Francesca Tuscano (7 settembre 1964) si è laureata in Lingue e Letterature Straniere (Russo e Tedesco), in Letteratura italiana presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Perugia e nel corso di laurea LICI dell’Università per Stranieri di Perugia. Ha conseguito il Dottorato di ricerca in Letterature Comparate presso l’Università degli Studi di Perugia, con una tesi sulla presenza della cultura russa nell’opera di Pier Paolo Pasolini. Ha studiato lingua e cultura russa presso l’Istituto “Puškin” di Mosca, nel 1986 e nel 1988. Si è occupata di catalogazione di fondi musicali antichi. Ha lavorato come interprete e traduttrice dal russo. Ha insegnato lingua e cultura italiana presso l’Istituto di Romanistica dell’Università di Salisburgo e all’Università per Stranieri di Perugia, Lingua russa e Letteratura italiana contemporanea alla Facoltà di Lingue Straniere dell’Università degli Studi di Perugia e Traduzione dal russo all’italiano all’Università per Stranieri di Perugia. Si occupa di letteratura, teatro, cinema e musica russi, di bizantinistica, di letteratura italiana contemporanea, e soprattutto del rapporto tra cultura russa e cultura italiana. Ha pubblicato diversi saggi, molti dei quali su Pasolini e su Alvaro, e la monografia La Russia nella poesia di Pasolini (Book Time, Milano 2010). Ha inoltre lavorato a testi di filologia slava, storia locale (su Bova, in Calabria, e Città della Pieve, in Umbria), e sui diritti dell’uomo e del bambino. Ha tradotto testi di B. Akunin, R. Jakobson, V. Chlebnikov, Ju. Lotman, M. Kuz’min, L. Batkin, E. Limonov, K. Medvedev, e scritti inediti di letteratura critica su Pasolini. Ha pubblicato le raccolte di poesie M.Y.T.O. (Era Nuova 2003), La notte di Margot (Hebenon-Mimesis 2007), Gli stagni di Mosca (La Vita Felice 2012) e Thalassa (Hebenon-Mimesis 2015). Ha scritto libretti d’opera e testi teatrali (tra i quali Come si usano gli articoli, pubblicato in I diritti dei bambini, Rubbettino 2005). Nel 2016, per il Mittelfest di Cividale del Friuli, è stata messa in scena l’opera lirica Menocchio su suo libretto (musica di Renato Miani).
Traduci (dal russo), scrivi libretti d’opera, ti occupi di catalogazione musicale, comparatistica (soprattutto nell’ambito dei rapporti tra cultura italiana e cultura russa) e letteratura italiana contemporanea (hai lavorato molto su Pasolini). In che modo tutto ciò entra nel tuo fare poesia?
Tutto quello che faccio ha un comune denominatore – la riflessione sulla lingua, sui codici. E scrivere poesia significa lavorare in profondità con una lingua e un codice. La musica (intesa sia come materiale d’archivio che come lingua che si integra alla poesia e al teatro) è un codice che ha delle norme ben definite, che impongono un rispetto e uno studio spesso disattesi quando si lavora con la propria lingua madre (la mentalità comune talvolta non salva neanche chi fa poesia, e perciò fin troppi ritengono che usare la propria lingua per uno scopo espressivo e non solo comunicativo sia possibile in modo, diciamo così, spontaneo; ovviamente, così non è). Il linguaggio musicale ti obbliga a entrare nella fonologia del testo poetico, che, come ci hanno insegnato i Formalisti russi, Jakobson per primo, e Lotman, è l’essenza del linguaggio poetico. Tradurre, poi, e tradurre poesia, è un esercizio formidabile di studio e penetrazione della propria lingua – a tutti i livelli. Quanto allo studio… male non fa, se si vuole dire e non chiacchierare, anche in poesia. Ho cominciato a scrivere poesia da quando ho imparato a scrivere, e da subito ho sentito che il bisogno di creare (l’ispirazione) non bastava a dire quello che volevo. Era solo la spinta iniziale. La disciplina è importante: la lettura e lo studio ti portano a distruggere, a evitare la tentazione della collezione. Ti addestrano all’umiltà. L’originalità la si acquista solo nel continuo confronto con le scritture degli altri.
Quando hai pubblicato il tuo primo libro, e come hai capito che era il momento giusto?
Ho pubblicato il mio primo libro nel 2007 (La notte di Margot). Prima avevo pubblicato in antologie, con altri poeti. Ho capito che era il momento giusto perché, dalla strage quotidiana che faccio delle mie poesie, era sopravvissuto un numero sufficiente di testi che, sebbene scritti in momenti diversi, avevano una storia comune. Poi, ho avuto la fortuna di conoscere Roberto Bertoldo, poeta e teorico di rara generosità (dote di pochissimi, ho poi capito, nel mondo letterario), che mi ha spinto a pubblicare nella collana di poesia che cura per Hebenon-Mimesis. E, ad essere sincera, anche le raccolte pubblicate poi – Gli stagni di Mosca (uscito con La vita felice) e Thalassa (uscito con Hebenon-Mimesis) – l’ho pubblicate su spinta di Roberto.
Tu pubblichi spesso le tue poesie in Facebook. Hai anche creato una pagina per pubblicare L’anno del corvo, una tua raccolta ancora non stampata, e diverse tue liriche sono apparse in blog di poesia. Credi, quindi, che oggi la poesia vada diffusa soprattutto nel web, piuttosto che apparire in fondo all’ultimo scaffale di tante librerie?
Il web è diventato un luogo piuttosto concreto, ormai. Quasi quanto gli scaffali delle librerie. Forse anche di più. E la poesia, che è nata, come la musica, per vivere di aria (vocalmente emessa, anticamente cantata), sta bene in ogni luogo, purché sia viva. E internet è senza dubbio uno spazio più vivo delle librerie commerciali (ormai fanno eccezione solo poche librerie, coraggiosamente ‘vive’). Certo, il rischio di internet è quello di tutti i mezzi di comunicazione di massa, ossia la semplificazione, la confusione, il confronto falsato. Ma correre questo rischio potrebbe essere preferibile all’esilio in uno scaffale (sempre che ci si riesca ad arrivare).
Quale dovrebbe essere il ruolo della critica e dei critici rispetto alla poesia e alla comunità alla quale essa si rivolge?
Sempre, attorno alla poesia, e a tutta l’arte, si dovrebbe costruire una comunità critica. L’ideale sarebbe che arte e critica nascessero insieme, l’una dall’altra – com’è successo, ad esempio, per il Formalismo russo e le Avanguardie russe. Molto giustamente, Majakovskij scrisse: “Il mio tentativo è un debole tentativo personale, ed io mi giovo dei lavori teorici dei miei compagni filologi. È indispensabile che i filologi dedichino la loro attività all’arte contemporanea e diano un contributo diretto al lavoro poetico da svolgere”. Questo dovrebbe essere il ruolo della critica rispetto all’arte e al pubblico dei lettori.
Il canone è un limite di cui fare a meno o uno strumento indispensabile?
Cito ancora Majakovskij: “Si chiama appunto poeta chi crea le regole poetiche”. I canoni sono importanti (non fosse altro che per distruggerli o per riformarli). Ogni scrittore, ogni poeta, ogni artista il proprio canone se lo crea. Anche l’arte apparentemente più libera segue delle regole. L’attraversamento della tradizione, quindi, ha senso in quanto consapevolezza dei canoni (il proprio e l’altrui), e coscienza che il primo canone da superare deve essere sempre il proprio, altrimenti non si riesce più a comunicare nulla. Lo scardinamento delle regole, così come il loro rispetto, sono fasi naturali della creazione, quando questa è un processo consapevole, autocritico.
In un paese come il nostro, quali modi andrebbero adottati, secondo te, per promuovere la buona poesia?
Per promuovere la buona letteratura e la buona poesia ci vorrebbe innanzitutto una buona scuola (cioè una scuola libera e creativa), e l’abolizione dei programmi televisivi dedicati ai libri (che servono a far pubblicità ai libri come prodotto di mercato, consolidando la mentalità consumistica anche nel campo della lettura). E si dovrebbero creare spazi più diffusi per la lettura pubblica (librerie, scuole, ma anche piazze, parchi, locali pubblici … seguendo il modello di molti paesi del nord Europa).
Quali sono i fattori che più influiscono sull’educazione poetica di una nazione?
L’educazione poetica di una nazione dipende dal valore che quella nazione ha dato, storicamente, alla poesia e all’arte in generale (cioè, alla cultura). Il nostro paese, ad esempio, considera da troppo tempo l’arte e la bellezza come delle cose inutili e idiote (al netto della retorica che molti fanno sull’importanza della cultura). Il fascismo disprezzava gli intellettuali. I nuovi italiani del boom economico hanno seguito entusiasticamente quella strada, e gli anni Ottanta e Novanta li hanno convinti delle loro ragioni. La realtà è che una società che esalta la tecnocrazia, non può che considerare arte e bellezza come un’inutile, improduttiva zavorra. Esempi di nazioni che hanno scelto un’altra strada se ne possono ancora fare, soprattutto a Nord e ad Est, in Europa. Cambiare una mentalità come quella che si è radicata in Italia non è semplice, ma è il primo passo per ridare dignità alla poesia (e, di conseguenza, per diffonderla positivamente). Cosa che devono fare i poeti, e gli intellettuali nel loro insieme, ridando, prima di tutto, dignità a loro stessi, non compromettendosi con il mercato e con la mentalità dell’‘Italietta’.
Quanto ha a che fare la poesia con l’impegno civile?
Il poeta ha enormi responsabilità di fronte al suo pubblico (se gli si permette di averlo …), e proprio perché scrivere poesia è sempre un atto civile. Non parlo, naturalmente, di poesia a tesi, ma dell’atto politico dell’esprimere una percezione inedita della realtà, attuato attraverso il rinnovamento linguistico. Quello che Jakobson dice a proposito dello straniamento. Riappropriarsi del nesso tra segno e significato mediante una percezione straniata e offrirlo a chi legge, restituendogli una visione della realtà altrimenti resa impossibile dall’abitudine e dalla norma sociale. Perciò, per un poeta (per un artista), i comportamenti politici sono fondamentali – l’essere retti (non seri, come avrebbe detto Pasolini), l’essere liberi, l’essere coerenti tra scrittura e vita (sociale). In conclusione, come ha scritto Leo Ferré, non dimenticare che “l’ingombrante, nella Morale, è che si tratta sempre della Morale degli Altri”.
Scrivi per comunicare un’emozione o un’idea?
Ho sempre scritto in conseguenza di una sensazione – un’immagine, un odore, un suono. Poi, all’interno di quella sensazione sentivo che c’era un’emozione e, poi, un’idea. Certo, la poesia ha sempre un messaggio, perché è comunicazione, ma, proprio come nella comunicazione diretta, il messaggio si fa nel modo in cui lo si trasmette, e il messaggio della poesia, quindi, non sta prima della scrittura, ma dentro la sua scrittura. In questo, ancora una volta come nella comunicazione diretta, la poesia ha sempre, contemporaneamente, qualcosa da chiedere e qualcosa da dire.
Che cosa significa per te, in veste di poeta, l’ambiente?
La mia poesia è strettamente legata all’ambiente naturale, quello nel quale vivo, la campagna umbra, e quello del paese d’origine della mia famiglia, Bova (la “capitale” dei Greci di Calabria, in Aspromonte). Osservare e ascoltare la natura ha la stessa importanza dello studio e della lettura, per la mia scrittura, perché per me l’ambiente è lingua, e codice (e ritorno all’inizio della conversazione); un codice imprescindibile e sacro, fondamentale per la poesia.
Ritieni che la poesia ambientale possa avere un ruolo sociale?
Partendo dal presupposto che la poesia ha sempre un ruolo sociale (anche quella che può apparire più intimistica), se è poesia (se si assume il compito di essere la “lingua oscura della realtà”, come ha scritto Lotman), naturalmente anche la poesia ambientale ha la sua rilevanza sociale. La protezione dell’ambiente rappresenta un momento politico ormai vitale. Anche in poesia.
L’intervista è stata realizzata in collaborazione con Sapereambiente
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