Giorgio Chinnici – ingegnere, fisico, appassionato di scacchi e di linguistica – ha pubblicato diversi libri di argomento scientifico per la Hoepli, proponendo al lettore un bell’esempio di divulgazione scientifica coadiuvata da quella umanistica.
Nel libro La stella danzante (2016) come è riuscito a coniugarle in maniera organica? O meglio, come riesce a rendere fruibile entrambe le prospettive al lettore? La sua formazione scolastica prima, e universitaria poi, quanto l’hanno aiutata in questa sintesi? In che senso crede sia utile procedere in entrambi i settori?
La formazione scolastica e universitaria, almeno ai miei tempi, non era basata sull’unità della cultura. Giustamente al liceo si dava più o meno uguale peso, in termini di tempi, risorse e valutazione, alla formazione umanistica e a quella scientifica. Tuttavia – questa è stata la mia sensazione – mantenendo comunque quella separazione netta tra i due aspetti che in Italia discende da una lunga tradizione filosofica e pedagogica. All’università, poi, essendo i miei corsi di studio fortemente focalizzati su temi scientifici o tecnici specialistici, non si lasciava intravvedere alcun possibile aggancio con la cultura umanistica. Di questo ho sentito la mancanza, specialmente per quanto riguarda i miei studi di fisica; solo successivamente ho potuto maturare questa sintesi e chiudere il “gap”.
La fisica per me è prima di tutto il tentativo di comprendere il mondo; infatti questa disciplina è l’erede diretto, dopo la rivoluzione scientifica, della cosiddetta filosofia naturale. La fisica moderna ha portato a profondi cambiamenti di paradigma nel nostro modo di comprendere il mondo e pertanto non può essere disgiunta dalla cultura filosofica, storica e umanistica che a questa comprensione pure contribuisce; non a caso i grandi innovatori della scienza sono stati anche dei filosofi e degli umanisti. C’è un interscambio fecondo tra le “due culture”, che innesca un circolo virtuoso portando a entrambe beneficio e apertura di nuovi orizzonti. La filosofia della scienza è in massima parte materia dei corsi di laurea in filosofia e non di quelli scientifici. Io ritengo che simili discipline dovrebbero invece costituire necessariamente parte integrante del curriculum di uno studente di fisica, biologia, informatica, matematica e così via. Io faccio divulgazione scientifica, nei miei libri parlo di scienza. Ma lo faccio tenendo presente che la cultura è una sola, non due o più, e cercando di passare questo messaggio al lettore. In La stella danzante parto dall’idea che gli antichi avevano a proposito di ognuna delle sei versioni del caos per spiegare poi come la scienza moderna le ha interpretate.
Come è nata la volontà di scrivere libri divulgativi?
Ho fatto il corso di laurea in Fisica da adulto, con già una prima laurea e un lavoro. In una prospettiva matura, quindi, e completamente diversa da quella del “normale” studente. Non avendo particolari limiti di tempo potevo permettermi di affrontare le materie di studio con l’estensione e la profondità a cui mi portava la mia entusiastica passione. Un percorso di riflessione che è continuato dopo la laurea. A un certo punto mi sono “incaponito” su un particolare argomento dai risvolti filosofici, il principio di Mach, di cui mi pareva di non afferrare la reale sostanza e le motivazioni e che del resto non trovavo spiegato in modo adeguato da nessuna parte. Quando l’ho ben inquadrato, ho fissato la cosa su degli appunti, inizialmente per me, poi, arricchendoli via via con tutti i presupposti e le basi sull’argomento, anche per gli amici interessati. Alla fine è diventato un libro sulla relatività, che a questi amici ho sottoposto in forma di auto-pubblicazione e che poi ha avuto l’apprezzamento della Casa Editrice Hoepli nella persona del suo Direttore Editoriale, persona che stimo particolarmente. Grazie alla Hoepli, ho quindi proseguito in questa vena creativa nella divulgazione parlando, dopo la relatività, anche di meccanica quantistica, di caos, dell’infinito in matematica e di tutti gli altri stimolanti argomenti.
Parliamo di Turing: l’enigma di un genio (2016): al di là della personalità e dell’operato di Turing in quanto matematico e dei suoi progressi anche nel campo dell’ingegneria – cose che lei sembra condividere e sottolineare con grande entusiasmo – come crede sia nata l’idea di quella paper machine e perché si riferiva al gioco degli scacchi?
Il concetto di algoritmo proposto da Turing, che oggi ci sembra quasi scontato, è stato un passo avanti fondamentale nella storia delle idee, perché ha a che fare con la maniera in cui funziona la nostra mente. A Turing interessava cioè individuare e formalizzare i processi mentali, sia come conoscenza in sé sia in vista di una loro riproducibilità per mezzo di una macchina. Vengono così gettate le basi per lo sviluppo di quella che sarà l’Intelligenza Artificiale. A questo proposito il gioco degli scacchi si presta molto bene come banco di prova, essendo da una parte altamente formalizzabile e dall’altra un’attività intellettuale di alto livello e profondità, tanto che sono spesso presentati come simbolo stesso di intelligenza. In un’epoca storica in cui non c’erano ancora i computer programmabili, Turing eseguiva le istruzioni del suo algoritmo per giocare a scacchi (il primo della storia!) con calcoli sulla carta: una paper machine, appunto.
Sempre nel suo libro su Turing, lei cita il motto di una rivista scacchistica che sintetizza bene il senso di questo gioco: “in me vis sortis nulla sed ingenium”. Può commentare questa frase in relazione ad un’altra sua considerazione, stavolta sulle leggi della fisica: “il caso in fisica classica non esiste. Non c’è alcuna vis sortis”. Il gioco degli scacchi, con i suoi meccanismi intrinseci e le sue leggi esatte, ne è un suo specchio?
Il tema del determinismo e quello del caso che vi si contrappone sono stati dibattuti fin dall’antichità. Sono dei temi a me particolarmente cari che sviluppo in quasi tutti i miei libri (anche nel mio prossimo, che uscirà a ottobre). A questi due concetti antitetici tra loro se ne aggiunge un terzo, quello di libero arbitrio: la possibilità della mente umana di essere “causa prima” di un evento, sottraendosi così sia a un ferreo determinismo che tutto stabilisce in anticipo sia a un caso che dà luogo eventi senza causa. Nella fisica classica vige il determinismo; al contrario, nella fisica quantistica, sebbene le distribuzioni di probabilità siano deterministiche, il risultato di una singola misura è un evento del tutto casuale. Il libero arbitrio, dal canto suo, rimane un fenomeno ancora del tutto inspiegato nell’ambito delle leggi scientifiche finora conosciute.
Gli scacchi certamente rappresentano di per sé uno specchio di un mondo deterministico e quindi algoritmizzabile. Al tempo stesso, però, nel gioco reale entra prepotentemente in campo il “fattore umano”, con tutte le debolezze e i punti di forza dell’intelletto, con tutte le circostanze casuali e quelle dettate dal libero arbitrio del giocatore, con tutta la capacità di intuizione, di creatività e di volontà della mente umana. Gli scacchi da una parte sono scienza – matematica, se vogliamo – ma dall’altra sono arte. E, non va trascurato, gli scacchi sono competizione, sono lotta: sono tutto lo spettro delle emozioni umane.
In un’altra intervista lei ha dichiarato di essere figlio, dal punto di vita scacchistico, dell’epocale scontro tra Fischer e Spasskij. Oggi sicuramente coltiverà il gioco degli scacchi anche attraverso i programmi per computer. Pagine densissime del suo libro su Turing parlano proprio di questo, ovvero della capacità del computer di gareggiare – e battere! – l’uomo: può spiegarci qual è il suo rapporto con questi programmi, magari dirci quali preferisce? Cosa ne pensa invece di PlayMagnus, programma online il cui algoritmo è fondato sulle partite fatte e sulle esperienze vissute dell’attuale campione del mondo Magnus Carlsen?
Va premesso che il fatto che un programma per computer batta un campione del mondo umano di scacchi ormai desta la stessa impressione di un bulldozer che vince una gara di sollevamento pesi (come sottolineò con acutezza, e in anticipo sui tempi, Noam Chomsky).
I programmi per computer possono essere usati come sparring partner giocandoci contro, ma sicuramente l’utilizzo principale che se ne fa, da parte sia dei top players sia della gran massa dei semplici appassionati o giocatori di circolo, è quell’analisi di partite e posizioni: uno strumento didattico da cui si può imparare moltissimo. Parlando di programmi, bisogna distinguere l’interfaccia grafica dal cosiddetto “motore scacchistico”: la prima è solo la presentazione a video di scacchiera e pezzi, il secondo è l’algoritmo che calcola le mosse in un’assegnata posizione; sotto una data interfaccia possono girare diversi motori e viceversa. Un software gratuito di interfaccia per motori scacchistici è Arena; un ottimo motore gratuito, del resto tra i più forti esistenti, è Stockfish. Un ottimo sito scacchistico completamente gratuito (con corrispondente app) che consiglio è lichess.org: si può giocare a scacchi contro altre persone, o se si vuole contro un programma, si possono imparare le regole del gioco e gli elementi della tattica, si possono risolvere istruttivi puzzles, si possono analizzare le partite, proprie o altrui, con Stockfisch. PlayMagnus invece non lo conosco e quindi non so dire, ma apprezzo l’iniziativa che, come molte altre portate avanti da Carlsen, contribuisce in maniera significativa alla diffusione e alla popolarità del gioco degli scacchi. Giocare contro un programma non mi suscita particolare entusiasmo. Nella sua versione normale, il motore è sicuramente troppo forte per poterci ricavare divertimento o istruzione; nelle versioni a livelli, del resto, si percepisce l’artificialità del gioco, molto distante dall’errore umano di avversari in carne e ossa al mio stesso livello. Preferisco giocare contro questi ultimi: se da una parte la socialità, in questo caso dei circoli scacchistici, non può mai essere sostituita, dall’altra la possibilità di giocare online a qualsiasi ora contro avversari umani di tutto il mondo è assolutamente impagabile.
Tornando al tema “la mente e la macchina”, è interessante notare come il rapporto possa invertirsi. Nel gioco sia online sia a tavolino accade di scoprire o sospettare che un giocatore umano sia stato aiutato dalla ben più forte macchina; ad altissimo livello, però, al contrario la visione stragica di una mente umana può non trovare riscontro nelle possibilità di un algoritmo. Nel celebre scontro perso da Kasparov contro il computer Deep Blue dell’IBM – citando dal mio libro su Turing –: «Kasparov sospettò persino che nella seconda partita del match la macchina fosse stata “aiutata” da un umano, per via di una mossa particolarmente creativa che giocò, la 36a del bianco. Per la cronaca, in quella posizione la prima scelta di tutti i motori di punta odierna è esattamente la mossa scelta da Deep Blue. A ogni buon conto, l’accusa non poté essere provata, e quindici anni dopo il match uno dei progettisti dell’IBM affermò addirittura che, al contrario, si sarebbe trattato di un baco del software: Deep Blue non era in grado di scegliere una mossa in quella posizione e allora ne fece una a caso».
Tra i suoi interessi spicca sicuramente quello per la linguistica. Questo è nato successivamente o parallelamente ai tuoi studi? Lo studio della struttura di una lingua, anche in chiave comparativa – pensiamo alla materia di studi degli indoeuropeisti – si basa su criteri, leggi e rigore per ricostruire dei passaggi e predire dei fenomeni. Oggi fa quasi moda rendere “scientifico” ogni campo del sapere, come se il termine scientifico indicasse solamente qualcosa, tanto per banalizzare ancora di più, che ha a che fare coi numeri. Lei cosa ne pensa?
Il rapporto tra mente, linguaggio e realtà è un campo di indagine chiave per la comprensione del funzionamento della mente e di quali siano le sue possibilità e i suoi limiti. Se la linguistica vada considerata una scienza alla pari di quelle naturali o invece una disciplina di tipo storico-sociale, o ancora un campo di studi puramente psicologico, è una controversia che va avanti da parecchio tempo. Sicuramente la linguistica condivide alcuni aspetti del metodo scientifico, ma è anche una disciplina autonoma per suo proprio conto. Sono d’accordo sul fatto che la denominazione “scienza” e l’attributo “scientifico” vengano usate spesso in maniera inadeguata. In molti casi si sostituisce la parola “scienza” alla parola “disciplina”; questa etichetta vuole forse semplicemente rimarcare che l’attività in questione rappresenta uno studio sistematico e di livello elevato.
Il suo libro Il labirinto del continuo. Numeri, strutture, infiniti (2019), si apre con una generosa – e meritata! – prefazione di Alberto Rotondi, il quale afferma che la sua è stata una scelta coraggiosa. Il coraggio di una divulgazione che “non ha pretese di completezza, ma non deroga mai alla correttezza”, come lei ribadisce nell’introduzione. In effetti, uno sguardo all’impianto degli altri libri tradisce una volontà più “rigorosa”, quella di trattare gli argomenti matematici non tralasciando il loro aspetto più evidente: le formule. Perché è stato coraggioso? Quali crede siano i canoni e i criteri per scrivere libri divulgativi? Qual è la differenza tra un testo divulgativo e un manuale?
Come scrivo nell’introduzione del mio libro: «Spesso però il pubblico generale, talvolta persino chi è curioso delle questioni esplorate dalla fisica, dall’astronomia, dalla biologia, fa fatica a dichiarare lo stesso interesse e la stessa curiosità per la matematica. Un dato di fatto, sulle cui ragioni si può scrivere un libro intero ma che alla fine potrebbe ricondursi agli errati luoghi comuni elencati all’inizio di questa introduzione. Questo libro allora vuole cercare di sfatare un mito negativo. Vuole mostrare a ogni genere di pubblico che la matematica è bella, oltre che straordinariamente interessante e coinvolgente, offrendo uno scorcio su questo fantastico mondo. Vogliamo fare un piccolo passo nella direzione di restituire la matematica alla cultura. In questo senso il libro si rivolge sia a chi non ha mai approfondito la materia sia a chi l’ha affrontata nei propri studi, sia a chi ha una formazione scientifica sia a chi è di estrazione umanistica. Per parlare di matematica occorre usare il linguaggio che la matematica usa, introdurre e spiegare i suoi simboli che davvero nulla hanno di misterioso. Al pari della scrittura alfabetica o ideografica, delle note musicali, delle icone di ogni scienza e tecnologia, i simboli matematici nella loro mirabile sintesi sono i segni per mezzo dei quali si esprime la creatività».
Io penso che le sole parole non siano sufficienti per spiegare veramente un concetto scientifico, né lo sono le sole formule. La mia è una divulgazione di tipo nuovo che ricorre al tempo stesso al potere chiarificatore delle parole e all’illuminante sintesi delle formule. Ma sempre di divulgazione si tratta, di testi rivolti a un pubblico generale che non ha una formazione specifica ma semplicemente è curioso su com’è fatto e come funziona il mondo che ci circonda. Cosa ben diversa da un manuale, il quale si colloca a un livello di formazione elevato della disciplina in esame e che usa in massima parte strumenti formali senza indulgere in quell’avvincente racconto che è invece la divulgazione.
Sempre in questo libro, lei scrive una frase molto forte: “la matematica ha a che fare con la cultura”. Nell’immaginario collettivo – come ha già notato anche lei – la matematica è relegata agli scaffali più polverosi e noiosi di una libreria. Eppure già Galileo affermava nel Saggiatore che il mondo “è scritto in lingua matematica e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola”. Può commentare la sua affermazione e quella del grande Galileo?
Sono profondamente convinto del fatto che per capire – non necessariamente da specialisti – il mondo in cui viviamo, per essere cioè “colti”, non basti sapere cosa pensavano e facevano Aristotele, Dante, Borges o Chomsky da una parte, oppure Newton, Hilbert, Turing o Einstein dall’altra, in due compartimenti stagni dove l’uno ignora o addirittura rifugge dall’altro, ma che bisogna tendere a una sintesi. Per questo la matematica, “regina delle scienze”, è cultura. Quando Galileo dice che il mondo è scritto in lingua matematica intende dire che l’uomo ha trovato così una possibilità di comprendere questo mondo. Forse si tratta di uno dei miracoli della mente umana.
L'autore
- Lucrezia Arianna, classe '97, ha intrapreso e concluso il corso di laurea triennale in Lettere Moderne presso La Sapienza Università degli Studi di Roma, laureandosi con una tesi dal titolo ‘La carta 2r-v del Vat. lat. 3196: un cantiere petrarchesco'. A partire da ottobre 2019 frequenta il corso di laurea magistrale in Linguistica presso la medesima università.