1. Traduzione e banda larga
Il giorno prima, due parole dubbie lo avevano arrestato al principio della Poetica. Le parole erano tragedia e commedia […] nessuno nell’ambito dell’Islam aveva la più piccola idea di quel che volessero dire: con queste parole Borges racconta lo straniamento di Averroè quando, traducendo in arabo Aristotele, s’imbatte in due realtà linguistiche, commedia e tragedia, sconosciute alla cultura islamica (J.L. Borges, La ricerca di Averroè, in L’Aleph, trad.it., Mandadori, Milano, 1984). Il filosofo cerca comunque di interpretarle e le traduce in maniera esemplare, consapevole tuttavia di provocare un leggero strappo che lacera il velo della cultura circostante. Ovvero consapevole di provocare l’apertura di quel varco che lascia scorgere, in chi si affaccia al di là di esso, una realtà nuova, infinita, cangiante, indicibile. Lo strappo, diremmo, nella stereotipia mentale che vive chiunque di noi quando si inoltra nel sentiero di una lingua nuova, quando si accorge che essa trascina con sé non solo e non tanto una segnaletica grammaticale (buona più che altro per tenere fermo il volante) ma soprattutto un universo culturale, storico, relazionale fatto di sentieri talvolta stretti, di antiche, secolari abitudini, persino di usanze gastronomiche inesplorate o di gesti e di sguardi.
Cosa aveva intuito Averroè e quale eco rimane di questa sua intuizione nella traduzione di due espressioni che, dalla cultura greca, vengono catapultate in un altrove distante secoli, un altrove quale era la cultura araba del XII secolo d.C.? Probabilmente aveva intuito la possibilità, seppur remota, di stabilire una vera e propria connessione tra il mondo culturale greco e il sentire arabo: la sua azione interpretativa, concretizzatasi in un gesto che va oltre la mera traduzione, aveva costruito un ponte ermeneutico, un link diremmo oggi (e usiamo qui il termine link sic et sempliciter nell’originario significato di “collegamento” come ci suggerisce il lessico informatico). La sua traduzione era stata capace di stabilire un contatto attraverso il quale collocare degli oggetti verbali in una nuova postura semiotica adatta ad essere compresa in un diverso universo semantico e culturale, sapendo probabilmente di cogliere impreparata la realtà e sapendo di provocare uno smarrimento nell’enciclopedia percettiva di chi lo avrebbe letto. Ma è proprio il ponte ermeneutico ciò che ha reso possibile il collegamento, anche se provvisorio, e l’incontro o il reciproco comprendersi di due culture, di due realtà linguistiche diverse e lontane.
Questo episodio, che racconta quanto scivoloso sia il bordo delle cose, come diceva Bloch, e quanto sia difficile attraversarlo per renderlo intelligibile, ci ricorda altresì che un buon traduttore, alla maniera di Averroè, usa a proprio vantaggio anche l’impasse, ovvero la perplessità che ci coglie nel momento in cui si assiste al sovrapporsi di una realtà percettiva nuova rispetto alla nostra (usata e rassicurante) quotidianità. Ma ancora, e infine, questo aneddoto raccontato da Borges (e che ci piace credere storicamente vero) ci dice che senz’altro Averroè aveva intuito il carattere mediale dell’esperienza ermeneutica, ovvero la consapevolezza, secoli dopo descritta con precisione da Hans Georg Gadamer, di quella dinamica profonda sulla quale si radica «il comprendere e il comprendersi reciprocamente»: essa è problematica che investe tutto il linguaggio e non solo il tradurre (H.G. Gadamer, Verità e Metodo, tr.it., Bompiani, Milano, 2000). Per Heidegger «ogni parlare, ogni dire sono in sé un tradurre» anche con se stessi, e rappresentano un tentativo di connessione anche quando la comunicazione si svolge tra parlanti lo stesso idioma perché «noi traduciamo già anche la nostra stessa lingua nella forma che le è propria e […] in ogni colloquio e soliloquio domina sempre un tradurre originario» (M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, tr.it., Mursia, Milano, 1999). Ogni comunicazione, in ultima istanza, è dunque sempre operazione interculturale anche quando l’interlocutore è il simile o il vicino e non soltanto, o non necessariamente, il lontano e l’estraneo: questa dinamica sempre viva, questo movimento reciproco tra due sponde, tra due rive e questo «andare-oltre e tornare- indietro» (Ibidem) accade sempre, in ogni contesto relazionale, dove non basta condividere e adoperare determinati codici oppure avere familiarità con le stesse competenze comunicative, ma occorre cercare un sistema di riferimento comune nel quale trovarsi e abitare momentaneamente. Ma trovare e abitare un sistema di riferimento comune, intermedio, non vuol dire restringere la zona d’incontro e trovare dei minimi comun denominatori, siano essi culturali, linguistici, sociali, sui quali tentare l’impresa, tentare il rischio della comunicazione. Tutt’altro. Proprio perché rischiosa e fallibile, la comunicazione ha bisogno di un terreno ampio, di un largo tappeto, di una grande rete – diremmo – su cui atterrare, di un terreno non solo inter-medio, ma iper-medio. La comunicazione si rivela sempre una scommessa, una prova ad alto rischio, un evento talvolta improbabile, spesso miracoloso e che necessita di diverse condizioni a contorno perché accada. E perché il fragile filo della comprensione reciproca si mantenga in piedi occorre forse che la connessione abbia una banda larga, larghissima: occorre cioè, fuor di metafora, dilatare il più possibile l’orizzonte culturale di riferimento, condividere, ed estendere, un intero mondo, un’intera rete relazionale.
Non è un caso che il luogo della comunicazione contemporanea, ovvero Internet, contenga in sé il gioco linguistico tra l’efficace sintesi di inter-connected e inter-national (Network) come ambizione, come auspicio, come intento programmatico e come aspirazione collettiva. Lo stare nel mezzo della comunicazione oggi significa aspirare a stare, a sostare al centro della rete comunicativa avendo lo sguardo aperto ai vastissimi orizzonti che solo una visione circolare consente. Nella comunicazione non avviene infatti soltanto un mero scambio unidirezionale di informazioni, ma una complessa dinamica interlocutoria che abbraccia non solo quell’universo vastissimo di conoscenza linguistica, valoriale, etica e simbolica che caratterizza ciascun essere umano in quanto parte di una ben precisa realtà sociale e culturale, ma anche le precognizioni di quest’ultimo, i suoi pre-giudizi intesi alla maniera gadameriana che precedono e anticipano ogni suo giudizio e ogni sua valutazione e delle quali occorre tener conto per mantenere aperta e valida la connessione con l’altro da sé. La fusione di orizzonti comporta nella comunicazione la creazione di un terzo elemento, la ridefinizione di un nuovo territorio, la nascita di una «nuova cosa che non corrisponde propriamente alla cosa originale e che anzi per certi aspetti si presenta persino più chiara dell’originale» (H.G. Gadamer, Verità e Metodo, cit.).
- Didattica online, ovvero un problema ermeneutico
In questo senso ogni comunicazione è traduzione e, in quanto tale, è essenzialmente una scoperta, un’apertura e un movimento verso l’altro nel momento in cui da un lato prende la distanza e la misura degli eventi comunicativi, oggettivandoli, e dall’altro li soggettivizza, interpretandoli, non pedissequamente, in maniera lineare, bensì in maniera dicotomica, «alterata dall’inevitabile alterità» (E. Stein, Il problema dell’empatia, Studium, Brescia, 2015). Alterità che non è soltanto alterità linguistica, ma doppio legame soggetto e oggetto ovvero esperienza connotata dalla polisemia, dalla polifonia, dalla molteplicità di voci, di interpretazioni, di rinvii, di omissioni e finanche di silenzi e di censure.
Questa dinamica è molto evidente e quasi tangibile quando ci addentriamo nel territorio del giudizio estetico, avrebbe detto Kant, ed assistiamo, ad esempio, al miracolo dell’arte quando essa mette in mostra la traduzione delle idee emotive, valoriali, concettuali, oltremodo teoretiche (e soggettive) dell’artista in un diverso universo semantico, dove quelle stesse idee diventano oggetti condivisibili, visibili: esse diventano colori, o linee, o manufatti, pur mantenendo il pensiero e l’emozione dell’autore, anzi estendendolo, allargandolo come realtà aumentata. Ma se lo scultore ha a disposizione il marmo tridimensionale, e se un pittore può far intravedere, attraverso la prospettiva, la plastica bellezza di ogni sua idea, gli scrittori, ad esempio, o i poeti, non hanno che suoni, per di più arbitrari: ovvero hanno soltanto il linguaggio. E il linguaggio non può che servirsi del linguaggio, ma il linguaggio, ci ricorda Wittgenstein, è un labirinto di strade (L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, trad.it., Einaudi, Torino, 1967).
Ebbene, crediamo che al mondo vi siano anche gli insegnanti ad avere a disposizione solo il linguaggio e che anche essi, soprattutto essi, siano chiamati a svolgere un lavoro ermeneutico quando insegnano. Ciò che accade in classe, infatti, è sempre una traduzione, se tradurre significa non solo e necessariamente che vi siano più lingue, o più idiomi, ma anche che sussistano nello stesso ambiente educativo diversi universi di significati, come interlocutori che dialogano o come sentieri che conducono verso l’altro da sé. Se è vero questo allora il gesto ermeneutico di Averroè, ossia la creazione di un luogo di pensiero ulteriore, dove avviene e si compie la dinamica dell’alterità, si rivela gesto essenzialmente educativo perché caratterizzato dall’aspirazione a condurre verso (ex-ducere), a trascinare verso un altrove, ad operare un cambiamento, ad instaurare uno sguardo duale, a ridurre la differenza tra significati e significanti, tra il quod significatur e il quod significat.
E allora vogliamo qui intendere il «metodo Averroè» come paradigma educativo per ogni didattica, anche nella nostra contemporaneità immersa nel digitale, laddove e-learning è proprio e precipuamente traduzione di pensiero, di linguaggio e di conoscenza da un orizzonte ad un altro (dall’orizzonte analogico e plastico dell’aula verso l’orizzonte virtuale e fluido della piattaforma online), per creare una fusione di orizzonte, un terreno comune nel quale muoversi, un nuovo sito, appunto, inteso nell’accezione gadameriana di incontro di universi dotati di senso. Crediamo infatti che ogni problematica educativa sia problematica eminentemente ermeneutica, nel momento in cui realizza luoghi di pensiero nuovi e inediti nell’incontro tra due chi sostanziali (ovvero tra il mondo del docente e il mondo del discente). Così come crediamo di poter dire che l’e-learning, prima ancora che questione metodologica o tecnica, sia problematica ermeneutica, nel momento in cui tenta di realizzare un’ulteriore prossimità non solo e non tanto nella distanza logistica tra docente e discente quanto nella distanza semantica tra un ambiente di apprendimento e un altro (dalla lezione frontale alla lezione digitale, ad esempio) e tra un supporto e un altro (dal testo all’ipertesto).
Nel passaggio dall’insegnamento frontale a quello reticolare/digitale si assiste infatti ad una traduzione del paradigma ermeneutico ed educativo. Dalla comunicazione orale e frontale che prevede la condivisione dello stesso spazio temporale, la condivisione dello stesso testo e della stessa trama, ci si traghetta verso una lezione che soggettivizza lo spazio e il tempo in una proliferazione labirintica di rapporti che si costruiscono e si dissolvono nella rete di legami forti e deboli: essi, a seconda di dinamiche imprevedibili nel loro farsi e costruirsi, capovolgono e decostruiscono il rapporto docente-discente e chiedono di rilocalizzrsi in un sito e in una dimensione spazio-temporale assolutamente nuova.
Le infrastrutture tecno-digitali sono diventate inoltre anche infrastrutture esistenziali, ovvero infrastrutture attraversate, calpestate, dall’esistenza dell’uomo e che al contempo attraversano (talvolta perforando) la sua esistenza proprio nel momento in cui hanno reso possibile un cortocircuito spaziale, un mescolamento, senza più possibilità di distinzione, del qui con l’altrove, dell’ hic con l’alias, e realizzato l’annullamento della distanza fisica in ragione di un’intensificazione dello scambio immediato, della condivisione istantanea, dell’accessibilità: l’evidenza e la percezione dell’esistenza dell’altro o di tutto ciò che è dissimile (culture, individui, realtà religiose o architettoniche) viene risucchiato nell’ordine del simile o anche del plausibile (con tutte le problematiche che questo comporta come il rinnovarsi di false credenze). In ogni caso l’incontro con l’altro e con l’altrove non richiede più uno spostamento fisico perché essi sono prossimi, contigui a noi. Anzi, l’altrove condivide il nostro stesso spazio: «l’altrove cessa quindi di essere un altro dove» (F. Merlini & E. Boldrini, a cura di, Identità e alterità: 13 esercizi di comprensione, Franco Angeli, Milano, 2006). L’apprendimento digitale coinvolge allora senz’altro aspetti tecnici ma intesi alla maniera heideggeriana, ovvero come una tecnica «la cui essenza è vero e proprio disvelamento della relazione tra l’uomo e il mondo e tra uomo e l’uomo» (M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1976) e dove il testo diventa ipertesto nel senso di un ulteriore disvelamento, per successive approssimazioni, di una trama tenuta insieme da legami elettronici (link) la cui fruizione è chiamata navigazione, una sorta «di andare e tornare indietro» multilineare, ramificato, multisequenziale, interattivo, polifonico.
Un ambiente digitale – e tanto più un ambiente di apprendimento digitale – si riproduce e si estende in una dinamica autopoietica che realizza e crea una nuova relazionalità sino al punto da indurci a pensare che la rete non sia un luogo ma una nuova, estesa, potenzialmente infinita dinamica relazionale. Proprio per la sua essenza intrinsecamente relazionale, la rete comunicativa digitale potrebbe (il condizionale è d’obbligo) diventare ambiente di apprendimento e di insegnamento privilegiato, nel momento in cui realizza e fonda una nuova alterità: facendosi e disfacendosi indipendentemente dal sito nel quale ci si trova e realizzando una nuova realtà situazionale estremamente ramificata e labirintica, essa potrebbe rappresentare un circolo ermeneutico in senso spaziale ed esistenziale dove il compagno di banco sono tutti gli altri e potrebbe (ancora un condizionale d’obbligo) trasformare e modificare il rapporto con il sé e con gli altri, con la realtà e le sue rappresentazioni, intervenendo sullo sguardo dell’uomo e sul suo modo di stare al mondo. Mettendo in atto una pluralità di approcci e visioni nonché di strumenti, di piattaforme di apprendimento – fra loro diverse, ma comunque intese come luoghi aperti e comunicanti – una didattica online realizza infatti una fusione di orizzonti che non corrisponde soltanto ad un semplice plurilinguismo metodologico bensì ad una sorta di pluridiscorsività dialogica, un ecosistema vitale ed eterogeneo che acquista funzione metodologica e pedagogica eminentemente filosofica in quanto condizione trascendentale, sfondo e scenario di ogni forma di coscienza critica, etica ed educativa.
3. Un esempio digitale dal passato: Platone e la tridimensionalità dialogica
La traduzione (didattica) da un sistema ad un altro e che impone un capovolgimento di ruoli o un cambio di registro o una nuova grammatica mentale capace di lacerare il velo della stereotipia non è invero una problematica poi così recente: il filosofo Platone ebbe gli stessi dubbi che probabilmente oggi molti docenti stanno vivendo nei confronti dell’utilizzo adeguato e possibile di nuove tecniche comunicative.
Nell’Atene del V e IV secolo a.C. i nuovi strumenti, ovvero l’alfabeto e la grammatica ad esso collegata, erano considerati dal discepolo di Socrate causa di una degenerazione del sapere. Essa si presentava nei termini di una duplice modalità, ovvero come inarrestabile indebolimento della memoria che, affidandosi ad esse, si disperde e si frantuma e come drammatica interruzione del sapere stesso: se ci si affida alla sola scrittura si crea non memoria ma dimenticanza, tuonava Platone (G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, Vita e Pensiero, Milano, 2003). La problematica platonica sull’uso e sull’abuso della scrittura si riconduceva alla consapevolezza che la parola scritta se interrogata, tace e non sa né può rispondere, ovvero non può entrare nella disputa dialettica. Di contro, la parola parlata, orale, è per sua natura agonistica, immersa nella dinamica della comunicazione concreta del qui ed ora, pertanto perennemente attiva ed efficace per l’immediatezza dell’azione epistemica. Tuttavia, pur evidenziando in toni talvolta apocalittici i limiti ineludibili del discorso scritto e pur ammettendo le potenzialità dell’agonismo orale, Platone di fatto scrive e non avrebbe potuto fare diversamente proprio perché quel linguaggio orale, tanto strenuamente difeso, non avrebbe consentito quella complessa articolazione dialettica del suo pensiero. Proprio l’oralità non permetteva infatti il dispiegarsi logico e coerente dei connettivi logici insiti nel maturo linguaggio filosofico platonico.
Ciononostante il filosofo non si adattò ai nuovi strumenti pedissequamente, senza operare un’efficace traduzione, senza piegarli sul suo pensiero: egli creò un’inedita, e personalissima, modalità di trasmissione della filosofia che poté conservare e mantenere intatta la dinamicità della parola parlata. La forma del dialogo aggiunse, infatti, alla flessibilità e all’estemporaneità della trasmissione orale, la forza e il potere dell’espressione scritta in un unicuum che ha attraversato i secoli imponendosi come una delle espressioni più alte di scrittura filosofica, nonché come una delle forme più efficaci di diffusione della conoscenza grazie alla sua natura tridimensionale che può accogliere contemporaneamente e far sedere intorno ad uno stesso tavolo (virtuale, oseremmo dire) sia l’autore, sia gli interlocutori del dialogo descritti nell’opera e infine, ma non ultimo, il lettore che, nelle vesti di mero lettore o nei panni dell’interprete, avverte, in ogni riga, e rimane sempre consapevole, di essere stato scelto, ospitato e accolto per far parte di questo virtuosissimo circolo ermeneutico.
In ogni caso, pur con i necessari distinguo, possiamo tentare un’ipotesi temeraria e ammettere che il dialogo platonico abbia costituito una prima, rudimentale, ma efficace, forma di ipertesto (e non tanto di supertesto), proprio per la sua forma ramificata, a volte persino intricata, come dimostrano i dibattiti ancora in corso circa la sua interpretazione, ma sempre e comunque inclusiva e innovativa.
La tecnologia della parola scritta, a cui Platone fa ricorso, si presenta immediatamente come contenitore capace di trasformare e ridefinire il pensiero, modificandolo, in maniera robusta, in relazione al nuovo medium. L’intuizione didattica platonica risiede nel comunicare per mezzo di testi formattati in modalità dialogica in modo che la rigidità dello scritto possa venire esorcizzata. La forma dialogica non comporta una deriva in un principio di indeterminatezza, ma un coinvolgimento del lettore affinché possa egli stesso costruire, determinare il senso del testo, attraverso un’attiva collaborazione che interpelli, innanzi tutto, la ragione. Questo è l’orizzonte degli eventi entro il quale il lettore di Platone viene gettato: egli è stimolato a muoversi, ad essere reattivo dinanzi al testo, cogliendo un universo di significati che dovrà ermeneuticamente ricostruire.
Il filosofo si intravede tra le righe: impone la propria visione ma in maniera indiretta, implicita. Non impressiona il lettore con un braccio di ferro di autorevolezza, puntellando il discorso con la propria voce. Anzi sarà abilissimo a negare sempre l’autorità dell’autore come in un gioco di specchi che, in realtà, la ingigantiscono. Se Socrate esercitava l’arte della maieutica lasciando all’interlocutore la solitaria responsabilità di partorire la verità, imponendosi così nella storia della filosofia come maestro per antonomasia, Platone si sottrae con la stessa magistrale autorevolezza, ma utilizzando lo schermo, il video diremmo, della scrittura. Egli affrontava quello che oggi definiremmo un problema di “ergonomia cognitiva” (A. Calvani, a cura di, Tecnologia, scuola, processi cognitiva. Per un’ecologia dell’apprendere, Franco Angeli, Milano, 2015) mettendo in risalto il carattere «negoziale del rapporto mente-tecnologia: la mente distribuisce all’esterno un determinato carico appoggiandosi a un supporto e, parallelamente, alleggerisce una sua corrispondente funzione interna». Per quanto riguarda Platone potremmo dire che il suo è stato un caso eclatante di eterogenesi dei fini: le conseguenze, tutt’altro che nefaste, nel futuro prossimo e remoto, dell’uso della tecnologia della scrittura erano, nel IV secolo a.C., assolutamente imprevedibili. E sarebbero state conseguenze felicissime, almeno per la diffusione della conoscenza.
Nella nostra contemporaneità digitale non possiamo negare che da sempre l’avvento di una nuova tecnologia ha provocato nell’uomo lo stesso bisogno di definizione di situazioni che si rivelano immediatamente come ambigue e imperscrutabili, non governabili. Il disorientamento dinanzi alla tecnica, ad una nuova civiltà delle macchine, nasce dall’incapacità, da parte dell’uomo, di immaginare e programmare precisamente il ruolo che un artefatto tecnologico andrà ad occupare nel tempo. Spesso, infatti, la fortuna o l’insuccesso di un artefatto, la sua capacità di penetrare il tessuto sociale e di modificarlo, la sua diffusione capillare, la sua flessibilità nell’uso, dipendono da variabili infinite e caotiche riconducibili al clima, all’humus culturale di quelle ben precise coordinate spaziotemporali all’interno delle quali esso viene catapultato. E soprattutto dipendono dalla domanda di senso o dalla domanda filosofica e pedagogica che l’artefatto, come scoperchiando un vaso di Pandora, riesce a far emergere nell’hic et nunc della storia umana. Su quest’ultima dinamica si innesta l’errore di valutazione e si rivela tutta la scivolosità della previsione dell’uso e del conseguente comportamento umano dinanzi a quest’uso. E su quest’ultima dinamica s’innestano i toni e gli strali, di volta in volta, apocalittici o integrati. Si può, a questo proposito, fare una piccola digressione esemplificativa. L’obiettivo fotografico, come artefatto tecnico, esiste da più di cento anni, nel corso dei quali esso è stato utilizzato per lo più per volgere, amplificare, tramandare lo sguardo dell’uomo fuori di sé. La fotografia è stata per oltre un secolo fotografia dell’Altro da sé: della natura, dell’evento o della circostanza memorabile, del gruppo. In cento anni di obiettivo fotografico quasi mai esso veniva rivolto verso il sé e non tanto e non solo per una difficoltà tecnica (l’autoscatto è sempre stato possibile) ma per un non esserci ontologico del gesto. Non se ne sentiva il bisogno? Il mondo era troppo interessante per occuparsi di sé, per volgere lo sguardo verso il sé, trascurando il resto? È bastato che l’obiettivo fotografico venisse rimpicciolito e reso disponibile quotidianamente su un altro supporto (una piccola, lievissima variazione tecnica) per modificare non solo e non tanto il gesto del fotografare quanto la pulsione che lo accompagna e lo precede. Per modificare intere dinamiche di gruppo. Oggi non abbiamo alcuna difficoltà a piegare l’uso di questa tecnologia nuova ai nostri bisogni, fossero anche solo meri bisogni di visibilità, e mai abbiamo sollevato impedimenti dirimenti, avrebbe detto Manzoni, verso il selfie: esso è diventato accessorio indispensabile della nostra relazionalità digitale.
4. Gli odierni “impedimenti dirimenti” del digitale
Quali sono allora le difficoltà nell’utilizzo della tecnica e della tecnologia digitale nella didattica? Cosa provoca il nostro irrigidimento? Forse, ma anche questa è ipotesi temeraria, c’è ancora profonda e in parte irrisolta la consapevolezza, insita in ogni traduzione, dell’impossibilità di superare l’estraneità dell’altro da sé e, non ultimo, la consapevolezza che in ogni traduzione vi sia una asimmetria, come se un linguaggio originario fosse intrinsecamente prioritario (nel senso di prius storico, logico e ontologico) rispetto alla lingua nella quale viene riversato e condotto, tradotto (in questo caso, fuor di metafora, la dinamica di una lezione frontale ci appare prioritaria rispetto alla sua versione digitale). Come se ogni traduzione escludesse la possibilità di stabilire una comunicazione paritetica e ci conducesse sempre in una direzione di sbilanciamento di rapporti di forza.
Abbiamo conosciuto, in questi anni, le recentissime traduzioni digitali dei libri di testo volte alla sostituzione del cartaceo rimanendone talvolta insoddisfatti perché esse mostrano di essere non pista didattica completamente nuova, non reale traduzione nel senso prima inteso alla maniera di Averroè e, prima ancora, di Platone, ma prodotto esclusivamente editoriale, non interpretato e reinterpretato dall’Autore o dal Curatore, bensì mero “riversamento” digitale della linearità e consequenzialità cartacea originale che viene ricalcata, iper-esposta, sovra-esposta (al pari di una fotografia) piuttosto che reinterpretata, tradotta come prodotto granulare, innovativo nel senso di portatore di nuovi stimoli e nuovi orizzonti conoscitivi. Il prodotto digitale, utilizzato in una dinamica didattica, ci è apparso sempre, inesorabilmente, prodotto di qualità e di resa inferiore al prodotto cartaceo. Così come oggi ci appare qualitativamente inferiore il formato digitale della lezione frontale. Ma questo forse accade perché entrambi sono sempre stati intesi come riversamento e non traduzione autentica, pensata, ponderata, ragionata, rischiosa talvolta, e capace di creare quel terzo oggetto diverso, così come ne parla Gadamer.
Il fastidio che abbiamo provato e proviamo tutti forse dipende dalla consapevolezza che, quand’anche ci sia una traduzione, essa assomiglia molto di più alla traduzione acefala e reperibile su google translate, quando l’algoritmo meccanico tenta di sostituirsi alla competenza ermeneutica ed interpretativa dell’umano e il risultato spesso appare al limite del ridicolo, come osservava Umberto Eco anni fa (U. Eco, Dire quasi la stessa cosa, Bompiani, Milano, 2003). Ma il pregiudizio di un’asimmetria originaria insita in ogni traduzione, per cui il formato o il prodotto secondario rimane secondario, succedaneo, in senso storico, logico e ontologico è appunto mero pregiudizio: secondo Ricoeur «tradurre significa rendere giustizia al genio straniero, significa stabilire la giusta distanza fra un insieme linguistico e un altro. La tua lingua è tanto importante quanto la mia. È questa la formula dell’equità-eguaglianza. La formula del riconoscimento della diversità» (P. Ricoeur, La traduzione tra etica ed ermeneutica, tr.it., Morcelliana, Brescia, 2001).
Nell’impasse che proviamo dinanzi alla traduzione digitale della lezione originariamente analogica ci può essere d’aiuto Noam Chomsky quando ci ricorda che «la composizione e la produzione di un enunciato non si risolvono nel mettere in fila una sequenza di risposte sotto il controllo di una stimolazione esterna e di un’associazione intra verbale [poiché] l’organizzazione sintattica di un enunciato non è qualcosa che si trova rappresentato in modo semplice e diretto nella struttura fisica dell’enunciato stesso» (N. Chomsky, A Review of B. F. Skinner’s Verbal Behavior, in L.A. Jakobovits & M.S. Miron, a cura di, Readings in the Psychology of Language, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, NJ, 1967).
Così «chiarificare un enunciato» significa riformularlo rispetto all’enunciato originale, con l’implicita ammissione di dover necessariamente perdere dei pezzi perché siano sostituiti con altri, come gli Déi greci fecero con la spalla di Pelope divorata da Demetra e prontamente sostituita con un pezzo d’avorio. Ma chiarire enunciati (ovvero tradurre enunciati) è ciò che fa ogni giorno un insegnante inoltrandosi in quel labirinto di strade che è il linguaggio e uscendone talvolta illeso, talvolta ferito, talvolta trionfante e con la testa del Minotauro in mano come fece Teseo. Ebbene, le potenzialità del digitale, ovvero l’uso integrato di codici comunicativi diversi (dall’audio al video, alla mappa concettuale, all’immagine, al rimando bibliografico, senza soluzione di continuità) esigono una radicale revisione e rilettura del linguaggio e del codice usato nei testi scritti o nella lezione frontale verso la cross-medialità e la trans-medialità ovvero verso la possibilità di mettere in connessione i mezzi di comunicazione l’uno con l’altro e verso quella forma narrativa che, attraversando diversi tipi di media, contribuisce a migliorare, a perfezionare, a integrare l’esperienza dell’interlocutore con nuovi input informazionali.
Possiamo qui proporre un esperimento mentale per cogliere le potenzialità di una traduzione a più codici, come esige oggi una didattica digitale: senz’altro dell’Iliade e dell’Odissea ci sono rimasti oggi soltanto i testi scritti, ma se fossimo in grado di riproporne la fruizione con la musica, con le danze, forse anche con il mimo che ne accompagnava la visione orale e collettiva ai tempi dell’antico aedo greco (quando probabilmente anche il pubblico era emotivamente e plasticamente coinvolto nella narrazione, modificandola e alterandola), le stesse opere oggi sarebbero intese ed esperite in modo completamente diverso, e ogni volta diverso. È vero infatti che nell’incontro con i diversi medium e con i diversi codici linguistici, portatori ciascuno di informazioni, il fruitore coopera alla buona resa della storia e alla finale comprensione della narrazione. Il lettore ha sicuramente un ruolo attivo e, attraverso una vera e propria immersione nello storytelling, viene chiamato a ricostruire il significato complessivo interagendo con i vari media, chiamato persino a colmare i vuoti narrativi o cognitivi volutamente lasciati interrotti al pari di sentieri boschivi che attendano d’essere sfrondati, per essere attraversati. Eppure, l’impasse dinanzi all’esigenza di dover tradurre il nostro insegnamento in digitale (come se questo corrispondesse ad un doverci tradurre in digitale, come compressi e zippati in un supporto) ancora rimane, a dispetto di tutto.
Forse allora potremmo consolarci con alcune riflessioni: la prima è che Averroè impiegò diversi anni per tradurre la Poetica aristotelica, e dunque, mutatis mutandis, ogni traduzione richiede tempo e noi siamo solo all’inizio. La seconda, correlata alla prima, è che probabilmente in questi primi mesi di didattica online forzata e forzosa abbiamo proceduto e stiamo ancora procedendo per prove ed errori. Prove ed errori: sarebbe piaciuto a Sir Karl Raimund Popper. La terza riflessione, ma è l’ultima ipotesi temeraria che facciamo, è che forse la didattica online finirà con diventare a noi gradita, così come oggi ci sembra oltremodo gradito un selfie, impensabile anni fa.
L'autore
- Angela Arsena ha insegnato Storia e Filosofia nei Licei del Salento. Si è laureata presso l’Università di Lecce e ha conseguito un dottorato in Filosofia presso l’Università Pontificia Antonianum di Roma, discutendo una tesi in epistemologia con il filosofo Dario Antiseri. Si interessa di mistica e filosofia della religione; si è occupata del fondo scritti Schott-Kerényi, conservato nell’archivio della Biblioteca Augusta di Perugia. Nel 2012 ha vinto la prima edizione del premio Elémire Zolla per la ricerca. Ha contribuito alla voce “Mistica” nel Dizionario Zolliano edito dall’Associazione Internazionale di Ricerca Elémire Zolla. Si occupa di interpretazioni del mito nel pensiero filosofico contemporaneo e di didattica della filosofia.
Ultimi articoli
- Interventi26 Ottobre 2020Gianni Rodari e il fiume carsico della fantasia
- Interventi2 Settembre 2020Maria Montessori e quel supplemento di anima che oggi sarebbe necessario
- Interventi2 Maggio 2020Ritrovare il compagno di banco (virtuale). Appunti sulla relazionalità e sulla didattica digitale
- Interventi30 Marzo 2020Rolf Schott e Karoly Kerényi: un sodalizio intellettuale tra le pagine dell’archivio nella Biblioteca Augusta