Giornalista fin dal suo primo impiego, già collaboratore del Domenicale del “Sole24ore” e poi del “Foglio”, Luigi Mascheroni è approdato alla redazione Cultura del “Giornale” quasi vent’anni fa. Contemporaneamente porta la sua esperienza all’Università dove, alla Cattolica di Milano, è docente a contratto e insegna Teoria e tecniche dell’informazione culturale. I libri sono sempre stati il corollario anche delle sue imprese di autore. Si è infatti dedicato con passione alla loro fortuna in senso lato, sia con l’invito a occuparsi delle scelte senza cadere nel collezionismo considerato una follia, sia che i libri siano invece protagonisti del plagio, vizio connaturato negli scrittori, per Mascheroni, “sottile arte” del copiare. Così la quarta di copertina del suo Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi, della sottile arte di copiare da Marziale al web (Aragno, 2015): “La scrittura, come la pittura, il cinema, la musica, da sempre si nutre di ispirazioni, prestiti e contaminazioni”, ovviamente non un modello, ma neppure un delitto, come sembra che l’autore ci voglia dire. Il maggiore interesse nei confronti delle avventure culturali di Mascheroni mi ha portato a incontrarlo prevalentemente per uno spaccato delle sue varie attività, quello editoriale, a cui è pervenuto da pochi anni.
Nel 2016 una vera svolta: con due amici Lei fonda una casa editrice di nicchia che vive su di un unico prodotto, ovvero una sola collana, che tuttavia ha smosso l’interesse di bibliofili raffinati. Come è pervenuto alla fondazione della Casa Editrice De Piante e che cosa l’ha guidata in questa impresa?
Come spesso accade quando ci sono di mezzo i libri, tutto è cominciato in modo molto – diciamo così – casuale. Più che una vera e propria casa editrice all’inizio – e ancora un po’ accade oggi – per noi è un club di amici, che come impegno ha quello di pubblicare un paio di libri, due volte all’anno: due titoli prima dell’estate, due per Natale. Abbiamo sempre pensato prima a noi e ai nostri amici, cioè altri scrittori, artisti, giornalisti, galleristi… E poi al lettore che non conosciamo. Il vero obiettivo era, e in qualche modo rimane, quello di pubblicare i libri che piacciono a noi, e che non si trovano sul mercato: libri fatti bene, curati, eleganti nei materiali, nella impaginazione, nei testi… anche un po’ snob se vogliamo, di certo scelti senza pensare al mercato. I nostri – Montale, Fruttero&Lucentini, Emilio Villa, Soldati, Piero Chiara, Vassalli, Morselli, Mollino… – non sono autori bestseller o per tutti. Infatti il nostro slogan è «Pochi libri per pochi». Ancora oggi per me e i miei soci (Cristina Toffolo De Piante, un’imprenditrice nel campo delle macchine per la stampa, e Angelo Crespi, curator e critico d’arte) la casa editrice prima ancora che un’impresa economica è un modo per “staccare” dai nostri lavori quotidiani e regalarci un po’ di divertimento. L’idea è di pubblicare libri per una nicchia di lettori forti, bibliofili e collezionisti. Amanti del libro inteso non solo come testo e contenuto, ma anche come oggetto, come contenitore. È una fetta molto piccola della torta del mercato del libro, ma comunque ambita. Puntiamo tutto non sulla quantità (stampiamo in tiratura limitata: 300 copie a titolo) ma sulla qualità delle carte, della rilegatura a mano, della sovracoperta realizzata a partire da un’opera d’arte originale che un artista contemporaneo realizza apposta per noi, e poi dei testi: brevi, ma inediti o molto rari, di grandi autori del Novecento italiano: finora abbiamo pubblicato una manciata di lettere inedite di Montale, un racconto inedito di Piero Chiara, un lungo articolo perduto di Vassalli, un dialogo di Mario Soldati inciso su un LP prodotto dalla Olivetti ma mai stampato prima… e così via.
Il suo essere giornalista e, nel contempo, docente di discipline della comunicazione ha avuto un peso nel formarsi della società che ha dato vita alla De Piante? L’ha guidata la conoscenza della particolare fetta di mercato nella quale si sarebbe inserita la vostra editoria, o l’ha mossa prevalentemente la passione, alla base di analoghe scelte lungo tutta la storia del libro?
Certo, la passione è ciò che fa partire la “macchina”. Che poi però va guidata. Nel nostro caso a guidare l’impresa sono state le singole competenze specifiche. Cristina Toffolo De Piante si occupa della parte imprenditoriale: conto economico, piano industriale, marketing.. Angelo Crespi sfrutta i suoi contatti nel campo dell’arte, le fiere, le gallerie, tenendo i rapporti con gli artisti che lavorano con noi. Io invece metto a disposizione la mia esperienza di giornalista culturale. Ecco perché il “taglio” nella scelta dei testi è sì letterario ma di tipo giornalistico. Visto il formato e il numero ridotto di pagine dei nostri libri, si privilegiano articoli, elzeviri, reportage, interviste, carteggi, pamphlet… tutti testi di grandi intellettuali e scrittori del Novecento apparsi sui giornali e poi mai più ripubblicati; oppure brevi inediti, o lettere o pagine dimenticate… È anche una scelta di posizionamento sul mercato. Non possiamo fare la gara sui grandi gruppi o le case editrici strutturate e attive da anni. Siamo piccoli e facciamo cose “piccole”. Ma molto preziose, e che facciamo solo noi… Se uno ama Morselli, un suo racconto inedito, scovato da noi, lo trova solo nel catalogo De Piante… se uno ama Piero Manzoni e desidera leggere il suo ultimo testo rimasto inedito (per di più non di arte, ma politico-economico!) deve acquistarlo da noi (lo pubblicheremo a breve…).
Da dove proviene il titolo della vostra casa editrice? A quali modelli vi siete ispirati?
Il nome della casa editrice è quello della socia di capitale, Cristina Toffolo De Piante. È risaputo che tutte le più celebri case editrici italiane – con la lodevole eccezione di Adelphi – portano il nome del loro fondatore: Mondadori, Einaudi, Longanesi, Garzanti, Bompiani, Scheiwiller… Così dopo aver pensato mille nomi diversi, abbiamo scelto quello di chi ha voluto e finanziato la nostra avventura. Per quanto riguarda i modelli, dico – si parva licet – Scheiwiller. Poi faccio il nome di Henry Beyle di Vincenzo Campo, dei “quaderni” di poesia di San Marco dei Giustiniani, delle “vecchie” Silerchie del Saggiatore…. Insomma tutto ciò che non è editoria di “massa”, da bestseller, ma da amatore, nella dimensione della plaquette.
A differenza di altre edizioni sempre di nicchia la De Piante non ripropone solo testi di celebri autori che non sono più, ma punta pure sull’inedito. Come avviene questa scelta e chi dei tre soci operativamente è incaricato della ricerca?
Sì, il testo inedito o rarissimo per noi è l’aspetto più importante, ciò che dà il maggior valore alla nostra operazione. La decisione su cosa pubblicare e cosa no ovviamente è collegiale, ma mentre Angelo Crespi si dedica soprattutto alla sovracoperta d’artista, a me piace molto andare a caccia di testi perduti. In questo mi aiuta il fatto di essere un giornalista che lavora nel mondo della Cultura da più di vent’anni: frequentando altri giornalisti, critici, scrittori, editori, bibliofili, studiosi si vengono a sapere tante cose, molto utili… Ad esempio, parlando con un librario antiquario scopro che esiste un gruppo di taccuini, inediti, di Aldo Buzzi, così mi faccio mettere in contatto con gli eredi… Chiacchierando con un collega giornalista vengo a saper che lui ha le fotocopie di un gruppetto di lettere che D’Annunzio mandava al suo tipografo, il cui erede è uno che aveva intervistato una volta … e di cui nessuno sapeva niente… Il mondo della cultura è molto più piccolo di quanto si immagini…
Vi siete volutamente creata una vostra speciale autonomia, tutta italiana. Autori, carta, designer, e altri operatori dei libri della De Piante, ovvero l’intera sua filiera, è nelle mani di italiani. Che cosa vi ha portato a marcare così compiutamente l’impegno della De Piante nel rilancio del made in Italy?
L’abbiamo spiegato fin da subito. Gli autori pubblicati sono, per ora, italiani; come italiano è il nome della casa editrice, italiana la carta, italiano il carattere, e tutta italiana l’eleganza del prodotto. E ciò non per stucchevoli pulsioni “sovraniste”, ma per segnare la casa editrice anche da un punto di vista etico: nel momento di una difficile crisi economica del Paese, che dura da tempo, fin da quando siamo nati come editori, vogliamo puntare – sfruttando al massimo le potenzialità che ci sono riconosciute dal mondo intero in campo editoriale – sulle nostre eccellenze di settore: dal punto di vista dei materiali e del gusto. Ecco quindi la volontà di coinvolgere nel progetto designer (per il logo ad esempio), grafici, artisti, maestri dell’arte tipografica, tutti italiani. La crisi, a differenza di quanto insegnano gli economisti e i tecnici, si batte con il lusso non con la spending review. E noi abbiamo voluto una casa editrice sontuosa. E poi insistere, anche in campo culturale, sul marchio “fatto in Italia” può essere una scommessa vincente.
Come avviene la pubblicizzazione delle vostre novità? Come raggiungete il pubblico dei clienti? Avete una base negli abbonati a tutte le vostre uscite? Vi siete ispirati, mantenendo stesso prezzo per ciascuna delle edizioni, alle sottoscrizioni del passato? Quali le professioni da cui provengono i maggiori acquirenti?
Noi non possiamo permetterci una distribuzione in tutte le librerie, che ci mangerebbe vivi. Stampiamo troppe poche copie e troppi pochi titoli all’anno. Il nostro non è un prodotto facile. È molto curato, molto esclusivo, ma abbastanza costoso rispetto agli standard (sono trecento copie a tiratura limitata e numerate a mano, e ogni copia costa 30 euro). Vendiamo attraverso il nostro sito internet, dove si può scegliere e ordinare un titolo, che noi spediamo a casa. Poi ogni volta che esce un nuovo libro organizziamo delle presentazioni, ed è forse il momento in cui riusciamo a vendere di più. Partecipiamo a qualche fiera del libro. Se qualche libreria ci chiede dei libri, glieli mandiamo. E poi abbiamo un piccolo zoccolo duro di clienti affezionati che avvisiamo con una mailing list mirata delle novità. Vendiamo a lettori forti, bibliofili, collezionisti, amanti del libro “d’artista” e d’autore…
Passiamo velocemente ad altro. Nonostante si siano levate molte voci sfavorevoli al decreto governativo sulla riapertura delle librerie e alla luce delle considerazioni che sono emerse, Lei è ancora del medesimo parere e, se sì, quali le sue motivazioni?
Tasto delicato. Io ho scritto subito a favore della riapertura delle librerie, sia come atto simbolico per mettere la cultura al centro del discorso pubblico, sia come atto materiale, per aiutare un settore che sta pagando cara la crisi. Poi ho visto che i primi a non volere riaprire sono i librari. Avranno le loro ragioni: forse perdono meno a restare chiusi, con la cassa integrazione e il blocco degli affitti, che riaprire con le città semideserte. E forse hanno ragione pensando di essere troppo esposti dal punto di vista sanitario. Giusto che siano i librai a decidere. Però credo che si sia persa un’occasione: la prima volta che accade di leggere la parola “libreria” sulle prime pagine dei giornali, e che il libro sia al centro dell’attenzione nazionale, i librai si dividono e molti decidono di stare chiusi… Diciamo che sono rimasto sorpreso.
L'autore
- M. G. Tavoni, già professore ordinario di Bibliografia e Storia del libro, è studiosa con molti titoli al suo attivo. Oltre a studi che hanno privilegiato il Settecento ha intrapreso nuove ricerche su incunaboli e loro paratesto per poi approdare al Novecento, di cui analizza in particolare il libro d’artista nella sua dimensione storico-critica. Diverse sono le sue monografie e oltre 300 i suoi scritti come si evince dal suo sito www.mariagioiatavoni.it
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