Non accade spesso di vedere una pubblicazione galega preceduta da un successo televisivo. Sembrerebbe il ribaltamento di un’idea che circola già da molti anni, secondo cui la letteratura di qualità raggiunge il massimo prestigio e la massima risonanza quando approda in qualche serie audiovisiva. Lo spazio che spetta all’invenzione, in questi casi, certamente non è molto; si tratta in effetti solo di due differenti forme di narrare, non precisamente di letteratura, così come succede anche nelle trasposizioni cinematografiche. Non siamo abituati a questo tipo di processo nella diffusione dei due formati, e sappiamo che generalmente il successo presso il grande pubblico è supportato dalla precedente risonanza che un’opera ha avuto entro il pubblico dei lettori. Sarebbe interessante sapere in che misura i fruitori di questi due tipi di supporto siano sovrapponibili, o se non ci troviamo piuttosto davanti a due dimensioni che raramente si incrociano.
A prescindere dall’affermazione della narrativa mediatica e dal riconoscimento del buon lavoro di Rivas, ad influire sulla diffusione dell’opera grava sicuramente la relazione tra la Galizia e il narcotraffico, una relazione nota, che ritorna dopo aver già trovato un’ottima accoglienza per il libro Fariña e per la sua versione televisiva. La realtà si impone in tutti i suoi aspetti, e in questa misura ha senso la citazione di Valle-Inclán al principio dell’opera.
I tre racconti presenti nel volume condividono il tema e lo spazio: l’ovest, terra della droga e terra sottoposta alle leggi che la droga detta. Pochi possono liberarsi da questo giogo, compresi quelli che non sono coscienti di vivere sotto la sua presa. L’unico modo di sottrarsi dalla morsa del meccanismo imperante è agire furtivamente, come fanno i ribelli o i personaggi che devono ripristinare ufficialmente l’ordine nel territorio, come testimoniano il sergente Ben-Hur e l’ispettore Monterroso. Le persone comuni che arrivano a calpestare le frontiere di questo terreno delittuoso, colonizzato da quelli che vivono nel “capitalismo magico” (p.91), seguono le sue regole per poter sopravvivere. Non è nuova l’opposizione tra mafiosi, impresari, trafficanti o politici – che costituiscono la massa omogenea dei superbi che “tagliano l’aria con la falce” (p. 129) – e tra quelli che, soffocati, architettano modi per sovvertire l’ordine cose.
Rivas segue costantemente una polisemia creativa con cui tenta di codificare l’anticonformismo, e nel suo universo è sempre ben visibile una presa di posizione in favore degli umili e dei dimessi. La ribellione si veste spesso di ironia, o si palesa attraverso elisioni e metafore nei casi in cui la licenza poetica diventa un compromesso necessario. In alcuni casi sono proferite affermazioni che non ammettono replica: “è vietato anche morire di fame”, dice la madre del protagonista del primo racconto. Si noti che, anche se il protagonismo del libro è assegnato a figure fondamentalmente maschili, sono le voci delle donne – benché scarse e un po’ idealizzate – a incarnare l’inventiva delle oppresse a cui si vorrebbe togliere anche il diritto di parlare.
L’unità del libro, oltre alla già citata tematica, è sostenuta da questo tipo di semantica e di pragmatica, ben visibili nel racconto centrale della raccolta che presta inoltre il titolo al libro e alla serie. La narrazione è portata avanti con uno stile cinematografico e sintetico, che vanta come punti di forza il tratteggio preciso di personaggi e il ritmo agile, che accelera man mano che si acutizza la memoria di Namo Bedeira, fino al raggiungimento della tensione conclusiva. Questo racconto segue una divisione interna per sequenze che sottolineano in modo diretto il mosaico di un mondo in putrefazione. Altri racconti evidenziano questa immagine, e lo fanno scegliendo un punto di vista con focalizzazione interna, adottando la prima persona. Non si sceglie però la prospettiva del protagonista, sono gli accompagnatori degli eroi, infatti, che hanno il compito più difficile, ma anche più interessante, di narrare la vicenda. La connotazione della fuga e dei suoi derivati viene caricata a sottolineata ogni volta che il narratore di O medo dos ourizos ripete la parola. Ma la fuga materiale è limitata dal coraggio del suo compagno, a cui resta solo una scappatoia possibile: “io tentavo di fuggire con la mente” (p. 34). Il desiderio di evasione si fa più chiaro nel carcere, spazio del terzo racconto, Sagrado mar. Il carcere certamente non è un luogo in cui il protagonista, compagno del narratore affetto dalla sindrome delle gambe senza riposo, possa parlare di stelle, della socievolezza delle formiche o di Dostoevskij. E non è neppure il luogo dell’amore. In questo spazio ciò che permane è solo la crudeltà da cui non si può fuggire. Il carcere arriva nell’intimo, supera i limiti delle parole e tocca una dimensione dove tutto non può che essere silenzio.
Vivir sen permiso permette di osservare Rivas allo stato puro. L’autore di finzione si sovrappone al giornalista nell’approccio a un mondo che conosce bene, ma a cui si avvicina con le armi stilistiche della letteratura, cosa che di solito manca in questo tipo di testi vicini al documentario. La lettura è senza sorpresa, ma anche senza inganno.
(Traduzione di Silvia Corelli)
L’articolo è uscito in galego nella rivista “Grial” 221 (xaneiro, febreiro, marzo 2019) pp. 70-71.
L'autore
- Inma Otero Varela (Carral, 1976) è attualmente professoressa di Lingua e letteratura galega nelle scuole superiori. È stata lettrice di galego nell’Università “La Sapienza” di Roma dal 2003 al 2008. Collabora come critico letterario in “Grial” e “Novas do Eixo Atlántico*. Ha pubblicato studi sulla narrativa galega in svariati volumi e riviste scientifiche (“Critica del Testo”, “Anuario de Estudos Literarios Galegos”, “Boletín Galego de Literatura).
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