Una vita spesa nel lavoro e negli affetti familiari, Alessandro Soldini non ha mai tralasciato di impegnarsi pure nell’assistenza sociale, dedicandosi a società no profit soprattutto nel campo della prevenzione e della cura dell’alcolismo. Si è laureato in diritto presso l’Università di Friburgo (CH) e, dopo aver praticato per alcuni mesi come avvocato, nel 1971 è stato eletto giudice del Tribunale d’appello, carica che ha ricoperto fino alla giubilazione (2005). È autore di numerose pubblicazioni giuridiche, tra cui, in collaborazione con Andrea Pedroli, il Commentario (1996) e il volume di Complemento (2003) della normativa sull’imposizione degli utili immobiliari nel Canton Ticino.
Pur continuando fino al 2015 a prestare servizio in qualità di presidente della Commissione di ricorso della magistratura del Canton Ticino e a presiedere la Fondazione culturale della Collina d’Oro, il tempo per Soldini sembra dilatarsi perché lo ritroviamo attivo, anzi superattivo pure nel settore dell’arte contemporanea, sua grandissima passione. È chiamato a collaborare con importanti istituzioni, come la Fondazione Gunter e Ursula Böhmer con la finalità di continuare a ricordare l’artista tedesco Gunter Böhmer (1911-1986) che negli anni Trenta si era stabilito in Svizzera, chiamato a Montagnola da Hermann Hesse per illustrargli un suo libro.
Socio dal 2006 dell’Associazione Cento Amici del Libro è membro del Consiglio direttivo dal 2004 al 2016, per conto del quale ha seguito alcune pubblicazioni e curato le esposizioni del 70° alla Biblioteca Nazionale Marciana a Venezia e alla Biblioteca Braidense a Milano. È inoltre l’arbiter, dall’inizio degli anni ’90, delle rilevanti iniziative che si tengono nel porticato della prestigiosa Biblioteca della Salita dei frati di Lugano, di cui è membro del Comitato e per conto della quale coordina e gestisce a tutt’oggi l’attività espositiva.
Come è nata la tua passione per l’arte contemporanea e come l’hai alimentata? Sei anche collezionista e di che cosa in particolare?
Ti rispondo con un aneddoto. Una mia parente, da cui avevo trascorso diversi giorni di vacanza a Roma quando ero bambino, mi ricordava decenni dopo quanto fossi assillante nel voler visitare rovine e monumenti della sua città. Non ero mai sazio! Credo che la mia passione per l’arte affondi le radici in questo periodo della mia vita. Questo mio desiderio di conoscere è andato via via plasmandosi fino a privilegiare l’arte contemporanea, l’arte della seconda metà del ventesimo secolo. E questo grazie anche alla conoscenza e all’amicizia con artisti di generazioni diverse, che mi hanno fatto scoprire e apprezzare il mondo della stampa calcografica e del libro d’artista. E così ho cominciato a procurarmi libri e libri, e a poco a poco la preso corpo la mia collezione: essa è nata in modo spontaneo senza pormi limiti precostituiti ma affidandomi al piacere del momento. Coerentemente disordinata, si potrebbe dire, è una sorta di rassegna delle conoscenze, delle amicizie che ho via via acquisito nel campo della grafica e più in generale in ambito artistico e culturale. In un certo senso mi piace riconoscermi nella saggezza di un monaco buddista che ha vissuto in Giappone a cavallo tra il XII e il XIV secolo, Kenkō, che alla mania delle collezioni complete di tutto preferisce le collezioni incomplete. L’incompletezza di un oggetto, di una collezione la rende interessante e dà l’impressione che ci sia la possibilità di completarla (v. Momenti d’ozio, Adelphi, Milano 1975, p. 19, 83).
Per la Fondazione Böhmer hai curato la mostra Gunter Böhmer. Dal paesaggio naturale al paesaggio interiore (Gentilino, 2001) e, per il centenario dell’artista, l’altra esposizione: Gunter Böhmer. Tra sogno e incubo (Montagnola, 2011). Hai inoltre curato con Sandro Parmiggiani la mostra Nell’officina di Gunter Böhmer alla Biblioteca Palatina di Parma (2019). Disegnatore a tutto campo, Böhmer è illustratore di molteplici volumi; come disegnatore considerato vicino a Otto Dix, è nel contempo pure un maestro della tavolozza. Come sei entrato in relazione con la Fondazione e come ti sei relazionato all’arte di Böhmer?
L’incontro con l’opera di Böhmer è uno di quei casi fortuiti che non nascono per puro caso. Verso la metà degli anni novanta stavo seguendo per conto della Fondazione culturale della Collina d’Oro l’organizzazione di una mostra con relativo catalogo dedicata alla figura e all’opera di Hans Giovanni Mardersteig, che nel 1922 aveva fondato a Montagnola l’Officina Bodoni. Venni a sapere da Letizia Tedeschi, curatrice della mostra, che la signora Ursula Böhmer Bächler, vedova del pittore Gunter Böhmer, avrebbe dovuto lasciare di lì a poco l’appartamento in Casa Camuzzi e che non sapeva dove avrebbe potuto conservare le opere del marito. Non mi fu difficile trovare, grazie alla disponibilità del Sindaco di Gentilino, un’ubicazione transitoria per l’archivio di Gunter Böhmer.
Da questa fortunosa e fortunata emergenza nacque l’idea di creare una Fondazione e di archiviare a regola d’arte l’opera di Böhmer. L’archiviazione venne affidata a una studentessa che si stava per laureare in Storia dell’arte all’Università di Berna e che aveva già alle spalle una formazione completa come bibliotecaria. Nel Consiglio di fondazione, nel quale fungevo da coordinatore delle attività, sedeva anche il critico d’arte bernese Andreas Fiedler, che già si era occupato dell’opera dell’artista. Devo ammettere che mi ero imbarcato in un’operazione che andava al di là delle mie capacità, ma devo anche ammettere di aver trovato persone di grande qualità e affidabilità, che oggi occupano posti di primissimo ordine.
Le tre mostre ricordate nella domanda hanno consentito di percorrere l’intero arco creativo di Böhmer. Nella mostra del 90° anniversario della nascita (2001) spiccavano alcuni dipinti di grande intensità cromatica che denotavano il suo interesse per la pittura di Raoul Dufy e di Hans Purrmann, che si era rifugiato a Montagnola. La mostra centenario della nascita (2011) metteva in risalto l’opera della maturità, un’opera cupa, costellata di sogni e di incubi: l’opera di un artista dalla forte personalità, che si metteva definitivamente alle spalle l’influenza dei suoi grandi maestri: Emil Orlik Hans Meid e Max Slevogt. La mostra dello scorso anno a Parma, quella che mi ha maggiormente impegnato, era incentrata esclusivamente sui molti libri che Böhmer ha “illustrato”, alcuni dei quali sono dei capolavori, che non lasciano con il fiato sospeso. Ancora oggi quando apro Die schwarze Spinne di Gotthelf, Scheckige Mustangs di Faulkner o Unter dem Rad di Hesse, mi emoziono.
La tua collaborazione con la Biblioteca della Salita dei frati di Lugano risale all’epoca in cui era ancora in vita padre Giovanni Pozzi (1923-2002), docente di fama internazionale, del cui magistero si nutre ancora la cultura, non unicamente quella svizzera. Quali ricordi hai di lui? Facevi parte dello staff dei suoi collaboratori?
Non ricordo esattamente. Credo di essere entrato a far parte del Comitato dell’Associazione Biblioteca Salita dei frati nella prima metà degli anni novanta. Non conoscevo padre Pozzi se non per la fama di grande letterato e per il ricordo che avevo della sua figura quando, allora studente di diritto, mi capitava di incrociarlo nei corridoi dell’Università di Friburgo. Conoscevo invece diversi suoi studenti e percepivo la profonda stima che avevano per il loro Professore. Ebbi modo di conoscere meglio padre Pozzi durante le sedute del Comitato dell’Associazione Biblioteca Salita dei frati, in cui si discuteva anche dell’attività espositiva, e occasionalmente quando mi trovavo nel porticato della Biblioteca intento ad allestire una mostra. Padre Pozzi mi fu di grande aiuto, soprattutto quando facevo delle proposte che potevano apparire bislacche, come quando proposi una mostra di Pierluigi Alberti, un artista che trasferiva su tavolette di scagliola il “linguaggio” del bostrico, un linguaggio naturale fatto da un intrico di solchi scavati nel legno da un coleottero che in quegli anni devastava anni le abetaie; o quando proposi la mostra di “Libri refrattari”, di Pompeo Pianezzola: libri e tavole in ceramica. Ricordo che padre Pozzi spese “solo” un paio di parole, risolutive, che infransero lo sconcerto che percepivo sul volto di alcuni dei presenti. Ricordo, come se fosse ieri, che al termine della riunione mi suggerì un nome: Athanasius Kircher. Un suggerimento che mi fece accostare, con disinvolto arbitrio, la labirintica bellezza degli intrichi scavati da un coleottero alla ben più “magica” natura dei geroglifici decifrati da Kircher.
La Biblioteca della Salita dei frati, progettata finanche negli arredi dall’architetto Mario Botta, al Convento dei Cappuccini di Lugano, è stata aperta al pubblico nel 1980 per mettere a disposizione di studiosi e lettori i ricchi fondi librari del convento. Come si inserisce l’attività espositiva nelle finalità della istituzione e come è avvenuto il tuo “reclutamento”?
Frequentavo già da alcuni anni il porticato quale membro dell’Associazione degli amici dell’Atelier calcografico (AAAC). L’associazione stampava ogni anno, e stampa tuttora, tre incisioni calcografiche di artisti diversi destinate ai propri soci. Collaboravo attivamente con Gianstefano Galli, il torcoliere dell’associazione, all’allestimento delle esposizioni di diversi artisti, rigorosamente di incisioni calcografiche, dei diversi artisti. In quegli stessi anni nel porticato avevano avuto luogo due mostre pionieristiche proposte da Paolo Tesi: I libretti di Mal’aria di Arrigo Bugiani e Febbre libraria. Tra diletto e progetto. Più che reclutato, venni risucchiato nel Comitato e mi assunsi il compito di coordinare l’attività espositiva dell’AAAC con la nascente attività espositiva autonoma dell’Associazione Biblioteca Salita dei frati. Proposi una linea chiara, volta a evitare di entrare in conflitto con le gallerie private della zona e individuai nell’esposizione di libri una nicchia che non andava a sovrapporsi, a porsi in concorrenza con le gallerie. Con il tempo i contorni dell’attività si sono sempre delineati in modo sempre più preciso. Al centro delle nostre attenzioni vi era il livre d’artiste o livre de peintre. Uso non a caso la terminologia francese, che è quella che permette di meglio delimitare l’attività espositiva della Biblioteca. Ciò non ha impedito di fare delle eccezioni, proponendo mostre tematiche sempre attorno al libro, facendo capo ai fondi della Biblioteca. Chi fosse interessato, non ha che da consultare il sito della Biblioteca in cui si possono trovare tutti i numeri della nostra rivista Fogli, dove ogni anno propongo una panoramica ragionata dell’attività espositiva svolta.
Hai ospitato e organizzato molte mostre con particolare attenzione per l’arte astratta soprattutto italiana, ma non solo. Come ti sei avvicinato a tale espressione artistica e come procedi negli inviti che coinvolgono soprattutto personalità di notevole momento?
Non direi che ho privilegiato consapevolmente l’arte astratta italiana. Certo, anch’io, come ognuno di noi, ha le sue preferenze. Sono stato influenzato dall’amicizia con il pittore e incisore Massimo Cavalli, tra i massimi esponenti dell’informale nel Canton Ticino e non solo! La storia delle esposizioni nel porticato, ormai una settantina, deve ancora essere scritta. Nelle mie scelte mi sono sempre attenuto a due criteri: gli editori di libri d’artista e la possibilità di organizzare un’esposizione con uno sforzo contenuto e con costi tendenti a zero (un’equazione non facile). Il primo criterio è poi stato allargato, includendo anche gli artisti o, meglio, quegli incisori che vantano un’opera grafica nel campo dell’incisione e del libro d’artista e dintorni sufficientemente ampia per sostenere una mostra personale: è il caso di Franco Rognoni, di Walter Valentini, di Alina Kalczynska, di Giulia Napoleone, di Alessandra Angelini (con Il giardino è aperto, in cui sono state presentate prove di stampa e di colore, schizzi e disegni preparatori, prove di esposizione alla luce delle solarplate, in relazione con il volume edito dai Cento amici del libro), delle scritture visive di Roberto Sanesi, degli alfabeti dei caratteri di stampa e dei monogrammi di Imre Reiner, delle carte ebrû di Alberto Valese e anche dei libri e delle cartelle d’artista di Massimo Cavalli nel primo anniversario della morte.
La precedenza mi sembra tu l’abbia sempre rivolta al mondo del libro d’artista, dizione che viene spesso messa in discussione, c’è perfino chi la nega. Che cosa intendi tu con tale definizione e che cosa cerchi negli autori che inviti al porticato, dando la precedenza ad opere in cui le espressioni letterarie si coniugano con i rilievi di personalità del mondo dell’arte?
Oggi la nozione di livre d’artiste, come la intendo io, è offuscata dalla miriade di artist’s books apparsi sul mercato nel mondo anglosassone e d’Oltre Atlantico a partire dagli anni sessanta del secolo scorso: libri concepiti interamente o quanto meno in modo preponderante da un artista, in cui la tradizionale ripartizione dei compiti tra scrittore e artista scompare e l’intera concezione del libro è assunta dal suo autore. Libri insomma dall’apparenza del tutto “normale”, in cui predominano fotografie riprodotte su carte comuni (povere) o altri tipi di immagini o di interventi grafici, lontani dalle aspettative dei bibliofili tradizionali. Si tratta, come qualcuno ha scritto, di libri caratterizzati da un’autorialità esclusiva.
Non è questo il libro d’artista al quale è rivolta la nostra attenzione. In questo sono legato alla tradizione, mi rifaccio, pur con tutte le aperture possibili e immaginabili, al libro d’artista nato nella seconda metà dell’Ottocento dall’incontro, sottolineo “incontro”, tra letterati e artisti, favorito dall’intraprendenza di raffinati mercanti d’arte. Sono nate in quegli anni numerose iniziative editoriali private che hanno pubblicato, sull’onda del dialogo tra letterati e artisti, raffinati libri “illustrati” con opere grafiche originali, sovente di grande formato, rigorosamente in tiratura limitata, stampati su carte pregiate al tino, firmati nel colophon dagli autori.
Questa, a grandi linee, la nozione di libro d’artista alla quale mi riferisco, nozione al cui interno il dialogo tra artista e letterato può assumere le più svariate declinazioni: dal semplice incontro dell’artista con un autore del passato favorito dall’editore, all’incontro-dialogo tra un artista e un poeta che condividono la medesima atmosfera culturale, all’artista che interpreta, riscrive con il proprio linguaggio il testo dell’autore, all’autore che stimolato dalle immagini create dall’artista le interpreta e le riscrive con la parola, al vero e proprio livre de dialogue, come lo definisce Yves Peyré, frutto di un dialogo simbiotico che si instaura tra i due protagonisti.
Innegabile in questo contesto che possano nascere opere difficili da ingabbiare nell’una o nell’altra categoria. E c’è chi, conscio di questi limiti, rimbalza la palla nel campo del collezionista e parla di livre libre, libro libero, lasciando all’occhio, alla sensibilità del collezionista il compito, la libertà di scegliere ciò che gli piace, facendo saltare gli schemi!
Nelle tue scelte hanno un posto di rilievo le donne artiste. Solo ultimamente si sono succedute personalità di grido come Alina Kalczynska, Marina Bindella, Giulia Napoleone. Trovi in particolare nelle incisioni delle donne e nei loro libri d’artista una maggiore sensibilità rispetto alla produzione di molti artisti maschi?
È vero. Sono artiste che hanno alle loro spalle una lunga carriera, l’edizione di numerosi libri o cartelle d’artista. Va però detto che loro opere erano quasi sempre presenti nelle mostre dedicate ai singoli editori. La mostra di Marina Bindella e delle sue edizioni è stata rinviata per ragioni di forza maggiore a tempi migliori, al prossimo anno.
E per finire, caro giudice, puoi dirci quali sono i tuoi impegni futuri e se questo lungo periodo di inattività fuori dalle mura domestiche ti ha consentito di pensare e progettare nuove iniziative? Potresti darcene un assaggio in anteprima?
Con i tempi che corrono, mi è difficile parlare degli impegni futuri. Un primo impegno è a carattere domestico: il riordino (in parte fatto!) e la catalogazione della mia collezione. Gli altri impegni sono quelli legati al porticato della Biblioteca Salita dei frati. Ho in programma la mostra di un editore parigino a metà ottobre, ma dubito che la si possa allestire e, a parte questo, mi chiedo se abbia senso se dovessimo ancora dover fare i conti, visti i tempi che corrono, con un’apertura condizionata degli spazi, che finirebbe per ridurne la visibilità. In dicembre poi vi sarebbe in programma in collaborazione con l’AAAC un’importante mostra dedicata al centenario della nascita di un Maestro dell’incisione italiana. Ma anche in questo caso la prudenza è d’obbligo. Sarebbe peccato accelerare i tempi e non avere o avere poco pubblico e poca risonanza.
L'autore
- M. G. Tavoni, già professore ordinario di Bibliografia e Storia del libro, è studiosa con molti titoli al suo attivo. Oltre a studi che hanno privilegiato il Settecento ha intrapreso nuove ricerche su incunaboli e loro paratesto per poi approdare al Novecento, di cui analizza in particolare il libro d’artista nella sua dimensione storico-critica. Diverse sono le sue monografie e oltre 300 i suoi scritti come si evince dal suo sito www.mariagioiatavoni.it
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