Sfogliare le pagine della nostra storia è sempre un modo intelligente per leggere tra le righe del presente e se questo si compone di una cronaca nazionale e mondiale il cui unico protagonista è il Covid-19, allora la nostra memoria non può non rintanarsi nelle vicende del passato. Riaffiorano pagine celeberrime come quelle manzoniane che hanno raccontato con forza un dolore collettivo, quello di una città e della sua folla; ma scavando ancora più a fondo, ce ne sono altre che ci rendono partecipi di una dimensione più intima, di una fragilità tutta umana.
Era il Millesimus trecentesimus quadragesimus octavus annus quando la nigra mors, la Morte Nera imperversò in ogni angolo dell’Europa mutandone radicalmente il volto come mai era successo prima d’ora, forse solo nelle pagine di Tucidide e nei versi di Lucrezio. Un anno dunque che nos solos atque inopes fecit: frase lapidaria e struggente che delinea i contorni di una solitudine d’animo avvertita forse, ancora di più, perché comune a tutti. E che ci ha resi poveri, poveri di spirito, della compagnia dell’altro e della piacevolezza della socialità, che «neque enim ea nobis abstulit, que Indo aut Caspio Carpathio ve mari restaurari queant: irreparabiles sunt ultime iacture; et quodcunque mors intulit, immedicabile vulnus est [ci ha tolto cose che non si possono recuperare né dal mare Indico né dal Caspio né dal Carpatico; le ultime perdite sono irreparabili e ciò che la morte infligge è una ferita insanabile]». Un testimone purissimo di questo dolore è la Familiares I, 1 di Francesco Petrarca nelle cui parole traspare, come sempre, quella puntuale capacità espressiva ed evocativa propria della sua penna. Il 1348 è stato un anno infelicissimo per il poeta che ha visto tutto il suo mondo sgretolarsi e chiudersi in quella ultima iunctura che spes nostre veteres cum amicis sepulte sunt. I personalissimi lutti a cui Petrarca faceva riferimento sono, primo tra tutti, quello della sua Laura, l’unica donna che il poeta abbia letterariamente amato, e subito dopo il declino della famiglia Colonna. È su di loro che tornerà, nei Rerum vulgarium fragmenta, scrivendo Rotta è l’alta colonna e ‘l verde lauro / … / perduto ò quel che ritrovar non spero /…/ Tolto m’ài, Morte, il mio doppio thesauro. Il clima universalmente funereo che lo circondava lo indusse dunque a fare un bilancio della sua vita, a spostare il suo epicentro poetico assecondando un’ottica straordinariamente intimista, lirica che così tanta fortuna avrà nel corso dei secoli. Ma ogni rivoluzione, pubblica o privata che sia, parte sempre da una domanda: «Quid vero nunc agimus, frater? Ecce, iam fere omnia tentavimus, et nusquam requies. Quando illam expectamus? ubi eam querimus? [Che fare ora, fratello? Ecco, abbiamo già tentato quasi ogni cosa, eppure mai la pace. Quando averla? E dove cercarla?]», e chiedendosi ancora, come dipanando intricati fili della psiche «Et quid inquam, prohibet [..] in terga respicere et gradatim adolescentie tue curas metientem recognoscere? [mi sono detto: che cosa ti proibisce di riguardarti indietro e ripercorrere, misurandole una ad una, le pene della tua giovinezza?]». È da questa semplice riflessione che prenderà vita uno dei progetti autobiografici più solidi e autoriali che il Medioevo avrà modo di conoscere, Familiarium Rerum Liber diceretur. La genesi dell’opera, dedicata poi all’amico Ludwig van Kempen, letterariamente Socrate, diviene indissolubilmente legata al fatidico anno 1348: da un lato la volontà sempre verde di entrare a pieno titolo nell’agone poetico con i grandi autori del passato come Seneca, Cicerone; dall’altro di compiere un’auscultazione quasi maniacale della propria vita e – gradatim – riviverla attraverso la scrittura. È di pochi anni prima un testo che si prefiggeva gli stessi scopi, il Secretum di Franciscus che dialoga con Agostinus ripromettendosi di «avere sé stesso al centro della sua riflessione, pensare solo a sé e alla salvezza della propria anima, raccoglierne gli sparsi frammenti». E, così, improvvisamente il 1348 non è più solo l’anno dell’inevitabile morte, ma si trasforma in qualcosa quasi di insperato che si erigerà nelle architetture del tempo e lo consacrerà alla vera gloria dei posteri. In primo luogo, perché nichil est quod non frangat durus et iugis labor, o come diremmo noi moderni ‘il lavoro ripaga sempre’; e in secondo luogo perché Petrarca è un letterato infaticabile, un versificatore dall’inesauribile penna che si augura scribendi enim michi vivendique unus, […] finis erit e di recolligere et in libri formam redigere. Questo fruttuosissimo (re-)colligere diventerà un’autentica firma poetica del Petrarca e i posteri non mancheranno di coglierlo e di impreziosire i loro epistolari – ora non più su modello pliniano o ciceroniano, ma su quello petrarchesco – con questa espressione. È il caso di Pietro di Blois nel cui prologo si legge «rogatus a vobis epistolas […] colligere et quasi diversas species in unum fasciculum comportare»; e così anche Poliziano «Egisti mecum saepenumero, magnanime Petre Medices, ut colligerem meas epistolas et in volumen redactas publicarem».
Ma l’Aretino non fu certo l’unico a trarre ispirazione da uno dei momenti più drammatici della sua vita, lo stesso fece il suo allievo Giovanni Boccaccio che rese – in quelle pagine immortali dell’Hamilton 90 – vitale la morte e la esorcizzò declinandone il sorriso in cento novelle. Nelle primissime pagine del Decameron, lo scrittore avverte e ricorda quei dolorosi anni:
Quantunque volte, graziosissime donne, meco pensando riguardo quanto voi naturalmente tutte pietose siate, tante conosco che la presente opera al vostro giudicio avrá grave e noioso principio, sí come è la dolorosa ricordazione della pestifera mortalitá trapassata, universalmente a ciascuno che quella vide o altramenti conobbe dannosa e lagrimevole molto, la quale essa porta nella sua fronte. Ma non voglio per ciò che questo di piú avanti leggere vi spaventi, quasi sempre tra’ sospiri e tra le lagrime leggendo dobbiate trapassare. Questo orrido cominciamento vi fia non altramenti che a’ camminanti una montagna aspra ed erta, appresso la quale un bellissimo piano e dilettevole sia riposto, il quale tanto piú viene loro piacevole quanto maggiore è stata del salire e dello scendere la gravezza. Dico adunque che giá erano gli anni della fruttifera Incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nell’egregia cittá di Firenze, oltre ad ogni altra italica nobilissima, pervenne la mortifera pestilenza…
Le tinte realistiche con cui il Boccaccio racconta quella tragica quotidianità assumono dei contorni vividi e ci consentono di condividerne la sincera commozione per una Firenze che ha perso tutti i suoi connotati. Ma queste pagine ci ricordano anche che il dolore umano non ha temporalità, non ha spazialità e il modo in cui si piangeva è lo stesso anche oggi:
Era usanza, sì come ancora oggi veggiamo usare, che le donne parenti e vicine nella casa del morto si ragunavano, e quivi con quelle che piú gli appartenevano piagnevano; […]. Le quali cose, poi che a montar cominciò la ferocitá della pestilenza, o in tutto o in maggior parte quasi cessarono ed altre nuove in lor luogo ne sopravvennero. Per ciò che, non solamente senza aver molte donne da torno morivan le genti, ma assai n’eran di quegli che di questa vita senza testimonio trapassavano […]. Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti leggiadri giovani, li quali non che altri, ma Galieno, Ipocrate o Esculapio avrieno giudicati sanissimi, la mattina desinarono co’ lor parenti, compagni ed amici, che poi la sera vegnente appresso nell’altro mondo cenaron con li lor passati!
E al culmine della miseria umana, risorge l’ispirazione poetica, l’immaginazione:
[…] dico che, stando in questi termini la nostra cittá, d’abitatori quasi vòta, addivenne, sí come io poi da persona degna di fede sentii, che nella venerabile chiesa di Santa Maria Novella, un martedí mattina, […] si ritrovarono sette giovani donne, tutte l’una all’altra o per amistá o per vicinanza o per parentado congiunte, delle quali niuna il ventiottesimo anno passato avea né era minor di diciotto, savia ciascuna e di sangue nobile e bella di forma ed ornata di costumi e di leggiadra onestá…
Come per il vasto progetto autoriale del Petrarca, anche per Boccaccio questo sarà il testo che lo consegnerà alla storia divenendo uno degli esempi più autorevoli di prosa antica. Così il 1348 ha assunto un volto – di nuovo – insperato, scongiurando la profonda amarezza di una morte più che mai tangibile e imprigionando nelle parole un dolore che diventerà immortale.
E anche oggi, in questi mesi così duri e inermi, la storia avanza nelle nostre case e nelle nostre vite e il mondo continua, come sempre, la sua marcia. Ma nonostante tutto ci appaia fermo, il pensiero non riesce mai a esserlo e continua a inseguire qualcosa. Oggi sta disperatamente inseguendo la vita parallela che avremmo potuto vivere in questi mesi: i progetti da portare a termine, i viaggi pianificati, la nostra normalità. Le mille possibilità della vita materiale si sono ridotte e, per gli ottimisti, sono aumentate quelle della nostra immaginazione, dei nostri ricordi; e allora le sequenze di vita passata assumono un sapore più dolce. Le ore passate davanti ai ristoranti per ottenere quel tavolo ci sembrano divertenti passatempi e le lamentale davanti a quel piatto di pasta pagato 18 euro ci sembrano stupide. Ci fanno invidia i mezzi affollati e gli umidi odori dei suoi passeggeri, ci fanno sorridere le corse dell’ultimo minuto al supermercato quando la fila era fatta di acquirenti alla ricerca di nuovi ingredienti esotici per l’ennesima ricetta gourmet di GialloZafferano. Spiazzati e confinati in questo eterno presente, la geografia delle nostre abitudini ha perso tutti i suoi assiomi. Ma nell’impotenza generale affiorano riflessioni, ricordi che creano consapevolezze più forti di quanto ci aspettassimo: quel letterario recolligere sparsa ci ha permesso di guardarci dentro e ci ha restituito nuove memorie. Abbiamo scoperto di vivere meglio se in funzione degli altri, ma ecco che abbiamo scoperto di esistere comunque, di saper fare alcune cose anche solo per noi stessi, e ci siamo amati di più una volta averle fatte. Abbiamo dato un valore diverso alla quotidianità, è riaffiorata come un tesoro dimenticato la semplicità delle piccole cose, di piccoli e squisiti piaceri: rileggere il nostro libro preferito o guardare quel film sempre rimandato, assecondare passioni e passatempi. E alla fine la geografia delle nostre abitudini ha assunto nuovi postulati. E questa sarà una grande memoria, perché l’abbiamo riscoperta, abbiamo ricordato tutti i minimi dettagli del nostro passato e li stiamo raccontando come non abbiamo mai fatto, cioè a noi stessi, assecondando le nostre sensibilità, le nostre paure dividendoli in tanti piccoli fragmenta che ricostruiremo quando questo anno finirà.
Per ora, non ci rimane che chiederci e attendere quali nuove forme e declinazioni questo tempo assumerà nelle pagine degli scrittori del nostro tempo e come tanta letteratura sarà capace di recolligere il proprio dolore guardandosi indietro, come tanti musicisti sapranno restituirci il rumore dei nostri passi nelle città vuote e come tanti piccoli episodi della nostra quotidianità diventeranno nutrimento per una nuova poesia, una nuova storia.
L'autore
- Lucrezia Arianna, classe '97, ha intrapreso e concluso il corso di laurea triennale in Lettere Moderne presso La Sapienza Università degli Studi di Roma, laureandosi con una tesi dal titolo ‘La carta 2r-v del Vat. lat. 3196: un cantiere petrarchesco'. A partire da ottobre 2019 frequenta il corso di laurea magistrale in Linguistica presso la medesima università.