Prima di arrivare a Santiago de Compostela non avevo ragionato più di tanto su cosa significasse essere donna oggi e non mi facevo grandi domande neppure sull’utilità che il Femminismo potesse ancora avere nel mio mondo.
Partivo per andare ad approfondire un preciso capitolo della Storia delle Donne e le questioni che mi interessavano riguardavano personaggi campati e crepati cinquecento anni prima. Non declinavo quelle informazioni e quelle impressioni nella mia realtà quotidiana; i fatti di cinque secoli fa apparivano certo superati e nonostante qualche fastidio intimo, arrivavo a considerare normale e tutto sommato tollerabile quello che vivevo di sgradevole come donna. Anche alcuni amici illuminati ci tenevano a sottolineare il fatto che non dovessi cedere alla tentazione di usare i miei studi per “fare la femminista”: le battaglie importanti erano state vinte e io stavo facendo la vita emancipata che desideravo. Non ne sapevo un granché di Femminismo e della Storia delle Donne successiva al XVI secolo, ma riuscirono a farmi partire con un certo senso di ingratitudine verso il Sistema e con la certezza che non servisse interrogarmi oltre sul destino del mio sesso o sul senso del Femminismo. Partivo anche con qualche pregiudizio verso la Galizia. Mi era stata raccontata come una terra matriarcale e prepotentemente femmina, finanche nel suo paesaggio, con la sua vegetazione folta e verde e fertile e umida; una terra accogliente e generosa come una madre, popolata da autentiche maghe e streghe che rispondevano ancora a un ruolo concreto nella mentalità locale, una terra cantata dai cantari di una donna – addirittura – la bellissima Rosalía de Castro.
Con una certa sorpresa, quindi, accolsi al mio arrivo quell’evidente fermento femminista che imperava per le vie della città di Santiago. Una serie infinita di bandiere nere affiliate alla campagna “Compostela en Negro” sventolavano efficaci slogan contro la violenza di genere. Se ne vedevano in ogni angolo della città: non solo all’università o nei centri della lotta studentesca ma anche in periferia, anche davanti la facciata della cattedrale, nelle vetrine dei negozi. Si avvertiva ovunque quella stessa orgiastica compartecipazione a una nobile causa che regna per le nostre città quando ci sono i Mondiali di calcio.
Cominciai a pensare che se il Femminismo era tanto necessario in quella terra che mi era stata spacciata come il Paese dei Balocchi delle femmine, figuriamoci quanto dovesse ancora essere necessario a Casa mia. Mi erano state raccontate delle boiate sulla Galizia oppure sulla morte del Femminismo o su entrambe le cose.
Tralasciando le donne cinquecentesche utili alla mia tesi di dottorato, cominciai ad approcciarmi a qualcosa di più recente per comprendere cosa stava accadendo alle femmine e al Femminismo, prima in Galizia e poi dalle mie parti. Mi fu subito chiaro che quanto di sgradevole mi capitava come donna, non poteva essere considerato normale. Poi compresi che il femminismo galego si intrecciava in maniera molto interessante col nazionalismo galego, che il matriarcato non era che un antico e contraddittorio retaggio della storia dei villaggi (gli uomini andavano per mare o emigravano, le donne rimanevano e tenevano salde le redini della vita collettiva) e che la presenza, tanto evidente, delle donne negli ambienti sociali, accademici, politici contemporanei non si concretizzava in nessuna crisi del Patriarcato. Avevo sentito dire che alle voci delle letterate spettava un posticino nella dimensione della lirica, grazie allo spazio che aveva loro aperto Rosalía de Castro, ma che tante femministe si erano adoperate per conquistare anche i linguaggi della prosa e del romanzo.
Chiesi a una mia amica galega di stilarmi una lista di autrici e di titoli che considerasse rilevanti e fra questi pescai poco più che a caso un romanzo: O club da calceta di María Reimóndez (tr. it. Il club della calzetta, a cura di A. Castellucci), traduttrice, interprete e femminista di Lugo. Fu un bell’incontro. Il club della calzetta è un club composto da sei donne che ogni giovedì alle otto di sera si incontrano nei locali dell’Associazione Municipale per fare la calzetta. Una scena canonica e rassicurante: sei donne cinguettano ovattate in mezzo a morbidi e innocui gomitoli di lana, facendo ciò che sanno fare bene da una o due Ere. Viste in questa stanza, non sembra che abbiano molto altro di cui occuparsi. Forse, in effetti, non è così per Luz, che è una puttana figlia di puttana che si è messa in testa di dedicarsi alla scrittura, tra un’emorragia e l’altra, e sicuramente un po’ di impegni o di seri pensieri ne ha. Forse anche Rebeca ha qualche distrazione quotidiana, lei che ha un meraviglioso curriculum accademico, ma anche un meraviglioso culo e delle meravigliose tette, per cui passa ore e ore in ufficio a svolgere banali mansioni di segretaria in cambio di un’elemosina e di qualche molestia (e che sarà mai?).
Ma torniamo al romanzo, lasciamo stare gli impegni delle femmine, ancora non ne so niente mentre le guardo.
Il volume si apre con sei ritagli di giornale su cui sono riportate sei notizie riguardanti alcuni incidenti occorsi a sei uomini sul posto di lavoro. Non si capisce bene cosa ci stiano a fare lì, forse l’autrice vuole farci focalizzare sul lessico con cui si parla di incidenti al maschile? Non lo so ancora, continuo a leggere.
Conosco Matilde, che è una donna gigantesca a cui non si adatta nessun abito femminile tra quelli proposti dal commercio. È sposata con un uomo che la tratta come una cameriera e l’unica ad infastidirsi per l’atteggiamento del maritino è la zia morta di Matilde. Si, è morta. La zia Davinia è un fantasma ingombrante da cui Matilde ha ereditato la sua ingombrante stazza. Accompagna Matilde nel suo lavoro di donna delle pulizie, la insulta per il suo immobilismo e per la sua inettitudine, la sprona e riesce a guidarla fino al club della calzetta. Pare che l’incontro con le altre cinque donne del club sia la questione in sospeso di zia Davinia. Man mano che procede la conoscenza con le compagne e la trama del loro intimo legame si va tessendo, Matilde diventa più forte, riesce a chiedere a suo marito di farsi gentilmente il pollo per conto proprio, a difendersi dalle sue ridicole minacce di aggredirla (lei, che è un pachiderma!), e il fantasma di zia Davinia sparisce dalla vita di Matilde, ma non dalla narrazione.
La figura di Davinia è oggetto di una damnatio memoriae operata dalle parenti di Matilde. Intorno alla sua morte c’è un curioso silenzio, e spetta al club della calzetta recuperare il destino e la voce di Davinia. Mentre le esistenze delle sei donne si articolano e si intrecciano, emerge pian piano la storia violenta della zia fantasma.
È il turno di Anxos, che ha cambiato il suo nome dal Castigliano al Galego – interessante il ritorno della questione nazionalista che viaggia in parallelo con la questione femminista – e che è una ex sessantottina militante nel partito. È sposata con un vecchio compagno da cui si sente ogni giorno più delusa, così come si sente delusa dal Femminismo. Entrambe i matrimoni si sono risolti in una ripetizione esasperante degli stessi cori, non c’è più crescita, e non c’è stata la rivoluzione attesa. L’entusiasmo, il confronto, la crescente consapevolezza stimolati dalle chiacchiere con le altre donne del club, inducono Anxos a lasciare finalmente sia il partito che suo marito. Anxos comincia a dedicarsi solo alle ragazze, a riesumare il passato della zia Davinia, a riscattare quella parte del suo sé militante che l’aveva accompagnata da giovane e che ora riesce a tradurre e concretizzare nel rapporto con il club della calzetta. Ci ritroviamo a nostro agio, guardando la figura di Anxos, perché troppo spesso le viene richiesto di esprimersi, ma con garbo, di lottare, ma senza diventare aggressiva: «sii guerriera, ma senza disturbare» (p.88). Noi disturbiamo sempre. I sensi di colpa con cui partivo per la Galizia sarebbero oggetto di una bella strigliata, se incontrassi Anxos.
Rebeca in un mondo al maschile sembra non avere problemi: è bellissima. Alta, bionda, giovane, ha gli occhi azzurri, un bel seno, un corpo mozzafiato, ma proprio non le interessa giocare con quel corpo per ottenere un lavoro che sfrutti la sua immagine. Eppure non le chiedono altro. Attira uomini e occasioni di lavoro come se piovessero. Ma gli uomini finiscono sempre per tradirla, sostituendola con un suo clone a chilometri zero, e lei pensa di meritarselo. Non ottiene nessun lavoro degno della sua preparazione, perché se è così bella deve essere anche abbastanza cretina, e Rebeca finisce per credere anche a questo. Tante volte si è vista cacciare dai colloqui di lavoro con sonore risate in faccia, quando infastidita dalle molestie e dalle richieste esplicite dei futuri capi, minacciava di denunciare l’interessato: ma quanto sei esagerata! Lascio Rebeca con la voglia di rintracciare il tipo che mi chiese di essere carina, dieci anni fa, durante un mio colloquio, o di andare a rigare la macchina a quell’altro che mi ha dato dell’isterica perché non mi interessava vedere particolari parti del suo corpo. Ma Rebecca fa di meglio: trova un appartamento, lascia casa dei suoi, mette su una sua attività a sostegno delle donne, grazie alla collaborazione e alla fiducia delle altre ragazze del club. Ha successo. Mi sento un po’ meglio pure io.
Arriva Elvira. Dolcissima vecchina Elvira. Non si è sposata, nonostante le insistenze dei genitori e di un pretendente che accolse il rifiuto con sgradevoli insulti. Non ha voluto neppure lavorare, perché alla sua famiglia non era interessato farla studiare e ha passato tutta la sua vita nell’unico posto in cui si sentisse sé stessa, in una chiesa. La sola compagnia stabile nell’esistenza di Elvira è stata quella di Antonia, un’altra donnina con cui condivide la chiesa da decenni ma con cui non ha mai parlato di niente. Il club della calzetta riesce a cambiare anche questo e crea finalmente un legame tra le due vecchie, che diventano amiche. Antonia rivela ad Elvira il segreto che la divora da una vita e che riguarda proprio il parroco che per quarant’anni le due hanno assistito in quella parrocchia. Padre Serafín aveva messo incinta e costretto ad abortire l’Antonia diciassettenne. Decidono di sequestrare la Vergine dalla chiesa e di nasconderla nella soffitta di Elvira, che fantastica di poter diventare una prete e di occuparsi di una sua personale evangelizzazione.
Luz è una prostituta in menopausa. Ciò significa solamente che non le saranno più concessi dei giorni di riposo, nella casa chiusa in cui vive, perché non potrà giocarsi la carta-mestruazioni. La sua giovinezza si allontana e la sua persona risulta spesso un prodotto fuori dalle esigenze mercato. Lo scenario di violenze perpetrate ai danni di queste donne-oggetto e l’odio e la rivalità che esiste fra le colleghe è massacrante. La narrazione della Reimóndez è spicciola, evita ogni forma di teatralità e ciò rende più concreto e vivido quello schiaffo, quel cazzotto, il labbro spaccato, il dolore provato quando Luz si trovò da sola con il cliente a cui avevano venduto la sua verginità. Mi chiedo in quale palazzina, intorno ai luoghi che frequento, si adoperi ancora questa stessa violenza ai danni di prostitute e di mogli e di figlie. Ne ho anche qualcuna in mente. Sento Luz vicinissima e sono con lei quando scappa e viene accolta da Elvira e si mette in società con Rebeca e comincia a scrivere. Ed è felice.
Fernanda è una zoppa che ha incontrato un brav’uomo, forse l’unico esemplare di essere umano che la circonda, in mezzo a tanti, troppi, esseri meschini che le ricordano quanto sia inutile. È solo una donna, dopotutto, e per giunta una donna senza un pezzo. L’unico sogno di Fernanda è da sempre quello di guidare un autobus – facendo certamente un lavoro migliore di quello di un autista che la bullizza per la sua disabilità – ma come avrebbe potuto mettersi a guidare, una zoppa? Arriva puntuale anche qui l’effetto benefico del club della calzetta: Fernanda è determinata, è una macchina da guerra. Prende la sua patente, fa modificare un autobus, gioca insistentemente con la compagnia dei trasporti, facendo leva sugli incentivi che si avrebbero con l’assunzione di una disabile. Ha un lieto fine anche lei.
A questo punto è chiaro ciò che è accaduto alla zia Davinia. Ognuna delle sei donne ha messo del suo per completare la tela e ora so che la zia fantasma aveva vendicato lo stupro di una sua amica – che per quel disonore era impazzita – uccidendone lo stupratore, salvo poi essere ammazzata a sua volta. La sua violenta vendetta è il motivo della rimozione di Davinia dalla memoria familiare. Folle, ingombrante, inarrestabile, fastidiosa Davinia che non aveva voluto accettare il canonico silenzio con cui si doveva rispondere a una violenza carnale. Questo personaggio pare quasi una silenziosa allegoria del Femminismo: un fantasma che torna, che riunisce e che ha ancora un prepotente potere.
Il romanzo è un avvincente viaggio in sei realtà dentro cui una donna si immedesima con una facilità allarmante. Vedere dall’esterno ciò che ci accade ha un impatto, ed è quasi ridicolo dover affermare, adesso, che le battaglie vinte non sono assolutamente sufficienti. Questo romanzo è un appello a ricordare qualcosa che forse ci è sfuggito, e cioè l’importanza di essere complici tra donne, tra esseri umani, di non essere complici di un sistema che continua a nutrirsi di violenze legittimate e di discriminazioni normalizzate e a dirci che va bene così, che se non ci sta bene, il problema è solo nella nostra percezione.
Ci vorranno un bel mucchio di generazioni perché il Femminismo possa davvero ritenersi risolto. Leggendo ho attribuito al movimento il potere almeno di svegliarmi, di non farci sentire fastidiose quando le violenze ci infastidiscono (per usare un eufemismo), di raccontare a ognuna di noi cosa stiamo ancora subendo, pensando di meritarcelo; credo fermamente che il Femminismo serva anche all’uomo, mentre continuo a leggere.
Mi avvicino alla conclusione del libro. Le sei donne sono cucite insieme in sei vite non più diverse, ma intrecciate l’una con l’altra in un sodalizio virtuoso che lascia davvero di buon umore.
La mente corre alle sei tragiche notizie che aprivano il romanzo. Le rileggo e mi sembra di riconoscere il molestatore di Rebecca, qualcuno degli uomini violenti incontrati da Luz e da Matilde e l’autista che ha quasi investito Fernanda e il prete seduttore di Antonia. Ma sarà solo un’impressione. Si è trattato solo di incidenti, dopotutto. Gli incidenti capitano.
Quanto siete esagerati.
L’espediente è farcito di una innocua ironia funzionale alla narrazione, ma dietro il sospetto di una vendetta si fa avanti l’eco di un detestabile luogo comune con cui si è spesso tentato di screditare il Femminismo: l’aggressività della femmina che si emancipa, l’odio delle donne verso gli uomini. È effettivamente facile cedere alla tentazione di vedere una femminista come un’agguerrita eviratrice. Viviamo in una società in cui è molto semplice odiare, e anche scambiare il profondo bisogno di una lotta legittima con uno spudorato odio. Ma è il Patriarcato a impedire il dialogo. È il Patriarcato che impone un unico modello anche all’uomo, inchiodandolo in un ruolo che, messo in discussione dal Femminismo, lo fa sentire odiato e minacciato lì dove si deve riconoscere e forgiare senza scampo. Nel romanzo manca un vero focus sul feticcio prediletto del Patriarcato e vorrei spendere qualche parola su questo totem: il maschio, l’uomo. È davvero così importante il sistema di riferimento che gli viene offerto? In quanti si troveranno davvero comodi nella figurina del Maschio propinata dal Patriarcato? Penso a tanti amici, penso a qualche amante, penso a un ricordo lontanuccio.
Una nostra professoressa ci portò ad un congresso sulla violenza di genere all’Auditorium di Roma, quando eravamo al primo o al secondo anno di Liceo. Non ricordo nulla di quanto venne detto, sinceramente credo che avessi tenuto anche il walkman alle orecchie per buona parte del dibattito. Però captai una frase, una definizione pronunciata da una donna sulla cinquantina, seduta a capotavola nel tavolo posto in mezzo al palco: «Il patriarcato gioca su una incontrovertibile questione anatomica: il pene è un monumento invadente, esterno, si impone con una prepotente visibilità e porta avanti la sua erezione nel corso dei secoli, è un obelisco. La vagina è interna, è nascosta, non è visibile e non si impone in alcun modo evidente nello spazio circostante. È questo ciò che viene richiesto ai due sessi». L’idea che rincorre il maschio è quella di essere un efficace dominatore sessualmente instancabile, una creatura dominatrice che deve raccogliere intorno al suo sistema riproduttivo quante più pretendenti possibili, e possibilmente tutte di una certa qualità standardizzata, perché la qualità di quelle femmine garantisce la qualità del suo fallo, del suo potere e del suo dominio. A costo di sacrificare rapporti e relazioni autentiche, a costo di sacrificare le proprie inclinazioni sessuali, o semplicemente dei personali gusti, degli intimi malumori e disagi. Ciò richiede una discreta fatica ed è vero, tante donne pretendono di relazionarsi con questo tipo di maschio e lo tacciano di negligenza se qualcosa non quadra, perché è questo che ci hanno detto di prendere da secoli, e siamo state brave ad ascoltare il Patriarcato, e – appunto – manca tanto da fare.
A prescindere dalla perdita di un primigenio sistema di riferimento, pare che un uomo sano non possa uscire sano dal Patriarcato. Un uomo sano ha bisogno anche lui del Femminismo, di mettersi in discussione, di smetterla di essere un dominatore eretto per forza. E lo hanno capito già alcuni uomini, come quelli, ad esempio, dell’associazione Maschile Plurale [https://www.maschileplurale.it/info/], nata a Roma nel 2007, in cui militano maschi etero (sposati e non) e maschi omosessuali (sposati e non), col preciso intento – tra gli altri – di relazionarsi sulla parità di genere e sulla violenza di genere, di mettere in discussione i loro ruoli in famiglia e nella società, di riscriversi senza perdere di vista le loro inclinazioni, senza dire addio al loro sistema riproduttivo, senza sentirsi dominati dalla Donna. E contro ogni logica pare davvero che sia possibile. (Pensa!).
Ho terminato di leggere il romanzo e ho conosciuto donne, professoresse, uomini, amici in Galizia; e ho conosciuto la Galizia. Ne ho assaggiato ogni sapore, mi sono innamorata della sua pioggia, del suo vino. Capisco perché mi era stata raccontata in quel modo, capisco la sua femminilità sotterranea intrinseca e viscerale, quel potere che pulsa e cerca di uscire e imporsi; posso respirarla, voglio prendere esempio da un Luogo mentre macino chilometri per le vie del centro storico di Santiago e mi sembra che tutto cooperi per convincermi di quanto sia necessario ridefinirmi e ripensarmi, a piccoli passi.
Sull’utilità del Femminismo non ho più avuto alcun dubbio e a partire da quella lettura ho cercato di mantenermi sempre vigile sull’argomento, di non accettare mai più un commento stizzito sulla necessità e il rinnovamento del movimento e neppure sull’esigenza, a volte, della sua aggressività.
Le parole da spendere sul romanzo, così come le riflessioni sul Femminismo (qui, sarà chiaro, appena accennate), potrebbero seguitare ancora per qualche chilometro. Ma ho parlato già molto. Mia nonna mi avrebbe zittita da parecchio, consigliandomi di dedicarmi a qualcosa di più serio con un detto del nostro paesino abruzzese che dice letteralmente: “ma vai a fa la calzetta va’…”
L'autore
- Dottoressa di ricerca in Italianistica presso “La Sapienza”, Università di Roma. Ha seguito un percorso accademico incentrato sulla Filologia italiana e romanza ed è diplomata in Archivistica presso la Scuola Vaticana di Paleografia, Archivistica e Diplomatica. Si occupa di cantari, di letteratura popolare del Cinquecento e della Storia delle donne. Ha vissuto per un periodo a Santiago de Compostela, lavorando presso il Museo do Pobo Galego, dove ha svolto ricerche sulla letteratura e le tradizioni popolari galeghe e sulla scrittura femminile. Attualmente è docente di Lettere a scuola.
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