Jonathan Littell è nato a New York nel 1967. È figlio d’arte. Il padre Robert ha scritto spy story ma anche L’epigramma a Stalin, romanzo nel quale racconta le purghe staliniane che portarono alla morte il poeta Osip Mandelstam. Jonathan ha vissuto in Francia e negli Usa. Oggi risiede a Barcellona. Dopo aver studiato a Yale, Littell entra nella ONG “Action contre la faim”. Per sette anni lavora in zone di guerra: Bosnia, Cecenia, Afghanistan, Congo. Dopo un romanzo cyberpunk in inglese, Bad Voltage (1999), Littell ha scelto un lungo silenzio, interrotto da Le Benevole, quasi mille pagine in lingua francese che raccontano, in prima persona, l’epopea criminale di un ufficiale delle SS, Maximilien Aue. Uscito nel 2006, il romanzo vince numerosi premi, a partire dal Goncourt, e diventa a sorpresa un bestseller mondiale. Le Benevole riapre il dibattito su molti temi ancora difficili da trattare: la banalità del male, la guerra totale, le stragi di civili, la definizione di crimine contro l’umanità, il corretto rapporto con le fonti storiche, i numeri ma soprattutto la natura del conflitto sul fronte orientale, la Shoah. Non sono mancate polemiche rispettose ma dure. Ne ricordo una per tutte. Claude Lanzmann, scrittore e regista, vecchio amico di Jean-Paul Sartre, autore del documentario capolavoro Shoah, ha accusato Le Benevole di umanizzare troppo il Male e dunque di giustificarlo. A ciascuno il suo giudizio da lettore. Littell si fonda su una documentazione imponente ma non bisogna immaginare il lavoro di uno storico che altera appena gli avvenimenti per esigenze di narrazione. Littell è uno scrittore e Le Benevole è pura finzione per quanto molto rispettosa degli avvenimenti reali. Il romanzo, a tratti di una violenza ripugnante, è magnetico e sconvolgente per la mancanza di autocensura. L’orrore fa orrore. Non c’è edulcorazione. Littell dedica un’attenzione profonda all’anima umana di fronte al massacro e al sangue. Maximilien Aue è un uomo fatto di parole. Appassionato di letteratura, infila nel suo memoriale un grande numero di citazioni. Dal canto suo, Littell è un uomo fatto di libri ed esprime la sua passione in una forma particolare, che va al di là della citazione puntuale. Littell infatti riscrive i capolavori della letteratura anche per pagine e pagine. In questo, è possibile vedere un riflesso di un’altra passione di Littell: la pittura. Littell fa sua la poetica espressa da una famosa frase attribuita a Picasso: “L’artista imita. Il genio copia”. Come vedremo, nell’atto di copiare, il genio lascia una traccia di sé, ancora più evidente di quella dell’artista incapace di andare oltre l’imitazione. Le opere posteriori, in alcuni casi solo dal punto di vista editoriale, alle Benevole sono descritte da Littell con un termine che arriva dritto dalla pittura e dalla musica: Studi. Perché Studi? Perché sono racconti fondati sull’imitazione o sull’auto-imitazione, nel senso di approfondimento di un aspetto stilistico e tematico delle Benevole. Come spiega l’epigrafe di Les récits de Fata Morgana, antologia d’autore che include molti di questi scritti: “Studio: composizione strumentale destinata all’apprendimento tecnico (…) Non di meno lascia la possibilità all’artista di esprimere la propria creatività, cosa che lo distingue dal semplice esercizio” (Christophe Hardy).
Un esempio, prima di passare alla riscrittura del trovatore Guglielmo IX. Credo dimostri quanto sia profondo e rischioso il gioco di Littell. Non si può affrontare il tema dell’Operazione Barbarossa e della guerra tra gli ex alleati Hitler e Stalin senza passare dalle pagine di uno dei libri più importanti del Novecento, Vita e destino di Vasilj Grossmann. Nel 1961, il KGB confisca il dattiloscritto, le carte carbone e perfino il nastro della macchina per scrivere. Il grande romanzo, il Guerra e pace del XX secolo, non deve vedere la luce. Grossman ci ha lavorato per dieci anni. Ha appena concluso l’opera. Perché quel libro fa tanta paura? Perché Grossman prende di petto la questione del male nella storia, parte dalla Seconda guerra mondiale, passa dalla vita quotidiana e arriva ai totalitarismi, a Hitler e Stalin. Lo scrittore intuisce la natura comune del comunismo e del nazismo: il disprezzo per l’individuo, la manipolazione della verità, l’idea (assassina) di progresso dell’umanità da ottenersi attraverso lo sterminio di una razza, nel caso del nazismo, o di intere classi sociali, nel caso del comunismo. La scena centrale si svolge in un campo di concentramento tedesco. L’ufficiale Liss, la SS alla direzione del lager, interroga il bolscevico Mostovskoj. Prima di vedere cosa si dicono, andiamo alle Benevole dove incontriamo la stessa scena: Maximilien Aue interroga un prigioniero sovietico, tenente colonnello dell’esercito, in realtà commissario politico. In Grossmann, tocca a Liss esprimere la vicinanza sostanziale di socialismo sovietico e nazionalsocialismo. In Littell è il tenente colonnello sovietico a spiegare lo stesso concetto. Stalin e Hitler sono nazionalisti. Entrambi vogliono esercitare il controllo di Stato sull’economia. L’odio di classe sovietico è gemello dell’odio razziale nazista. La società perfetta potrà nascere solo quando saranno morti tutti i borghesi (nemici del proletariato) e tutti gli ebrei (incarnazione dei difetti del capitalismo). Entrambi i regimi hanno la necessità di individuare ed eliminare i nemici interni. Littell preleva di peso molti dettagli da Vita e destino, come la riflessione dei prigionieri davanti al pacchetto di sigarette offerto dall’ufficiale in comando: la polizia si serve sempre di quel mezzo durante l’interrogatorio per creare un clima di falsa amicizia e ammorbidire momentaneamente i toni. La differenza maggiore è stilistica. In Grossmann, parla in prevalenza Liss. Al commissario è riservato il discorso indiretto libero. In Littell, la scena si risolve in un vero e proprio dialogo. In Grossmann, il bolscevico vacilla. Mostovskoj esce dall’interrogatorio col dubbio che il socialismo sia disumano come il nazismo. In Littell è il nazista Aue a vacillare: e se il nazionalsocialismo fosse soltanto una eresia del marxismo? Aue si riprende e replica al prigioniero: il socialismo sovietico ha perso ogni forza rivoluzionaria e si è trasformato, con Stalin, nella parodia dello zarismo. Il nazionalsocialismo raccoglie dunque l’eredità del vero socialismo, portandola alla perfezione attraverso la purificazione della razza.
Difficile non uscire da questo gioco di specchi senza la convinzione che comunismo e nazismo si assomigliassero più di quanto una certa storiografia abbia mai voluto ammettere.
La biografia di Guglielmo IX d’Aquitania (e VII conte di Poitiers) è molto divertente, anche se è impossibile distinguere la realtà dalla leggenda. I fatti: visse tra il 1071 e il 1126; era più potente, per estensione dei domini, del re di Francia, di cui era vassallo; passò il tempo impegnato in scaramucce feudali; nel 1111 o 1112 fu gravemente ferito in battaglia; partecipò a due crociate: la prima, da lui stesso organizzata, finì male a causa di una imboscata in Terrasanta, la seconda, in Spagna, ebbe un esito migliore; si sposò due volte. Fin qui la storia. Poi c’è il mito: Guglielmo è descritto come un fanfarone, un buffone, un eretico, un libertino dagli appetiti sessuali insaziabili. Le sue rime lasciano di stucco. Per noi sono la prima testimonianza compiuta di un nuovo modo di fare poesia. Ma è una testimonianza così raffinata da presupporre una rete di punti fissi concettuali e stilistici. È una poesia che nasce già adulta, almeno ai nostri occhi. Guglielmo IX canta l’amor cortese ma sfoggia anche notevole ironia. Un segno di modernità ma soprattutto un segno della complicità tra autore e pubblico: si può fare la parodia soltanto di ciò che è già affermato o in via di affermazione.
Le dieci poesie di sicura attribuzione (l’undicesima è discussa) sono tradizionalmente distinte in tre gruppi: sei rivolte ai companhos, alla cerchia degli amici, con tono giocoso e contenuti licenziosi; tre propriamente cortesi; un canto di penitenza (che potrebbe non essere l’ultimo dal punto di vista cronologico, non sarebbe quindi la conclusione edificante di una vita spericolata).
Non è il caso di addentrarsi troppo nella produzione di Guglielmo IX. Piuttosto leggiamo con attenzione la sua canzone più famosa, Farai un vers de dreit nien. È stata variamente interpretata. Potrebbe esprimere la confusione dell’innamorato, traendo spunto da una tradizione poetica (in latino) di ascendenza agostiniana, oppure rispecchiare l’insensatezza della condizione amorosa.
Sorprendentemente, questa poesia di Guglielmo IX d’Aquitania è al centro dell’interesse di Jonathan Littell.
La prima volta compare proprio nelle Benevole, in uno dei capitoli più importanti, il “vero” finale che precede un inatteso “secondo” finale in chiave parodica (che è una riscrittura di Kafka, ma non esageriamo). L’Armata Rossa avanza. Per Aue, è giunto il momento di fare i conti col passato. In licenza, inseguito dalla Gestapo, si ritira per qualche giorno nella residenza prussiana della sorella, sposata a un ricco musicista. La coppia è sfollata, non si sa dove. Aue è solo con la peggiore delle compagnie: se stesso. Qui entra in scena Guglielmo IX, accompagnato da un altro trovatore, mai nominato ma facilmente riconoscibile, Jaufre Rudel. Guglielmo IX viene citato direttamente. Rudel è solo una presenza discreta. Littell gioca con il tema della sua canzone più famosa, Lanquan li jorn son lonc en mai: l’amor de lonh, l’amore di lontano.
“Leggevo Flaubert e anche, quando mi stancavo momentaneamente del grande marciapiede continuo della sua prosa, alcuni versi tradotti dall’antico francese che talvolta mi facevano scoppiare a ridere per la sorpresa: J’ai une amie, ne sais qui c’est, | Jamais ne la vis, par ma foi. Avevo l’allegra sensazione di trovarmi su un’isola deserta, separata dal mondo; se, come nelle favole, fossi riuscito a circondare la proprietà con una barriera invisibile, sarei rimasto lí per sempre ad aspettare il ritorno di mia sorella, quasi felice, mentre troll e bolscevichi inondavano le terre tutto intorno. Perché, come i principi poeti del basso Medioevo, il pensiero dell’amore di una donna reclusa in un lontano castello (o in un sanatorio elvetico) mi soddisfaceva pienamente”.
L’ufficiale delle SS perde il contatto con la realtà, è tra il sonno e la veglia, sospeso tra il passato e il presente, in preda ad allucinazioni sessuali.
“Allora per guadagnare tempo riprendevo uno dei vecchi poeti occitanici, la cui condizione non era tanto diversa dalla mia: No sai cora m fui endormitz, | ni cora m veill, s’om no m’o ditz, «Non so in quale ora sono addormentato, né in quale ora sono sveglio, se non me lo dicono»”.
Aue sogna amori incestuosi con la sorella. Sogna di essere sua sorella. La confusione è sessuale. Aue sperimenta, nel delirio, l’androginia più completa, si immagina ermafrodito. Si prova la biancheria intima della sorella e si contempla davanti allo specchio (due particolari da tenere a mente). Quindi avviene la fusione completa dei corpi.
“I nostri corpi sono identici, volevo spiegarle: gli uomini non sono forse vestigia di donna? Perché ogni feto comincia come femmina prima di differenziarsi, e i corpi degli uomini ne conservano per sempre la traccia, gli inutili capezzoli di seni che non sono mai spuntati, la linea che separa lo scroto e risale il perineo fino all’ano segnando il posto dove la vulva si è chiusa per contenere delle ovaie che, discese, si sono trasformate in testicoli, mentre il clitoride cresceva a dismisura. In realtà non mi mancava che una cosa per essere una donna come lei, una vera donna, la a delle desinenze femminili, l’inaudita possibilità di dire e di scrivere: «Sono nuda, sono amata, sono desiderata». È quella a rendere tutte le donne così terribilmente femmine, e soffrivo smisuratamente di esserne spossessato, per me era una perdita secca, ancor meno compensabile di quella della vagina che avevo lasciato alle soglie dell’esistenza”.
La poesia di Guglielmo IX riflette la condizione di totale spersonalizzazione di Aue, spersonalizzazione che coincide con la perdita dell’identità anche fisica.
“Nevicò durante la notte, ma io vagavo sempre in quello spazio sconfinato dove il mio pensiero spadroneggiava, costruendo e disfacendo le forme con una libertà assoluta, che tuttavia urtava incessantemente contro i limiti dei corpi, il mio, reale, materiale, e il suo figurato e quindi inesauribile, un andirivieni erratico che mi lasciava ogni volta più vuoto, più febbrile, più disperato”.
In Farai un vers de dreit nien, il protagonista afferma di essere stato stregato di notte su un’alta collina: da lì ha cominciato a essere smarrito. Anche ne Le Benevole il delirio di Aue è introdotto da una sorta di rito, nella cantina della tenuta, con una parodia della trasformazione del sangue di Cristo in vino. Al sabba partecipa una “forma”, una forma indistinta, uno spettro che assume le fattezze, ancora una volta, della sorella.
“Mi decisi per una bottiglia e la aprii con un cavatappi appeso a uno spago, bevvi a canna, il vino mi colava dalle labbra sul mento e sul petto, avevo di nuovo un’erezione, adesso la forma stava dietro gli scaffali e oscillava lentamente, le offrii del vino ma non si mosse, allora mi coricai sulla terra battuta e lei venne ad accovacciarsi sopra di me, io continuavo a bere dalla bottiglia mentre lei mi usava, le sputai uno schizzo di vino ma non ci badò, continuava il suo va e vieni ritmico”.
La fine del tomento è vicina. Dopo il delirio Aue respinge il fantasma della sorella. A suggello dell’esperienza, ecco tornare, ancora una volta, la voce di Guglielmo IX.
“Mi alzai: fuori era chiaro, il cielo era nuvoloso ma c’era una bella luce, la nebbia si era dissipata e io guardavo la foresta, gli alberi con i rami ancora carichi di neve. Mi vennero in mente alcuni versi assurdi, una vecchia poesia di Guglielmo IX, quel duca di Aquitania un po’ matto: Farai un vers de dreit nien: / non er de mi ni d’autra gen, / non er d’amor ni de joven / ni de ren au. Comporrò un vers sul puro nulla: / non tratterà né di me né di altri, / non tratterà d’amore né di gioventú / né di null’altro”.
Nelle Benevole, Farai un vers de dreit nien ha la funzione del reagente nei processi chimici. Ma c’è anche un caso di vera e propria riscrittura. È Racconto su niente (2009). Il richiamo, come si vede, è esplicito fin dal titolo. In questo racconto, Littell riscrive in prosa Farai un vers de dreit nien. La storia richiama cobla per cobla la poesia di Guglielmo IX. Molti sono rimasti perplessi davanti a Racconto su niente. Non è un capolavoro ma certamente non è un’assurdità senza capo né coda come qualche recensore ha scritto. Il punto è che per capire Racconto su niente è quasi necessario, e qui sta il difetto dell’opera, conoscere alcune cose: Guglielmo IX e la chiave del racconto. Proprio come la canzone di Guglielmo IX, Racconto su niente contiene qualche segreta allusione che solo l’iniziato (o il complice o la complice) può capire. La natura di questo gioco è tutto cerebrale e letterario. Ecco l’incipit:
“L’idea di questo racconto l’ho avuta l’altro giorno. Percorrevo l’autostrada del Nord; il sole, una sfera di fuoco che bucava il pallore del cielo, soverchiava tutto con la sua luce e il suo calore e, intorpidito sotto quel vasto cielo estivo, vacillavo impercettibilmente al limite del sonno. Non sapevo dove stessi andando; per la verità, non sapevo esattamente se fossi in viaggio oppure se, sdraiato in quella vasta calura sul rettangolo senza lenzuola del materasso, sognassi di viaggiare, oppure, addirittura, se sognassi di guidare mezzo addormentato proprio mentre viaggiavo, con le mani inerti sul cerchio di cuoio nero del volante. Dormendo mi dicevo: di questo dovrei scrivere, e di nient’altro, non della gente né di me, non dell’assenza né della presenza, non della vita né della morte, né delle cose viste e sentite, né dell’amore né del tempo”.
Non è difficile scoprire altri riferimenti diretti a Guglielmo IX specie nel finale. In generale Littell prende Farai un vers de dreit nien come canovaccio. Dopo la scena iniziale, in viaggio, assistiamo all’incantesimo. In Racconto su niente, la magia si realizza quando le crepe di un vecchio specchio assumono le forme di un triangolo (che allude alla vagina). Da quel momento, il protagonista si trova coinvolto in una serie di piccole avventure solo all’apparenza slegate. I fili conduttori sono l’androginia e l’ambiguità sessuale. Il lettore apprende che il protagonista è solito indossare biancheria femminile; è ossessionato da un vecchio film pornografico; frequenta la corrida, simbolo di virilità o di virilità simulata; partecipa alla festa di un amico dove incontra una giovane russa. Si direbbe l’inizio di una storia d’amore ma ecco tornare in scena Guglielmo IX.
“In realtà la ragazza che amavo non era proprio quella, ma un’altra (…) Era bruna, di questo sono più o meno sicuro, bruna e piena di amicizia e di gioia e di follia; non sapevo chi fosse, non l’avevo mai vista prima, eppure la conoscevo, ne ero certo, e anche lei mi conosceva e mi aspettava, distraendo intanto i suoi giorni come meglio poteva, usando liberamente il suo corpo e il suo tempo e la sua bellezza, che tuttavia erano riservati a me, il suo triste cavaliere d’Aquitania”.
Da qui fino alla fine è un accenno continuo a Farai un vers de dreit nien. Le sorprese non sono finite. Appare infatti una terza donna “molto più bella e brava, vivace e buffa e migliore”. Il protagonista la incontra a una festa di piazza, la seduce, la porta a casa e… scoprite voi cosa succede.
Il paragrafo finale ricalca l’ultima cobla di Farai un vers de dreit nien.
“A questo racconto non c’è più niente da aggiungere. Non sapendo da dove venga, non so che cosa voglia dire, né a chi potrebbe essere destinato; ormai si accomiata da me; non mi resta che inviarlo a qualcuno che lo invierà a qualcun altro, più lontano, laggiù, senza speranza che ritorni, che una controchiave possa rimediare alla mia spoliazione”.
Ne Le Benevole, Aue sprofonda in se stesso, nei suoi sogni, nei suoi incubi, nel caos. La perdita d’identità consente al nazista di immaginarsi uomo e donna al contempo, non solo di possedere incestuosamente la sorella, ma di diventare la sorella stessa. Essere puro nulla apre la porta alla possibilità di essere ciò che si vuole, con conseguenze disastrose. Racconto su niente si basa sulla stessa idea ma in positivo: alla fine della confusione c’è la consapevolezza. Il nulla si trasforma, passaggio dopo passaggio, esperienza dopo esperienza, in qualcosa: un uomo che, liberatosi del passato, “si tuffa nell’asprezza della vita, senza guardarsi indietro”.
A margine, un’ultima osservazione, suggerita da uno scambio via mail con Jonathan Littell. Lo scrittore adotta la prospettiva del critico Maurice Blanchot: l’autore non ha un accesso privilegiato al significato della sua opera. Non sa cosa ha scritto anche se lo ha scritto proprio per saperlo. Il testo vive di vita propria, grazie al linguaggio. Affinché viva, deve “morire” il suo autore. Al lettore è consegnata la libertà ma anche la responsabilità di interpretare il libro. Inutile chiedere all’autore di spiegare questo o quel passaggio: non ne sa più del lettore. Qualunque tentativo di attribuire senso al proprio romanzo è nella migliore delle ipotesi parziale e nella peggiore una menzogna. Spesso, dice Littell, una combinazione delle due cose. Ecco dunque una possibile “controchiave”: Farai un vers de dreit nien, per Littell, descrive (anche) la condizione dello scrittore davanti alla sua opera. Imperscrutabile ai suoi occhi ma chiara ai lettori che vorranno darle vita. Sembra un’idea calzante soprattutto per Racconto su niente ma non è così. Aue, ultimato il suo viaggio al termine della notte, in cui l’episodio decisivo è quello centrato su Farai un vers de dreit nien, si scopre scrittore e ci consegna il più scandaloso dei (finti) memoir.
BIBLIOGRAFIA MINIMA
Le citazioni da Le Benevole vengono dall’edizione Einaudi, tradotta da Margherita Botto, uscita nel 2006. Le citazioni da Racconto su niente sono prese dall’edizione nottetempo del 2010 (traduzione di Margherita Botto). La definizione di “Studio” è scelta da Jonathan Littell come epigrafe di Les Récits de Fata Morgana, Gallimard, 2019, traduzione mia.
Esistono alcune edizioni delle poesie di Guglielmo IX. Il punto di riferimento è l’edizione critica a cura di Nicolò Pasero (Poesie, STEM Mucchi, 1973). Le poesie di Jaufre Rudel si possono leggere nella edizione a cura di Robert Lafont con testo a fronte (Jaufré Rudel Liriche, Le Lettere, 1992). Vita e destino, il capolavoro di Vasilij Grossman, si può leggere nella edizione Adelphi del 2008, traduzione di Claudia Zonghetti o in quella classica di Jaca Book, uscita nel 1984, traduzione di Cristina Bongiorno. Il bellissimo film Shoah di Claude Lanzmann uscì nel 1985.
Grazie a Jonathan Littell e alla Andrew Nurnberg Associates.
L'autore
- Alessandro Gnocchi è nato a Cremona il 3 agosto 1971. Ha studiato a Pavia e Firenze. Tra le sue pubblicazioni, l’edizione critica delle Stanze di Pietro Bembo (Sef, 2003) e la curatela degli scritti di Guido Keller, Ala = Pensiero e Azione. Scritti di un rivoluzionario fiumano (Giubilei Regnani, 2019). È caporedattore (cultura e spettacoli) del “Giornale” dal 2009.
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