La foto di copertina è di Graziano Bartolini
Forse è inevitabile, per quanti sforzi si facciano per eludere il tema, che in questi giorni di isolamento forzato si finisca per riflettere sulla morte: non tanto, almeno per quanto mi riguarda, come evento possibile o come oggetto di paura concreta, quanto per la sua assenza o presenza nella nostra cultura – oserei dire, nel nostro mondo.
Mi sembra chiaro che la morte costituisca l’oggetto della più grande rimozione collettiva della contemporaneità. Non accettiamo più l’idea che essa possa toccarci, né direttamente né da vicino, attraverso i nostri cari, i nostri amici, colleghi, perfino conoscenti. Non è per forza un fatto negativo: che l’uomo tenda a migliorarsi mi pare cosa buona, e che oggi siamo meno disposti a vivere male, a vivere per poco tempo, a vivere malati, è il risultato delle conquiste della nostra intelligenza. Non sono mai stato un laudator temporis acti e continuo a pensare, forse con ostinazione ottusa, che viviamo il miglior presente possibile e andiamo verso un futuro ancora migliore. Che se ci toccasse l’esperienza di attraversare uno qualsiasi dei nostri passati idealizzati ne usciremmo con le ossa rotte, e non solo metaforicamente. Mi ha sempre fatto ridere, ma amaramente, chi dice “Quanto pagherei per aver vissuto al tempo di Dante!”. Ho sempre avuto la tentazione di informare questi sognatori che se la sorte li avesse accontentati avrebbero avuto novantanove possibilità su cento di ridursi a sopravvivere una trentina d’anni curvi su una zolla, come servi della gleba, devastati dalle malattie, precocemente invecchiati e imbruttiti (secondo i canoni odierni, sia chiaro), senza nemmeno sospettare che da qualche parte della terra esista un luogo che si chiama Firenze, figuriamoci sapere che un certo Dante Alighieri sia loro contemporaneo, e ancor meno che abbia scritto una cosa che si chiama Divina Commedia, e taccio sulle possibilità di metter le mani su una copia e men che mai di saperla leggere. Troppo comodo pretendere di vivere nel Trecento e di appartenere anche a quell’uno per cento al quale tutto ciò era concesso – e anche in quel caso, non escluderei che il povero sognatore potesse finire sulla ruota, o rinchiuso nella torre della Muda, o ucciso in una delle tante guerre o da una delle tante pesti.
Tuttavia non intendo neanche affermare che la rimozione del concetto di morte sia affatto positiva. Resta pur sempre un errore, sia dal punto di vista razionale – possiamo raggiungere qualsiasi progresso ma non l’immortalità, come dimostra l’epidemia in corso – sia da quello spirituale, o morale, o culturale. Privandoci della dimestichezza con la morte, rinunciamo a una parte non secondaria della ricchezza della vita.
E allora mi sono tornati alla mente almeno tre episodi vissuti negli anni che ho passato in Bolivia, arrampicato a quattromila metri d’altezza, e che hanno tutti a che fare con la morte (taccio sui miei anni più recenti vissuti in Venezuela, dove il mio rapporto con quest’ultima è stato se possibile ancora più intenso, e lo faccio un po’ per pudore e molto perché sento di avere ancora bisogno di tempo per decantare la materia e farne possibile oggetto di narrazione o di poesia). Gli episodi di cui parlo qui ho avuto già modo di descriverli nel mio El bolígrafo boliviano. Non ne farò una parafrasi, ma non potrò fare a meno di prendere spunto da quelle pagine.
Las ñátitas, innanzitutto. L’espressione più incredibile del culto della morte che sia dato in sorte di conoscere. Paragonabile forse solo a certi risvolti della cultura messicana e di quella siciliana, ma con una concretezza più assoluta. Las ñátitas, termine quechua-aymara, sono teschi. Teschi umani. Veri. Sono quel che resta della testa di persone che un tempo, in carne ed ossa, erano come me e voi. E questi resti si trovano, ancora oggi, nel nostro presente, nelle case di alcuni boliviani. E non mi riferisco a stravaganti personaggi imprigionati in un topos folcloristico impostoci dalla moda del realismo magico o da documentari pseudo-antropologici. Ho conosciuto alcune delle persone che avevano con sé las ñátitas e posso garantirvi che erano persone normalissime e perfettamente inserite nel nostro millennio. Andavano al lavoro in automobile o prendendo un minibus, facevano la spesa in un supermercato pagando alla cassa con il bancomat e vedevano serie televisive attraverso una delle varie piattaforme che molti di voi frequentano. Ma avevano in casa una ñátita. Ovvero, avevano di solito sul ripiano di un mobile (magari non proprio nel salotto nel quale ricevevano visite) una teca in vetro incorniciata da listelli di legno pregiato, al cui interno adagiato su un cuscino riposava un teschio umano, circondato di petali di rosa o di altri fiori e da addobbi vari. È possibile che tra i denti il teschio avesse una sigaretta, o davanti a sé un bicchierino di singani, una sorta di grappa ottenuta distillando non la vinaccia ma gli acini buoni.
Las ñátitas sono uno degli strumenti più sofisticati che io abbia conosciuto per esorcizzare la morte. Ci si procura il teschio in vari modi, quasi sempre acquistandolo sul mercato nero, molto più raramente andando a scavare di notte in un settore sconsacrato e incustodito di un cimitero di periferia. È anche possibile che lo si abbia ereditato o che qualcuno ce lo abbia ceduto. Il più delle volte non si sa nulla della sua provenienza (anche se nel libro racconto di un caso molto particolare) e si finisce per inventarne la biografia. Gli si dà un sesso e un nome e a partire da quel momento ci si prende cura del cranio, si fa attenzione a che non gli manchi nulla, gli si parla, gli si fa compagnia (nei limiti della frenesia della vita che conduciamo: ricordiamoci che il possessore di ñátita è una persona normale, non un alienato che passa le giornate a fissare un teschio), lo si pulisce, lo si profuma, gli si rinnovano i petali, gli si offre da bere o da fumare.
Il giorno più importate è l’8 novembre. Non il 2, non il giorno dei morti. L’8 novembre è il giorno delle ñátitas, almeno a La Paz. Si va al cimitero con la teca sotto braccio, ci si incontra con decine di altre persone che portano lo stesso carico, si organizzano pic-nic allegri sui prati tra le tombe, si beve, ci si presenta le reciproche ñátitas, si lascia che facciano conoscenza, o amicizia, e in alcuni casi si combinano fidanzamenti tra le medesime. Le gerarchie cattoliche hanno cercato di fermare il culto e di proibirne qualsiasi punto di contatto con la religione, ma senza esito. C’è sempre un sacerdote che sfida i divieti e appare all’improvviso tra i viali del cimitero per benedire teschi e accompagnatori, sancire unioni, ricordare a tutti noi che “pulvis es et in pulverem reverteris”.
Il secondo episodio riguarda quello che accade ogni notte nella zona di Avenida Buenos Aires, nel centro storico de La Paz. Dove armate di autentici zombi – ma anche questa volta, parlo di persone in carne ed ossa, che vivono tra noi nel nostro tempo – si incrociano mute dopo il tramonto. Ragazzi, per lo più, condannati a morte precoce, che lacerano i propri corpi in ognuno dei modi che qualsiasi ragione sconsiglierebbe: fumando crack, consumando eroina o cocaina, sniffando colla, bevendo litri di alcohól Caimán, un’acquavite con gradazione alcolica pari a novantasei (non invento né esagero alcunché, è relativamente facile per chiunque di voi procurarsene una latta).
Ho passato una notte con queste bande, insieme a persone che si prendono cura di loro portando cibo, coperte e bevande calde, e nel libro ho raccontato la storia di Lázaro, o meglio, di Ramón detto Lázaro perché letteralmente era resuscitato dai morti. E ho scoperto così che non solo non abbiamo scacciato la morte dal nostro mondo, ma esistono ancora i miracoli. In quell’occasione ero andato anche a radunare i giocatori di una fantastica squadra di calcio, i Mixtura Boys, i Ragazzi Coriandolo, la nazionale dei morti viventi della Buenos Aires che ci avrebbero sfidati nello stadio comunale. Noi con la maglia azzurra della Nazionale e loro con magliette di mille colori, raccogliticce. Alla fine, tuttavia, quello che più ricordo di quella notte è un ballo. Non un ballo sfrenato, presagio di morte, ma ordinato, con una coreografia accurata, messo in scena da zombi maschi e zombi femmine per umiliarmi: essendo incapace da sempre di muovere il corpo a qualsiasi ritmo musicale, quello spettacolo mi ha insegnato che la mia presunta immortalità di uomo occidentale contemporaneo era pur sempre monca di qualcosa di non troppo diverso dalle cartilagini dei nasi o degli orecchi di Lázaro e dei suoi fratelli.
Infine l’ultimo, forse per me il più angosciante. Ho avuto modo, per motivi legati a un progetto della nostra cooperazione allo sviluppo, di conoscere da vicino (anzi, direi letteralmente da dentro) il mondo dei minatori di Potosí. Per chi non lo sapesse, vale un Potosí è l’espressione spagnola originale di quello che poi divenne, anche in italiano, vale un Perù. L’oro, di cui il Perù era zeppo, è certamente il metallo più prezioso, ma anche molto raro. L’argento, relativamente più facile da reperire, era la base della ricchezza dell’impero, e nel XVII secolo la metà della produzione mondiale veniva da una sola regione, l’attuale Bolivia, da una sola città, Potosí, e da un solo monte, il Cerro Rico (la collina ricca, che poi tanto collina non è, raggiungendo la stessa altezza del Monte Bianco). Quest’ultimo era ed è letteralmente crivellato da migliaia di fori e cunicoli. Sono mostruose miniere di argento e di altri metalli preziosi caratterizzate da una doppia assurdità, perché nascono a quote da alpinista, dove l’ossigeno è rarefatto, e poi precipitano all’interno della terra, come ogni miniera che si rispetti. Grazie ad esse Potosí è stata per alcuni anni, nel Seicento, la città più grande e forse più ricca dell’emisfero occidentale. Alcune di queste miniere sono oggi concepite per i turisti. Sono ampie e addomesticate. A me è toccato in sorte entrare nelle altre, quelle ancora attive, e di accompagnare i minatori che ritenevano un gesto di omaggio nei miei confronti portarmi con sé nel luogo ove trascorrevano metà delle loro brevi vite. Brevi, perché per molti di loro il tempo è fermo al Trecento dantesco: muoiono a trenta o quarant’anni divorati dalla silicosi o da tumori, o vittime di esplosioni o di altri incidenti. Scendono in cavità del diametro di un metro, a torso nudo, senza protezione, manipolando esplosivi e picconi come se fossero strumenti di uno sport estremo.
Ho toccato con mano la morte, senza infingimenti, perché ho trascorso una giornata con ragazzi o uomini già condannati, e con le vedove e le orfane di loro amici e colleghi, gratificate dalla tradizione con il ruolo di palliri, ovvero con il diritto di seguire l’uscita dei carrelli dalle miniere e raccogliere con le scope o con qualsiasi altro mezzo i residui di metallo che cadono a terra, divenendone proprietarie e potendo venderle e guadagnare pochi pesos per sopravvivere. In assenza di assicurazioni sociali e pensioni (la maggioranza dei minatori lavora in nero), questa è l’unica concessione che possono ottenere come risarcimento delle vite bruciate dei loro padri o mariti. Ma ho toccato la morte con mano anche perché nelle ore trascorse in un’allucinante cordata con un manipolo di folli e meravigliosi minatori, infilato in budelli senza luce, incastrato nell’intestino di un gigantesco verme con la roccia che mi premeva le costole e nessun pertugio visibile né sopra la mia testa né sotto i miei piedi, muovendomi come un lombrico a forza di spinte del tronco sulle pareti interne delle trippe del Cerro Rico, ho compreso quanto il mio corpo fosse un oggetto tra i tanti sparsi nella geografia capricciosa in cui mi ero andato a ficcare, e che nessun diritto, nessuna prerogativa, nessuna pretesa poteva garantirne l’integrità e perfino la sopravvivenza. E forse è bene non dimenticarsene, in questi giorni.
L'autore
Ha pubblicato i romanzi Una lezione sull’amore (Fazi, 1999), Le porte dell’inferno (Fazi, 2001), Pilar degli invisibili, La favola del mercante Docibile e della principessa siriana (Robin-Biblioteca del Vascello, 2015), Il Danzatore inetto (DeriveApprodi 2018), il libro di favole Il regalo del rinoceronte (Manni, 2004, con illustrazioni dell’autore), le raccolte di poesie Taccuino nero per il viaggio (Caramanica, 2003), Non abbiamo uno sceneggiatore di scorta (Gente Comun, La Paz, 2009), La nostra ribelle buona educazione (Manni, 2011, con prefazione di Enrico Testa, Premio Sertoli Salis 2012 per il miglior libro italiano di poesia del biennio) e I Venerdì Santi (Passigli, 2017), e il libro di racconti El Bolígrafo Boliviano (Robin-Biblioteca del Vascello, 2015).
I suoi libri sono stati tradotti in spagnolo.
Ha tradotto tra l’altro l’antologia di poesie cubane L’isola che canta (Feltrinelli, 1998, a cura di Danilo Manera), Río Quibú di Ronaldo Menéndez (Fazi, 2009), I miei fratelli Fidel e Raúl, di Juanita Castro (Fazi, 2010, con lo pseudonimo di T. Ferreri) e l’antologia di poeti venezuelani Mezzogiorno in Venezuela (Robin-Biblioteca del Vascello, 2017).
Con lo pseudonimo di Mario Cabrera Lima ha scritto la sceneggiatura del film Haiti Chèrie di Claudio Del Punta, premio Giuria Giovane al Festival di Locarno nel 2007 e premio proprio per la sceneggiatura al Festival di Mons (Belgio) del 2007.
È stato anche presidente del comitato organizzatore della Biennale dell’Arte contemporanea de La Paz nel 2009, quando il Presidente della Giuria era Achille Bonito Oliva.
A Basilea ha curato con Germano Celant nel 2006 Avenue Rotella, l’ultima mostra di Mimmo Rotella ancora vivente, tenutasi presso il Museo Tinguely. Collabora con il mensile italiano L’Indice dei Libri, con L’immaginazione (Manni editore), con Margini, la rivista dell’Istituto di Italianistica dell’Università di Basilea, diretta da Maria Antonietta Terzoli, con Insula Europea, rivista on line diretta da Carlo Pulsoni, e con l’Enciclopedia Treccani.
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