1. Tutti, prima o poi, ci siamo chiesti che cosa ci riserva il futuro. E tutti ricordiamo qualche canzone che parla del futuro. A me vengono in mente Leonard Cohen (The Future: «Give me crack and anal sex / Take the only tree that’s left / and stuff it up the hole / in your culture»), i Blur (The Universal: «This is the next century / Where the universal’s free / You can find it anywhere / Yes, the future has been sold»), i Baustelle (Il futuro: «Il futuro desertifica / la vita ipotetica») e Lucio Dalla, per Il motore del Duemila («Noi sappiamo tutto del motore / questo lucente motore del futuro / ma non riusciamo a disegnare il cuore / di quel giovane uomo del futuro») e soprattutto per Futura: «Dove sono le tue mani / aspettiamo che ritorni la luce / di sentire una voce / aspettiamo senza avere paura, domani». E penso che molti si accorgerebbero di ricordare varie canzoni apocalittiche o profetiche, un paio più filosofiche (nelle quali il futuro si attende con timore e con curiosità) e magari anche una – una sola – che parla di un futuro luminoso. Quindi forse non ci meravigliamo troppo quando scopriamo che per Dante il futuro è soprattutto una cosa negativa (anche perché forse credeva nell’imminenza del giudizio universale), con una importante eccezione.
2. Nella Commedia si parla del futuro prevalentemente in due modi (considero sia il sostantivo sia l’aggettivo). Prima di tutto c’è il futuro ultraterreno, dove Dante parla della vita dopo la morte, del giudizio universale, della redenzione del genere umano o della gloria celeste. È questo il significato di futuro quando compare per la prima volta, nel canto VI dell’Inferno. Dante incontra Ciacco e ascolta la profezia con cui il goloso annuncia gli scontri che avverranno tra le parti politiche a Firenze (per Dante sono ovviamente fatti già accaduti) e conclude sentenziando che, a causa della superbia, dell’invidia e dell’avarizia, nella città sono rimasti ormai solo «due giusti» (e dice due per intendere ‘pochissimi’). Ciacco tace, torna a sedere come tutte le altre anime e Virgilio spiega che il peccatore non si solleverà più fino al giorno del giudizio. Il narratore riprende quindi la parola (vv. 100-102) e descrive il cammino del personaggio, «a passi lenti», attraverso la «sozza mistura» di anime dannate («ombre») e di pioggia, trattando per accenni («toccando un poco») della «vita futura», cioè, come si deduce dai versi successivi, del futuro delle anime dopo il giudizio universale (Dante chiede infatti a Virgilio se dopo «la gran sentenza» i tormenti dei dannati saranno più «cocenti»). Nel canto X, Dante usa di nuovo il termine futuro e lo fa proprio per parlare del giudizio universale, descritto come «quel punto / che del futuro fia chiusa la porta» (Inf., X 107-8), ’in cui sarà chiusa la porta del futuro’, cioè il momento in cui un futuro non ci sarà più. Nel Paradiso, canto XX, Dante colloca tra le anime dei giusti Rifeo, un pagano, un eroe troiano citato nell’Eneide, poiché Dio gli ha concesso eccezionalmente la conoscenza della «redenzion futura» (123), ossia la redenzione del genere umano attraverso il sacrificio di Cristo. Il futuro è la gloria celeste nel canto XXV del Paradiso, quando Dante spiega che la speranza è «uno attender certo / della gloria futura» (67-68), traducendo un passo di Pietro Lombardo («spes est certa exspectatio futurae beatitudinis»).
C’è poi il futuro profetico, un futuro sempre ‘negativo’ che è spesso passato, perché Dante già lo conosce e ne parla nelle cosiddette profezie post eventum, cioè quelle che nella finzione poetica riguardano eventi già accaduti della storia, della sua vita personale o di quella dei personaggi della Commedia. Ed è il futuro di vari passi in cui si parla di sogni premonitori o di rivelazioni che non interessano direttamente il personaggio di Dante. Ad esempio, nel canto XIII dell’Inferno, quando il poeta descrive le Arpie che affollano il girone dei violenti contro sé stessi e si accenna al «futuro danno» (12) predetto ai profughi troiani dopo l’arrivo in Italia. Oppure nel canto XXXIII (27-28), dove il conte Ugolino racconta il sogno funesto (il «mal sonno») che gli svela il suo destino («che del futuro mi squarciò il velame»). E ancora nel canto XX del Purgatorio, all’interno del discorso di Ugo, progenitore della dinastia dei Capetingi, al quale Dante assegna il compito di descrivere le malefatte dei suoi propri discendenti; affinché appaiano meno gravi «il mal futuro e ’l fatto» (85), ‘il male già fatto e quello che potrà essere compiuto in futuro’, Ugo ricorda il peccato più grave della casata: l’oltraggio al papa, il vicario di Cristo (il riferimento è al celebre “schiaffo” di Anagni). Questo tipo di futuro ritorna nel Paradiso, nel canto di Cacciaguida (Par., XVII 21-23), quando Dante chiede all’avo di spiegargli meglio le parole angosciose («gravi»), cioè le nefaste predizioni sulla sua «vita futura» ascoltate nell’Inferno («discendendo nel mondo defunto»).
Ma è anche il futuro di presagi generici e universali, come quello di Forese Donati nel Purgatorio, il quale annuncia un «tempo futuro» nel quale si correggeranno i costumi delle donne fiorentine (Purg., XXIII 98: «Tempo futuro m’è già nel cospetto»). Oppure come quello della profezia di Cacciaguida, ancora nel XVII del Paradiso, dove, con il neologismo dantesco infuturare (‘prolungarsi nel futuro’), si fa riferimento a un futuro prossimo e probabilmente indeterminato nel quale il poeta potrà assistere al castigo dei suoi nemici e di coloro che hanno corrotto la Chiesa: la vita di Dante, infatti, durerà ben oltre la punizione dei suoi concittadini («poscia che s’infutura la tua vita / vie più là che ’l punir di lor perfidie», Par., XVII 98-99).
Se si cerca fuori dalla Commedia le cose non cambiano molto. Nel Convivio si afferma che l’uomo saggio deve saper prevedere ciò che accadrà (Conv., IV 27 5: «Convienesi adunque essere prudente, cioè savio; e a ciò essere si richiede buona memoria delle vedute cose, buona conoscenza delle presenti e buona provedenza delle future»). Nella Monarchia si parla una volta (I 3 5) dell’indagine che Dante si ripromette di svolgere («inquisitio futura») e una volta delle persecuzioni future subite dai discepoli di Cristo (III 9 7). Tra le Epistole si può non tenere conto della IX, scritta per conto della marchesa di Battifolle all’Imperatrice Margherita, moglie di Enrico VII, dove si esulta (ma esulta appunto la marchesa, non Dante) ‘nelle presenti e future circostanze’ (Ep., IX 5: «in presentibus et futuris exultans»); e alla fine dell’Epistola XI, indirizzata ai cardinali italiani, c’è ancora un futuro negativo, poiché l’espressione formulare ‘per tutti i secoli a venire sia a esempio per i posteri’ (Ep., XI 26: «per secula cuncta futura sit posteris in exemplum») allude alla cupidigia dei Guasconi che per Dante deve essere appunto, in eterno, un esempio negativo.
3. Ha quindi ragione chi dice che il mondo, per Dante, non aveva futuro? Forse. Ma c’è un passo della Commedia in cui l’atteggiamento nei confronti del futuro è completamente diverso. È quello che possiamo chiamare il futuro positivo e reale di Dante. Siamo alla fine del poema, nel canto XXXIII. Il personaggio di Dante ha appena ascoltato l’orazione alla Vergine di san Bernardo («Vergine madre, figlia del tuo figlio») e la parola torna al narratore che in versi famosissimi paragona la sua visione a un sogno di cui al risveglio restano impresse le immagini oniriche e alle sentenze della Sibilla, scritte su foglie destinate a perdersi nel vento. E poi si rivolge direttamente a Dio, chiedendo che la sua «lingua» sia in grado di trasmettere anche solo una piccola scintilla della gloria divina ai posteri, alla «futura gente» (67-75):
O somma luce che tanto ti levi
da’ concetti mortali, a la mia mente
ripresta un poco di quel che parevi,
e fa la lingua mia tanto possente,
ch’una favilla sol de la tua gloria
possa lasciare a la futura gente;
ché, per tornare alquanto a mia memoria
e per sonare un poco in questi versi,
più si conceperà di tua vittoria.
Dante non sembra voler descrivere il mondo ultraterreno a degli individui destinati alla morte prossima. L’età ultima, l’ora del giudizio universale nella quale comunque senz’altro credeva, è forse abbastanza lontana da poter immaginare che la «futura gente» consideri utile il racconto del viaggio ultraterreno; utile perché i posteri avranno un’idea della grandezza di Dio anche per mezzo del poema sacro («questi versi»).
4. Quindi che cosa intende Dante quando parla di futuro? Osip Mandel’štam, ad esempio, considerava «impensabile leggere i canti di Dante senza rivolgerli al presente» e li pensava «armati per percepire il futuro» (O. Mandel’štam, Conversazione su Dante, a cura di Remo Faccani, Genova, Il melangolo, 1994, p. 96). Ma Mandel’štam non voleva dire semplicemente che la Commedia non è pensata per il presente di Dante; voleva dire che Dante non è mai moderno per nessuno perché è sempre rivolto al futuro: «Dante è antimodernista. La sua contemporaneità è inesauribile, incalcolabile e inestinguibile» (ivi, p. 97). E lo ha ribadito di recente Carlo Ossola sul Sole 24 Ore: «Dante è un poeta in futurum» (L’Alleluja eterno di Dante, «Il Sole 24 Ore», 19 aprile 2020). Anche Gianfranco Contini immaginava un poeta già proiettato verso il futuro: «La contraddizione vitale di Dante è che la sua cultura, scolastica, summatica, universalistica, enciclopedica, sia calata in un veicolo particolare, nazionale e appartenente anche alle “muliercule”. […] L’impressione genuina del postero, incontrandosi in Dante, non è d’imbattersi in un tenace e ben conservato sopravvissuto, ma di raggiungere qualcuno arrivato prima di lui» (G. Contini, Un’interpretazione di Dante, in Id., Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino, Einaudi, 2001, I ed. 1970, pp. 110-11).
Contini parlava però soprattutto della lingua, non tanto della cultura (anche se quella cultura viene continuamente riattualizzata e veicolata dalla lingua); è nella lingua che scatta la «contraddizione vitale», è la lingua di Dante che ai posteri appare giunta «prima di loro», nel futuro. Nessuna di queste sintesi, tuttavia, coglie completamente nel segno. Soprattutto perché, lo abbiamo visto, per Dante il futuro è soprattutto una cosa negativa (una profezia che riguarda sventure già avvenute o che spera accadano ai suoi nemici) o è completamente separato da questo mondo. Dante è antimodernista, certo, ma perché si considera fuori dal mondo. E il luogo in cui Dante spera di arrivare prima di noi, in fondo, è il Paradiso.
Ma per un singolo aspetto sia Mandel’štam che Contini hanno ragione. In Dante c’è senza dubbio una viva, profonda, sincera fiducia nel futuro della Commedia e forse nel futuro della sua opera in generale. Nella Commedia e nell’Epistola a Cangrande (se è sua), Dante spiega con chiarezza in cosa consiste questo futuro: il poema deve essere utile, deve «rimuovere i viventi dallo stato di infelicità in questa vita» (Ep., XIII 15 39), deve dire la verità per poter sopravvivere nella memoria di coloro di «che questo tempo chiameranno antico» (Par., XVII 120). Ed è solo attraverso la Commedia che Dante può sperare nel ritorno a Firenze («con altra voce omai, con altro vello / ritornerò poeta», Par., XXV 7-8). E all’inizio della Monarchia, il trattato latino dedicato al rapporto tra il potere dell’Impero e del Papato (I 1 1-2), ci spiega che il suo talento deve dare frutto e portare alla luce verità mai affrontate, la più utile delle quali è la conoscenza esatta della monarchia temporale (una conoscenza non monetizzabile): «Tutti gli uomini che la natura dall’alto ha improntato all’amore per la verità hanno, più di ogni altro, questo dovere: preoccuparsi che i posteri ricevano da loro di che arricchirsi, così come loro sono stati resi ricchi dall’impegno degli antichi. Deve sapere che si sottrae ai suoi obblighi chi non si cura di portare il suo contributo alla comunità, dopo aver tratto profitto dagli insegnamenti che questa gli ha dato: costui non è un albero piantato lungo il fiume, che al tempo debito dà frutto, ma rovinoso abisso, che sempre inghiotte e mai rende ciò che ha inghiottito» [“Omnium hominum, quos ad amorem veritatis natura superior impressit, hoc maxime interesse videtur, ut, quemadmodum de labore antiquorum ditati sunt, ita et ipsi posteris prolaborent, quatenus ab eis posteritas habeat quo ditetur. Longe nanque ab offitio se esse non dubitet, qui, publicis documentis imbutus, ad rem pubblicam aliquid afferre non curat: non enim est lignum, quod secus decursus aquarum fructificat in tempore suo, sed potius perniciosa vorago semper ingurgitans et nunquam ingurgitata refundens”].
In questo passo ci sono alcune idee contraddittorie dal punto di vista di un lettore moderno. Secondo Dante, innanzitutto, l’amore per la verità e per la conoscenza non è “umano”, ma viene donato dall’alto; e non c’è nulla di meno moderno di questa idea di verità eterodiretta. Poi c’è il futuro: Dante nella Monarchia fa scienza, si occupa di un problema politico contingente per poter essere utile, in maniera disinteressata, a chi verrà dopo di lui; utile, è bene precisarlo, non nell’aldilà, ma in questa vita, poiché l’Impero deve assicurare la pace e la felicità terrena. E infine c’è il passato, o meglio: l’idea di una continuità tra il passato e il futuro, tra gli antichi e i posteri.
C’è un verso di Vincenzo Cardarelli che ho imparato da ragazzo e che non ho più dimenticato: «La speranza è nell’opera». Dante sarebbe stato d’accordo.
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