È lo stesso Steinbeck che scrive un compendio di Furore, esattamente a pagina 171 dell’ultima, splendida traduzione di Sergio Claudio Perroni.
«Sembra incredibile, eppure è la storia vera di una famiglia cacciata dal posto dove viveva. Erano in dodici e senza macchina, si sono costruiti una roulotte con dei rottami di ferro e ci hanno caricato tutto quello che avevano, l’hanno portata sul ciglio della Route 66 e si sono messi ad aspettare. Gente in fuga dallo spavento che ha lasciato dietro di sé… le capitano cose strane, alcune tristemente crudeli e altre così belle da riaccendere per sempre la fede».
Un romanzo incredibile, e «utile», non solo per menti «illuminate» ma per tutti gli uomini, che sono il vero soggetto del capolavoro di John Steinbeck, scrittore americano e premio Nobel per la letteratura nel 1962. Lo spunto e i materiali per il libro sono tratti da articoli per il San Francisco News. Risalgono all’ottobre del ’36 e documentano la grande migrazione degli Oklahomans verso la California e le conseguenze della tempesta di polvere, la famosa Dust Bowl. Al reportage, chiamato inizialmente The Harvest Gypsies, fu aggiunto il sottotitolo On the Road to the Grapes of Wrath, scrive Luigi Sampietro nelle prime pagine dell’edizione del 2013. Quei grappoli d’ira fanno spuntare a Steinbeck «gli artigli e le ali di un romanzo», per dirla con Nabokov. Furore alimenta entusiasmo e agita l’animo, causa tanto tumulto nei vasi sanguigni da demolire la ragione; soltanto leggere scosse per uomini «divinamente ispirati». Sono i grandi poeti a possedere la dote di furoreggiare e destare grande entusiasmo – quello ragionevole – e «il segreto per (non) annoiare sta nel (non) dire tutto», come ebbe ad affermare «l’ultimo degli scrittori felici».
Lo sa bene il suo ultimo e miglior interprete, Sergio Claudio Perroni, anch’egli scrittore, che si cimenta con la nuova versione integrale di Steinbeck – settant’anni dopo la prima traduzione di Coardi nel 1940, sempre per i tipi della Bompiani – e cimenta la tolleranza dei lettori come un chimico saggia l’oro col fuoco.
L’incipit armonico è scandito da una sinestesia di colori e corpi umici condensati, degni di un libro di pedologìa. Steinbeck osserva la natura con oraziana contemplazione, ne registra gli effetti sugli uomini, studia la vita fisica, psichica e sociale dei figli della terra. Seduce il lettore con distacco, senza compiacerlo o manipolarlo; semplicemente, largisce descrizioni ricche di particolari. Un’opera d’arte la si riconosce dai dettagli, e l’autore dimostra di aver intimamente vissuto tutta “la roba” di cui scrive, quel senso di sfinimento che pervade gran parte del libro. Racconta di un tempo in cui gli uomini avevano la terra e questo li teneva insieme. Unioni, connessioni e incanto tra uomo e natura. La terra che lavoravano sprigionava energia e odore di vita, un legame simbiotico di due corpi e un anima sola. Sergio Claudio Perroni custodisce fedelmente le parole, ogni singola parola, ed esprime con passione e creatività la forza travolgente del testo, traducendone la viva e primitiva potenza dell’affresco. Il tono è quello greve e virile del traduttore severo, diligente, dal piglio finanche saccente. Un’elegante versione letterale che allude al ritmo, gioca con la rima, ricerca accordi e assonanze. Tre pagine fitte, poi l’alba. Un’alba senza giorno, con i contadini rintanati in casa che sentono il vento cessare nel cuore della notte. Vite vissute alla giornata, racchiuse tra un mattino incipiente e un fuoco morente di braci notturne. A un certo punto bisogna abbassare il calore dello sguardo, ridurre il bisogno di prendere fiato, ricalibrare i desideri e accoccolarsi sui talloni.
Una forza irresistibile prende alla sprovvista, ci si sente partecipi degli accadimenti, si diventa parte attiva della storia della famiglia Joad, per sprofondare, anima a corpo, nelle torbide acque del temporale finale. Uomini dalla schiena dritta, gli Oklahomans, abituati a maneggiare aratro, falce e forcone, stando in piedi. Diventano emigranti, costretti a curvare la schiena, a muoversi a quattro zampe come scarafaggi. Tuttavia, questi «muscoli affamati», questi «cervelli smaniosi di creare al di là del singolo bisogno», non vogliono diventare misere piante che germogliano e appassiscono quando arriveranno nella loro «terra promessa». «Diversamente da ogni altra cosa organica o inorganica dell’universo, l’uomo cresce al di là del suo lavoro, sale i gradini delle sue idee, va oltre il limite dei suoi risultati. Non si ferma, procede brancolando, ferendosi, a volte ingannandosi. Può darsi che indietreggi, ma solo di mezzo passo». Sempre uniti e saldi nella loro umanità, i Joad e i Wilson, i Wainwright e i Joad, agognano il lavoro e risollevano la vita a suon di parole. Dalle parole a volte germoglia lo svago, annegato fra tristezza e piacere, così intrecciati fra loro da sembrare la stessa cosa. Donne e uomini che fanno una grande anima e ognuno di loro è un pezzettino sacro.
Con una prosa realista e scorrevole, talvolta così concitata da stuccare il fiato, Steinbeck riserva passi di afflato lirico alla sua visione ipertrofica del vedere e sentire. Vi regna una certa armonia anche nell’aria affumicata e polverosa dell’Oklahoma che cambia colore alla luce tenue del crepuscolo, donando alla terra rossa una sorta di nitore. La sera àltera perfino le persone, calmandole; i loro occhi diventano nitidi nel buio, alterati e nitidi nelle facce impolverate. Man mano che gli emigrati provenienti da Sallisaw vengono presentati – occhi profondi, visi stanchi, determinati – affiorano alla memoria gli scatti della fotogiornalista Dorothea Lange, la «compassionate recorder» che negli anni Trenta fissa sulla pellicola la fuga e la tragedia dei contadini scacciati dalla polvere e dai trattori. Ma’, personaggio fulcro della famiglia, ha qualcosa del volto sofferente tuttavia dignitoso della Migrant Mother (1936), immagine identificativa della Grande Depressione. La faccia risoluta, paziente, garbata, di una bellezza equilibrata, i piedi scalzi, larghi e forti, conferiscono alla donna il grande e umile ruolo di risanatrice e arbitro della famiglia. Pa’ ha la pelle scura, una faccia barbuta e brizzolata, mascelle squadrate e l’espressione vaga della disperazione, immortalata in Ditched, Stalled, and Stranded (1935).
Se «ogni lingua ha la sua musica», come scrive Magris, Furore si muove tra le note folk degli Okies, gli emarginati affamati e agguerriti delle ballate di Woody Guthrie, il ramingo Dust Bowl Troubadour che suona la sua preziosa chitarra, e con l’armonica plasma il suono con le mani, modula il tono con le labbra. Il piede batte, piano, il tempo. Musica languida come cornamusa, corposa e grave come l’organo, secca e stridula come i pifferi dei montanari. Tommy, il protagonista, entra in scena con la flemma dei carcerati, il volto duro e neutrale di chi non vuole rivelare niente. Tradito dagli abiti puliti, nuovi e dozzinali, dalle scarpe gialle che urtano persino il rosso del camion quando chiede un passaggio. I camionisti tengono il cervello in allenamento, compongono poesie, portano in giro vocabolari e contano di farsi un’istruzione. Sperano di sistemare le cose, di provare il gusto di essere istruiti e insegnare a leggere ai loro piccoli.
Steinbeck sparge semi di poesia in ogni pagina: «semi passivi, immobili ma dotati dell’embrione del movimento, in una natura dormiente che aspetta di essere dispersa e diffusa». Spogliati della propria casa, questa gente sogna di ricominciare daccapo nel paese «dove crescono le arance». Singole anime piene d’amore e integrità, i Joad. Costretti alla violenza quando hanno bisogno di qualcosa, quando la natura tradisce loro. Sanno che ci si può far male, che si può diventare «una bestia furiosa piena d’odio». Non sanno, non ancora, che si muore nell’istante preciso in cui ci si allontana dalla propria terra. Vendono tutto ciò che si può vendere e bruciano il resto, raccogliendosi accanto all’autocarro Hudson, il nuovo focolare, con la smania di arrivare. In viaggio, senza mai perdere di vista la meta. Tener duro per loro è una cosa d’orgoglio, l’orgoglio degli «ultimi» che non mollano mai. Quando giunge la fame, però, si cambia. In un alchimia al contrario, l’oro diventa nero, come il carbone, come la pellagra dei bambini, quando nel lucore del mattino gli harvest gypsies si avvicinano alla luce dorata delle vallate.
Con voce epico biblica, Steinbeck, parla direttamente al cuore, con passione e compassione. Bisognerebbe leggere Furore almeno quattro volte, girando le pagine come si girano le colture, per scoprire, man mano, l’interpretazione letterale, allegorica, morale e anagogica. Il grido che protesta la ferocia dell’uomo contro il prossimo, svela la capacità di ognuno di affermarsi, di diventare se stesso attraverso la famiglia, la comunità. Un monito semplice: quando stai male, quando hai bisogno di qualcuno o sei nei guai, sai dove andare, perché il male è una questione di gradi nella valle dell’Eden. Per non perdersi nella polvere delle cose, toccherà inventare da zero gran parte della «nostra» etica e dei «nostri» valori; anche noi siamo cresciuti tra le macerie del vecchio sistema. La sopravvivenza dipende dalla capacità di saper guardare oltre noi stessi e il nostro interesse personale: basta, semplicemente, guardarsi dentro per diventare noi stessi.
«È così che comincia: da “io” a “noi”», una transizione da “I” ad “US”. Curiosa sigla per rivelare il “noi”, l’insieme degli States che United non sono, in un libro che il gigante della letteratura americana voleva fosse «a truly American book». Si potrebbe indovinare cosa avrebbe scritto dopo pagina quattro sei quattro (The Viking Press, 1939). La speranza non può che risiedere nella madre, figura feconda e terragna. È una madre a impugnare il comando della sua famiglia ed è ancora una madre a chiudere il libro. «Perché la donna può cambiare meglio dell’uomo, ha la vita tutta nelle braccia e, come un fiume, va sempre dritta per la sua strada. Gli uomini sono capaci di tenersi tutto dentro, di stare lì a rodersi il fegato… ma se una riesce a farli imbestialire, è tutta saluta». Un Magnificat che esulta l’anima della donna, capace di risollevare gli animi, pronta ad andare avanti. Sguardo dritto sull’orizzonte da cui ogni giorno sorge la luce dorata. Ci si salva grazie alla luce, la memoria della luce tanto cara a Sergio Claudio Perroni. «Nei libri non muore mai nessuno», scriveva. Aveva ragione, certa gente non muore mai fino in fondo.
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