Il ritratto fotografico è di Daniele Ferroni
Un dottorato di ricerca, numerosi premi letterari e un fortissimo Desiderio dell’Altro: questo ciò che troviamo se sbirciamo nelle tasche di Eleonora Rimolo. Non ha ancora trent’anni, eppure di strada ne ha fatta già tanta: è stato l’amore per la scrittura e per la letteratura ad accompagnarla. Oltre a vantare un brillante percorso accademico ed essere direttrice della sezione online della rivista letteraria «Atelier», Eleonora Rimolo è anche una giovanissima poetessa, che con i versi indaga dentro e fuori di sé, l’anima e la realtà. Questo pendolo in costante oscillazione tra personale e universale fa da protagonista a La terra originale, l’ultima raccolta che ha portato l’autrice a vincere, tra i vari premi, il “Pordenonelegge Poesia” e il “Marazza”. Proprio in questa silloge, in cui s’incontrano di frequente il mondo e l’Altro, la questione ambientale si fa preminente e ingombrante, in quanto interesse primario per la collettività: lo scenario si apre infatti sugli incendi boschivi che nel 2017 hanno duramente colpito il Sud-Italia. Parliamo dunque con Eleonora Rimolo del rapporto che lega la poesia all’ambiente
La parola greca οἶκος ‘casa’ si affaccia nelle nostre vite con una certa insistenza senza che noi ce ne accorgiamo. Essa nel tempo si è trasformata fino a diventare l’odierno suffissoide eco-, presente in termini d’uso comune come economia, ma non siamo più in grado di riconoscerne l’etimo: l’economia è solitamente associata ai soldi, al risparmio, alla borsa, quando in realtà il suo significato primo è ‘amministrazione della casa’, quanto di più semplice e ordinario possiamo incontrare quotidianamente. Allo stesso modo, stentiamo a trovare la concezione di ‘casa’ all’interno della parola ecologia e di tutte le eco-parole di cui ci troviamo circondati (eco-compatibile, eco-friendly, eco-mostro…); in questi contesti, il significato più esteso è quello di ‘ambiente’, ma ambiente inteso come spazio da abitare, luogo di convivenza. Casa, appunto. Nell’intervista rilasciata per «Il giornale del ricordo» lo scorso settembre, ha dichiarato di parlare nei suoi libri proprio «della possibilità di uno spazio di condivisione». In che termini questa dimensione ecologica, nel senso più letterale del termine, fa capolino nei suoi componimenti?
Intendo la “casa”, che per me è sinonimo di “terra originale”, come spazio metafisico e spazio urbano, concreto. D’altronde la complessità e le sfaccettature del termine Heimat – a cui mi riferisco costantemente nell’impianto del libro – racchiudono una serie di valori e di diritti che non possono essere in alcun modo sottratti all’uomo, poiché indispensabili al raggiungimento (parziale, temporaneo che sia) di una supposta felicità. Viviamo per rispondere alla legge del nostro desiderio, e non soltanto per sopravvivere biologicamente: questo vuol dire che siamo alla ricerca costante di un “ambiente” che ci permetta di esprimere la nostra volontà, di agire in totale libertà, di poter condividere questo nostro spazio con le persone che amiamo, a cui vogliamo dare affetto, soccorso, assistenza. Un libro può essere una casa? È la domanda che mi sono posta al termine della stesura de “La terra originale”: possono essere le pagine uno spazio in cui sentirsi compresi, un ponte tra me e l’altro? Può essere un luogo in cui si può ritrovare qualcosa che si è perduto e che si ritiene indispensabile alla costruzione del proprio sé (in cui insomma si parla la lingua degli affetti, come ho dichiarato in altre interviste)? Sta al lettore dirlo: io ho scritto mirando a questo orizzonte, e oggi più che mai dobbiamo chiederci quali sono i confini di questo spazio abitativo, quali i diritti che devono tutelarlo, e per i quali dobbiamo lottare, stringendoci l’un l’altro in una catena di leopardiana solidarietà.
La raccolta La terra originale, da lei appena menzionata, si apre con i disastrosi incendi che nell’estate del 2017 hanno devastato gran parte del Meridione. Oltre a diventare spunto per riflessioni di maturità e disincanto a seguito di un trauma, l’incendio rimane all’interno dei suoi componimenti nella sua concretezza, come evento funesto e tristemente irreparabile. Come è riuscita a conciliare, nei versi, la cruda e drammatica realtà dei fatti di cronaca con una dimensione più umana e intima, personale?
Il nostro tempo ci pone di fronte all’esasperazione di un egocentrismo che permea la poesia soggettiva portando alla ribalta una serie di opere che propongono al pubblico esperienze personali inadeguate a costituire un’opera letteraria seria, narrate per altro con uno stile che l’autore sceglie autoconsacrandosi come iniziatore di un genere del tutto scorporato da qualsiasi norma imposta dalla tradizione. È indubbio che l’universale «non si consegua con una individuazione senza riserve» e ciò lo dice bene Adorno quando parla della creazione lirica di Pindaro, di Alceo e di Walther. Anche quando un’opera lirica prende vita da una serie di esperienze biografiche e/o da reinterpretazioni della tradizione va sempre specificato che quei versi non devono mai contenere qualcosa di esclusivamente autobiografico, ma solo l’impronta ricavata da un inventario privato della realtà, cioè un veicolo, come avevano già sostenuto Freud e Thibaudet, Bachtin e Debenedetti, per mezzo del quale il passato, l’esperienza vissuta, il proprio stesso io empirico riescono ad aprire di nuovo la porta al caos, al divenire, all’universo dei possibili. Sono fermamente convinta che l’opera letteraria, oggi più che mai, debba essere strutturata in accordo con la necessità di abbassare l’indice di artificialità che dilaga dopo la formalizzazione della possibilità di andare a capo casualmente (e affermando solo per questo di stare scrivendo poesia). Ogni allusività formale e tecnica va ridotta al minimo indispensabile. Senza mai rinunciare al peso del ritmo e della metrica, e a tutti gli aspetti formali che compongono la poesia, di tendenza lirica o narrativa che sia, è necessario puntare ad un’apertura del testo poetico verso la realtà, ordinata e organizzata esteticamente, che non deve rinunciare mai al carico esperienziale ma nello stesso tempo deve essere in grado di collegarlo a ciò che il mondo contemporaneo e la storia degli uomini offrono. I versi devono accogliere le scorie del quotidiano, rifiutando la spettacolarizzazione del dolore o dell’evento cronachistico trattato ma puntando attraverso il linguaggio al potenziamento della realtà, inclusa in un sistema dinamico di eventi, cronache, personaggi, esperienze, fatti che vale la pena di raccontare, di fissare per sempre in coordinate spazio-temporali determinate.
Gli incendi che hanno distrutto migliaia di ettari delle bellezze naturali del nostro Paese ci hanno toccato e ferito da vicino, proprio in quanto italiani, e ancor di più l’hanno fatto con chi, come lei, vede nel Sud la propria casa data alle fiamme. Purtroppo però quelli del Meridione non sono gli unici incendi pericolosi: ogni estate, una parte del mondo prende fuoco per non tornare più ad essere quella di prima, sia essa la California o l’Australia. Si tratta di uno dei tanti fenomeni naturali conseguenti le azioni umane che hanno irreversibilmente mutato il nostro pianeta, come l’inquinamento e il surriscaldamento terrestre e i processi di desertificazione che ne sono scaturiti. Le sue poesie rappresentano in qualche modo una denuncia di queste situazioni – penso ai versi «Intanto la plastica fonde / cerca asilo nei polmoni dei superstiti, / con la pioggia non si può deglutire, brucia / l’ipotesi della resistenza, acre carità» –: si tratta di un semplice moto d’amarezza in reazione a ciò che è successo alla sua terra o di una volontaria presa di coscienza rivolta alla collettività e dunque riguardante l’intero pianeta?
L’exemplum specifico dell’incendio campano è un simbolo dentro il quale si raccolgono tutti gli eventi catastrofici che flagellano il nostro pianeta: la collettività è chiamata quotidianamente a rispondere ad un numero cospicuo di emergenze che ci vedono protagonisti attivi, e a cui dovremmo rispondere collettivamente. La poesia può spingere ad una riflessione comune, a dei motus animi collettivi, insomma ad un qualsiasi sommovimento dello spirito che possa restituire la voce ad un mondo in fuga che da anni una voce non ce l’ha (penso alle fasce deboli della società, ad esempio), e che occupa lo spazio breve delle cronache o dei telegiornali ogni giorno perché proviene da luoghi diversi per motivazioni diverse − ma sempre tragiche. D’altronde, come dice Althusser, «ogni problema teorico è un problema politico». Quindi Meridione o Settentrione, Australia o Italia, l’appello è rivolto a ciascuno di noi. Come splendidamente scrive Fabiano Alborghetti ne “L’opposta riva” (che non a caso racconta storie di migranti): «E dove altro credi possibile la mia presenza / se anche la mia terra è contro? Non rimane niente altro / che la cancellazione ripeteva un dirsi presenti // anche senza il luogo. Adesso conta diceva / fai la somma dei rimasti. Sottratti gli urti i lampi / i sacchi senza nome o le cataste di arti e bocche colme // di vuoto avrai la misura del rimanere, l’innominata ampiezza…».
Proprio parlando di inquinamento, è davvero stupefacente il drastico calo dello smog, del traffico e delle emissioni in generale che ha interessato prima la Cina e ora l’Europa e l’America, conseguente l’emergenza del COVID-19. Ciò che anni di protocolli, misure straordinarie a livello europeo e mondiale, manifestazioni nelle piazze di ogni città non sono riusciti a fare è stato ottenuto da una pandemia, una di quelle catastrofi naturali che l’uomo, nonostante il progresso scientifico e tecnologico, ancora fatica a fronteggiare. Molti di noi sono stati costretti a lavorare da remoto, a uscire meno, ad abbandonare le automobili per rinchiudersi nell’intimo delle proprie case, spesso recuperando aspetti dimenticati della vita e scoprendo che tutto sommato si può riuscire a vivere lo stesso. Ovviamente auspicando un ritorno alla normalità il più rapido possibile – che rimetta in sesto la salute di tutti, che ci consenta di riabbracciare i nostri cari e tornare alla nostra vita sociale, a viaggiare –, a fronte degli incalcolabili danni inflitti alla nostra società, questa emergenza potrebbe comunque lasciarci qualche insegnamento in merito al superfluo di cui le nostre vite sono infarcite senza che noi ce ne rendiamo conto. Crede che un ritorno alla semplicità, una maggiore attenzione ai rapporti umani e un minor spazio alla materialità possano essere la chiave di volta per una vita che faccia bene all’ambiente, in senso lato? È questo che intende quando scrive che «dobbiamo tornare / in cerca della casa originale, / della prima cellula essenziale»?
È triste pensare che una pandemia possa avere un merito del genere – che di fatto, secondo me, non ha: la riduzione dell’inquinamento è un dato del tutto temporaneo e circostanziale e presto tornerà tutto com’era prima. Il problema andrebbe affrontato con le giuste misure (serietà e lucidità su tutte, al di là della retorica di fondo) e non rimandato a data da destinarsi a causa di un’infezione virale per la quale attualmente si stanno faticosamente cercando le cure. Questo perché tutto sommato non si vive affatto bene lo stesso trincerati dentro le nostre case: in questi giorni si susseguono articoli e reportage che dimostrano con dati alla mano (coadiuvati da fatti di cronaca quali: aumento dei suicidi, aumento della violenza domestica, aumento dell’odio verso il nemico invisibile, aumento della ferocia collettiva) quanto il rimanere dentro casa, privati dei nostri rapporti sociali, lavorativi, etc. sia profondamente dannoso sia dal punto di vista morale e politico sia dal punto di vista strettamente fisico, sanitario. Senza contare poi tutte le persone senza fissa dimora che vagano perdute in città deserte, spesso anche denunciate per il fatto stesso di non avere una casa presso cui rimanere: non si possono abbandonare, non si possono ignorare, ora più che mai. È una questione anche di rischio contagio: non si lavano, non hanno disinfettanti o saponi, sono in stretto contatto, confusi, spaventati, privi di mezzi di difesa. Anche questa è una questione di sanità pubblica, oltre che di umanità. D’altra parte, è stata l’Oms a dichiarare, poche ore fa, che la salute psico-fisica in questo periodo di isolamento domestico forzato va preservata anche attraverso l’attività fisica all’aperto, perché è innegabile che questa condizione mini sistematicamente le nostre difese immunitarie – le stesse che sono necessarie per evitare il contagio del COVID19. Le privazioni a cui siamo sottoposti per il corretto contenimento di un contagio non appaiono dunque come un ritorno alla semplicità, né come una rinuncia al superfluo – di cui ognuno ha il diritto di pensare ciò che crede: non posso pretendere che ciò che per me è superfluo lo sia anche per un altro, è uno dei principi che stanno alla base di uno Stato di diritto. La chiave di volta per il rispetto dell’ambiente e per la cura dei nostri spazi sta nel ritorno ad una “casa originale – cellula essenziale” che sia appunto la massima realizzazione del Desiderio dell’Altro insita in ognuno di noi. Soltanto noi abbiamo la misura della nostra essenzialità, e l’auspicio che faccio è che si ritorni presto ad una condizione generale di salute e di controllo del contagio, così da poter ricominciare a combattere le nostre battaglie quotidiane, più stretti l’uno all’altro.
La sua poesia ha la straordinaria capacità di rivolgersi in contemporanea ad un io intimo, ferito, e ad un esterno che gli fa da specchio, parallelamente devastato. L’alternanza cadenzata tra un dentro e un fuori, che sono in fondo due facce di una stessa medaglia, medaglia fatta di dolore e consapevolezza, rappresenta secondo Roberto Cescon «una soglia di crescita, poiché lo sguardo di adolescente primavera che era stato l’esordio di Temeraria gioia si fa più disincantato, in virtù della coscienza della tragicità del mondo». Percepisce anche lei questa maturità rispetto alle sue precedenti raccolte? Pensa che tale processo di crescita debba inevitabilmente passare da ciò che Cescon definisce «un trauma»?
L’alternanza tra il dentro e il fuori è condizione essenziale affinché si realizzi l’evento poetico; è come la vive Pessoa in Tabaccheria: «Oggi sono perplesso come chi ha pensato, trovato e dimenticato. / Oggi sono diviso tra la lealtà che devo / alla Tabaccheria dall’altra parte della strada, come cosa reale dal di fuori, / e alla sensazione che tutto è sogno, come cosa reale dal di dentro». Un gioco di specchi grazie al quale si realizza il gioco del rovescio della vita, con la quale bisogna scendere a patti se si vuole avere la piena percezione di sé e dell’altro da sé. Non sta a me dire se c’è stato uno scarto di maturità tra una raccolta e l’altra, ma sicuramente il processo che mi ha portato da Temeraria gioia a La terra originale si fonda su un trauma irriducibile che è l’incontro con il Perturbante, così come lo intende Agamben in Stanze. Questo incontro con la natura semiotica dell’essere umano ci mette di fronte al fatto che ogni esperienza propriamente inquietante è anche e sempre esperienza dell’inquietudine, e quindi l’incontro con il Perturbante rivela la reale natura degli esseri umani e attesta l’alienazione del soggetto moderno in relazione ad un mondo apparentemente senza senso, in cui anche gli oggetti più familiari sono sottoposti a metamorfosi allarmanti, che generano disagio. Quando accade questo, lo scarto all’interno di una scrittura si fa irriducibile.
La questione ambientale, quanto mai attuale, è oggi discussa nei settori più disparati, non ultimo quello poetico. A conclusione di questa conversazione, saprebbe indicare altri autori contemporanei, oltre a lei, che si sono interessati al tema?
La questione ambientale può essere declinata in vario modo: per quanto riguarda la poesia contemporanea penso a Umberto Piersanti, che fa dei suoi versi il luogo luminoso dell’incontro della natura col suo cuore; a Fabio Pusterla, che nelle sue opere poetiche si occupa della desolazione sociale, del disincanto della condizione storica in cui l’uomo si trova costretto a dover riempire un vuoto che puntualmente non si riempie mai – poiché è l’identità stessa dell’uomo a mancare, ad essere destrutturata; a Paolo Volponi, che ha trasferito nelle sue poesie le tematiche “ecologiche” ampiamente tratta ne Il pianeta irritabile; a Pasolini, che ne Le Ceneri di Gramsci ci descrive l’urlo della scavatrice che dolorosamente devasta la natura ai fini della costruzione di nuovi quartieri abitativi; ad Andrea Zanzotto, in cui lo spazio del locus amoenus diviene lo spazio eletto dell’otium cum litteris, consacrato all’«autocoscienza della poesia» (Galateo in bosco); e non per ultimo penso a Domenico Rea, che tra ironia e dramma, nei suoi romanzi e nei suoi racconti, così come nelle sue poesie, fornisce splendide testimonianze argute e implacabili sul Mezzogiorno e sulla città di Napoli negli anni della ricostruzione postbellica. Di sé diceva, in un’intervista ad un quotidiano spagnolo, “No soy socialista ni izquerdista. Tampoco de ninguna derecha. Yo soy un libre pensador” (Non sono socialista, né un uomo di sinistra. Né tantomeno di destra. Sono un libero pensatore). Una sola era la sua stella polare, che spero porti luce a tutti noi in questo momento: lottare contro l’ingiustizia, quale essa sia.
L’intervista è stata realizzata in collaborazione con Sapereambiente
L'autore
- Ilaria Dinale si è laureata in Lettere Moderne presso l’Università degli studi di Roma “La Sapienza” con una tesi dal titolo “Scritture poetiche e narrative nei social network. Panorami italiani”. Presso il medesimo ateneo attualmente frequenta il corso di laurea magistrale in Linguistica.
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