte con sentimento. Conversazione con Gillo Dorfles (di M. Meneguzzo), Medusa Edizioni, Milano 2014, p. 57: «c’è un caso di giovane mio protetto a Salerno, Pierpaolo Lista, che fa delle fotografie assolutamente inventate».
[22] G. Dorfles, Artisti del MAC, in cat. della mostra degli Artisti del MAC tenuta, nell’aprile del 1951, presso la Galleria Bompiani di Milano, nell’ambito della Rassegna della Pittura Astratta Italiana. Il testo è stato integralmente riprodotto in L. Caramel, a cura di, Movimento Arte Concreta. 1948-1958, cat. della mostra tenuta a Parma, presso la Galleria d’Arte Niccoli, dal 2 marzo al 4 maggio 1996, maschietto&musolino, Firenze-Siena 1996, p. 158.
L'autore
- Antonello Tolve è il direttore responsabile di Insula europea (http://www.insulaeuropea.eu/antonello-tolve/)
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