Giornalista, saggista e traduttore, Claudio M. Valentinetti è nato a Milano il 2 dicembre 1949, nipote di Lina Bo Bardi, architetto che ha progettato il MASP di São Paulo, e di Pietro Maria Bardi, che l’ha creato e diretto per tutta la vita. Oggi vive a Brasília. Traduttore dallo spagnolo e dal portoghese, tra le sue traduzioni più celebri si ricordano L’amore ai tempi del colera di Gabriel García Márquez (Mondadori, 1986), Sudore di Jorge Amado (Mondadori, 1987) e Il banchiere anarchico di Fernando Pessoa (Guanda, 2008). È autore di diversi studi di critica cinematografica, tra cui Orson Welles (1980, 1993, 1995 e 1999), Glauber, um olhar europeu (2002), Luchino Visconti – Um diretor de outro mundo (2006), Ittala Nandi – O Caminho de uma Deusa (2013), Rita Hayworth – Cinema, danza, passione (2014), pubblicato in Brasile nel 2018, e Cinema Novo – Prima, durante e dopo (2018).
Chi sei, da dove vieni e di cosa ti occupi a Brasília?
Vengo da Milano, Italia, in tempi non sospetti. Sto a Brasília da tanti anni, circa venti, un po’ di più forse, forse da sempre o forse da ieri, considerando che il tempo è una categoria astratta, soprattutto in questi tempi che stiamo vivendo. Mi occupo di varie cose, soprattutto di cinema. Diciamo che è il mio primo amore, dopo tanti altri amori forse più privati e che devono restare privati. Scherzi a parte, il cinema è un grande amore. In questa terra generosa, in moltissimi sensi, il cinema è una grande cosa: il Brasile ha dato molto amore al cinema e a chi il cinema lo ama. Sto parlando soprattutto del Cinema Novo degli anni Sessanta, cioè Nelson Pereira dos Santos, Cacá Diegues, Gustavo Dahl, Joaquim Pedro de Andrade, Leon Hirszman e tanti altri, ma soprattutto quello che è sempre stato additato come il maestro, la guida: Glauber Rocha, bahiano di Vitória da Conquista. Lui ha dato al mondo – un mondo che forse oggi non se ne ricorda bene – capolavori come Deus e o Diabo na Terra do Sol (cioè Il dio nero e il diavolo biondo quando uscì in Italia), O Dragão da Maldade contra o Santo Guerreiro (Antonio das Mortes nell’edizione italiana), Barravento e tanti altri film che non sono arrivati ai circuiti commerciali ma che in quegli anni, Sessanta, Settanta e persino agli inizi degli Ottanta, hanno riempito le programmazioni e le discussioni dei cineclub, delle cineteche nazionali, locali, parziali insomma, dove si amava vedere e partecipare a questa grande cosa che è il cinema. Insomma, mi occupo di cinema, scrivo libri, di solito biografie, biografie critiche o grandi interviste, su alcuni dei protagonisti di questo momento storico, senza però dimenticare un mio passato giornalistico italiano in cui ho abbracciato altre scelte cinematografiche (come Alida Valli o Luchino Visconti), e anche altri generi, altre specialità, come l’arte: ho pubblicato conversazioni, per esempio, con il fondatore, il papà di Brasília, Oscar Neymeyer, e con Pietro Maria Bardi, direttore e fondatore del Museo de Arte de São Paulo.
Parli con tanto amore di quel cinema brasiliano che, come giustamente dicevi, non essendo arrivato ai circuiti internazionali, in buona parte non è approdato in Italia. Al contrario, il cinema italiano, un po’ per fortuna della nostra cultura, è arrivato eccome in Brasile. Com’è recepito qua, cos’è che si stima del cinema italiano in Brasile?
Il cinema italiano in Brasile è recepito come il cibo italiano: come un tripudio. Così come qualsiasi cibo più o meno raffazzonato ma con un’etichetta italiana è considerato meraviglioso, la stessa cosa succede per il cinema, che è molto più variegato, molto più differenziato rispetto forse al cibo italiano, che già è molto abbondante e molto differenziato di per sé. Mi spiego meglio: per i brasiliani il cinema italiano è soprattutto Fellini, grande regista. Ecco, io vorrei dire che non è solo Fellini: è Pasolini, è Visconti, è tanti altri registi, meno conosciuti, che però hanno una visione più seria e meno “folclorica” di quello che dovrebbe essere. Fellini non è solamente folclorico, attenzione: è una critica dall’interno, perché Fellini ci dice «questo sono io rispetto a tante cose che succedono fuori di me»; Pasolini ci dice «questo sono io ma la mia reazione, il mio modo di pensare è differente da quello del mio caro amico Fellini». Le due visioni sono assolutamente paritetiche, uguali, buone. E così tanti altri. È chiaro che la commedia all’italiana, per fare un esempio, bellissima, un’opera d’arte degna dell’antica rinascimentale commedia dell’arte, è piena di spunti, di un’educazione, di una cultura e di tutto un insieme che fa quella complicazione che si chiama “essere italiani” con rivelazioni sul tema, sfumature, risate, prese in giro, e sto parlando di direttori, di registi dello spessore di Dino Risi, Mario Monicelli, e di attori come Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi, e molti altri che probabilmente non avremo mai più, perché il mondo cambia, cambia il cinema, cambiano i gusti del pubblico. Però devo dire che, in occasione di retrospettive, il vecchio cinema italiano e il vecchio cinema brasiliano almeno in certe facce di pubblico destano ancora interesse, piacere e – perché no? – nostalgia.
Infatti sento una certa nostalgia, che è quella che sento anch’io di un tempo non vissuto. Personalmente percepisco oggi una pochezza culturale che un po’ mi lascia disillusa. Il tuo punto di vista è che non c’è più lo spazio per un intellettuale, un umanista, magari un creativo in questo mondo in questa epoca storica, tanto in Italia quanto in Brasile?
Questa è una bella domanda da un milione di dollari, come si diceva anticamente quando il dollaro valeva molto di più. No, penso che attori come Mastroianni, Gassman, Tognazzi, Manfredi, Sordi… eh sarà difficile riaverli. E così registi come lo stesso Fellini, Pasolini, Visconti e chissà quanti altri. Ma anche in Brasile adesso è la stessa cosa. Oggi dipende un po’ anche da come vanno le cose nel mondo perché, per esempio, soffermandoci sul cinema brasiliano, riproporre oggi la discussione della distribuzione della terra, della salvaguardia dell’Amazzonia, della natura di questo Paese che dovrebbe avere la più grande natura incontaminata del mondo, che è posta sotto assalto in ogni momento, riproporre queste cose non trova riscontro nei momenti attuali. È un discorso politico ma anche umano al tempo stesso, che tende a stravolgere le differenze tra culture, umanità, nature, tutto in virtù di uniformare tutto. Che è quello che guarda caso, tanti chilometri più in là, Pasolini chiamava “omologazione culturale”, molti anni prima che succedesse, e oggi noi leggiamo e vediamo quello che succede qui in Brasile e pensiamo «Pasolini – però! – ci vedeva bene!». E lo stesso vale per il cinema italiano, perché sembra che le simpatiche prese in giro dell’italiano medio, i suoi vizi e virtù che tutti noi conosciamo perché siamo italiani, una volta che li vediamo sullo schermo sono sempre degli altri, non sono mai nostri… un po’ come le malattie. Non sarà che questa umanità che popola l’Italia oggi, che fugge dalle nuove malattie, per esempio, fa un po’ come lo struzzo, che infila la testa nella sabbia e lascia il resto del corpo scoperto? E allora vediamo che il mondo davvero è rotondo, non è piano. Mi spiace contraddire chi ha contraddetto la scienza, ma da qui il mondo appare davvero rotondo, perché le storie del Brasile, le storie italiane, inglese, canadesi, perché no, coreane… sono tutte omologate.
Parlando di questo parallelismo che c’è tra i tuoi due Stati, quello in cui vivi e quello che ti ha dato i natali, sappi che lo riconosco anch’io, riconosco dei cambiamenti storici, però devo dire che li vedo un po’ più netti nella storia brasiliana. Ricordo che mi hai detto di essere stato per la prima volta in Brasile nel ’77…
No, nel ’70!
’70… dopodiché ci sei tornato definitivamente nel ’98, e da allora ci sono stati dei cambiamenti…
Conoscevo il Brasile per cose famigliari, racconti, aumentati dalla memoria famigliare – la famosa letteratura orale delle famiglie. L’ho conosciuto poi visivamente, personalmente, nel ’70: Brasile, Paraguay e Argentina. Ne sono rimasto estremamente impressionato, anche perché il mondo europeo, e di riflesso il resto del mondo, era abbastanza sconvolto, bouleversé – come dicono i francesi – perché c’era stato il famoso ’68 che, in un modo o nell’altro, ha cambiato il modo di vedere la vita, la Weltanschauung, la concezione del mondo. L’impatto con questo continente fu un impatto, come sempre è e deve essere, violento, perché è una realtà diversa da quella europea in cui ero abituato a vivere. Poi sono tornato qui nel ’77 per trasferirmi, ma le cose non sono andate così come io pensavo, e forse non solo io, e dopo un anno circa sono tornato in Europa, in Italia. Lì ho costruito in un modo o nell’altro un mio futuro, una mia professione, lavorando alla Mondadori come redattore ai libri, traducendo in italiano autori come García Márquez, João Ubaldo Ribeiro e altri, e collaborando a delle testate perché il mio sogno, anche se mi piaceva molto lavorare sui libri, era scrivere in prima persona. Io già avevo lavorato e collaborato con alcuni giornali come il Quotidiano dei lavoratori, con relative compartecipazioni alla Radio Canale 96, una delle radio in modulazione di frequenza, avevo collaborato con Il manifesto, e quando tornai in Italia cominciai a collaborare con L’Unità, con Prima comunicazione, L’Europeo – insomma, parecchi tra riviste e giornali. Dopo molti anni, alla fine degli anni Novanta, nel ’96, sono tornato in America Latina per motivi famigliari, risiedendo due anni in Paraguay, ad Asunción, e nel ’98 sono approdato a Brasília. L’impatto con la città fu atroce, terrificante, perché è una città assolutamente differente, sembrava un quadro di De Chirico dell’epoca metafisica, più che futurista: in genere le metafore dicono città futurista ma no, secondo me il futurismo non c’entra un fico secco, diciamo “città metafisica”. Le piazze d’Italia e qui le piazze di Brasília, soprattutto in centro, mi ricordano molto quelle cose, solo che il cielo non è nero e quando non piove il cielo qui è bellissimo, tipo quello del Texas, delle fotografie di Wim Wenders. E da lì, perché l’uomo è l’animale adattabile per eccellenza, come diceva Konrad Lorenz, si vede dove si vive e nasce la voglia di fare, di integrare quello che altri stanno facendo. E attenzione, non è che si arriva e arriva il taumaturgo, il deus ex machina che dice «fermi tutti, sono arrivato io», no (questa è una cosa da Berlusconi!). Si comincia a guardare con più attenzione, con più umiltà quello che succede, e si cerca di pensare «mi piace questo. Come posso cercare di migliorare, di dare il mio contributo?». Quel che io adesso ti ho riassunto in pochissime parole vale per Brasília a vale per qualsiasi situazione.
Questo tuo rapporto, questo tuo andirivieni, attraversa dei decenni sani: abbiamo parlato di ’70, ’77, ’98, e da allora sei qui. In questi anni, il Brasile è cambiato quanto e come? Com’era il Brasile del ’70, e quello del ’77, e quello del ’98, e quello di oggi?
Il Brasile del ’70 e del ’77 era un Brasile dominato dalla dittatura militare dopo il golpe, il colpo di Stato del 1° aprile 1964, chiamato dai fautori come Revolução con tanto di maiuscola. Io mi ricordo che nel ’77 ho avuto diversi colloqui di lavoro e, siccome avevo la barba molto lunga e i capelli lunghi, usavo una salopette e una giacca di velluto bordò e parlavo di un tedesco di nome Bertolt Brecht, ero considerato un rivoluzionario, e per questo non trovai lavoro. Questo, con mia grande delusione, mi convinse a tornare in Italia, dove, sfruculiando, lavorando e sacrificandomi, sono riuscito a entrare alla Mondadori e a fare il mio percorso. Poi il Brasile, beh, sappiamo tutti più o meno com’è andata la Storia. Nel ’98 era ancora un Brasile che aveva da quattro anni – se non mi sbaglio – il plano real, che era stato elaborato da Itamar Franco e non da Fernando Henrique Cardoso, come al contrario alcuni amano dire. Era un Paese ancora con le sue contraddizioni, con i suoi problemi. Poi arrivò finalmente, dopo tre o quattro tentativi andati male, Lula, Luiz Inácio Lula da Silva, che fu eletto presidente, perché i militari avevano mollato l’osso già prima di Fernando Henrique e di Itamar. Ci fu quell’evento curioso dell’elezione di Tancredo Neves, che non arrivò a essere presidente ma morì di una curiosa infezione, per cui divenne presidente Sarney, che ancora oggi, quasi centenario, galleggia nello scenario politico. Ma insomma, tornando più vicino a oggi, l’elezione di Lula aprì un nuovo panorama, un nuovo orizzonte, e le cose andarono meglio. Quasi immediatamente apparve lo scandalo del mensalão. Lula continuò al governo e nacquero diverse rivoluzioni, e fu così che seguì il secondo mandato di Lula, con un Paese che acquistava una posizione sempre più preponderante grazie alla straordinaria bravura nelle relazioni del presidente, che cercava di essere quello che è sempre stato, cioè un contadino, un operaio, un sindacalista, quasi analfabeta, con poca cultura, ma che piaceva a tutti, a Obama, alla Regina Elisabetta, al Sud Africa, all’Europa, a persone assolutamente diverse che riconoscevano dei valori comuni. Oggi sappiamo molto bene quello che è successo: evidentemente una parte della popolazione maggioritaria, non si sa quanto pilotata e quanto scontenta, ha deciso di appoggiare questo che quasi tutto il mondo, a cominciare dagli austeri giornali inglesi, è stato definito un golpe. E adesso che cosa il futuro ci riserverà, in un mondo che in ogni momento propone differenze che ci sono o non ci sono, chi lo sa? Malattie, epidemie, tutto vale, sembra un film di fantascienza. Realtà o finzione, sembra che siamo tornati a una commedia di Pirandello: era lui che si chiedeva «è realtà o finzione?». Allora il cerchio si chiude così? Che orrore! Ora, il cinema brasiliano – non so il cinema italiano, perché ne sono fuori da molto tempo, non mi pare ci siano grandissime cose – il cinema brasiliano tenta di reagire a un assalto violentissimo di uccidere tutte le sue strutture con film come Bacurau, che è stato amato all’estero, come in Francia, ma che personalmente trovo un bel film ma non la fine del mondo. Ma io sono viziato con il mio cinema brasiliano degli anni Sessanta e Settanta, che era un’altra cosa.
Un’ultima domanda, un po’ più sentimentale, dato che parlavamo in separata sede di quanto io fossi giovane ai tuoi occhi e di quanto fosse brutto invecchiare: dall’alto della tua età, c’è qualcosa di te che riconosci nella generazione giovane di adesso, italiana, brasiliana, mondiale?
Ma sì, certo, se no non varrebbe la pena vivere! Nel momento in cui tu pensi di non essere più utile a niente, di essere un contenitore che consuma, mangia, beve e va di corpo… che orrore! È chiaro che quello che ti fa vivere è credere che quello che io sto dicendo, queste cose che sto dicendo a te, non vadano perdute in un grande pozzo senza fondo. E ho detto “credere”, non ho detto “sperare”, perché mia nonna, che era una marchigiana di provincia con poca cultura, diceva: non devi dire “sperando”, perché chi vive sperando muore…
L'autore
- Maristella Petti, classe 1992, è nata e cresciuta a Bolsena. È formata in lingue (inglese, spagnolo e portoghese), letterature comparate e traduzione. È dottoranda in critica letteraria dialettica presso l'Universidade de Brasília. Tra le sue pubblicazioni, il saggio La resistenza nella poesia nera femminile brasiliana contemporanea (Sensibili alle foglie, 2018) e la traduzione dell’antologia poetica bilingue Encontros com a poesia do mundo II / Incontri con la poesia del mondo II (Editora da Imprensa Universitária, 2018).
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