Foto di Leonardo Magrelli
Filosofia, letteratura, insegnamento, traduzione, teatro, prosa, poesia. Difficile riassumere in poche righe l’esperienza decennale di Valerio Magrelli (Roma, 1957), personaggio di spicco nel panorama culturale italiano e internazionale. La sua attività poetica comincia alla fine degli anni Settanta su riviste ed antologie, per esplodere a soli ventitré anni nella pubblicazione della sua prima raccolta Ora serrata retinae (Feltrinelli, 1980). Gli anni Novanta vedono la nascita del suo sodalizio con Einaudi, non solo come autore ma anche come direttore della serie trilingue della collana «Scrittori tradotti da scrittori». È stato insignito di prestigiosi premi, quali il Premio Antonio Feltrinelli per la poesia dell’Accademia Nazionale dei Lincei (2002) e il Premio Opera Italiana, il SuperMondello e il Mondello Giovani (2013). Tra le sue numerosissime pubblicazioni, ricordiamo le più recenti Le cavie: poesie, 1980-2018 (Einaudi, 2018), Il commissario Magrelli (Einaudi, 2018) e Sopruso: istruzioni per l’uso (Einaudi, 2019).
“La penna non dovrebbe mai lasciare / la mano di chi scrive. / Ormai ne è un osso, un dito. / Come un dito gratta, afferra ed indica. / È un ramo del pensiero /e dà i suoi frutti: / offre riparo ed ombra”. Questo uno dei suoi più celebri componimenti, il decimo che s’incontra all’interno della sua prima raccolta, Ora serrata retinae (Feltrinelli, 1980). È cambiato qualcosa da quarant’anni a questa parte? In che modo la penna continua ad essere un arto, un’arma, uno strumento imprescindibile per la sua sopravvivenza?
È cambiato molto da un punto di vista pratico perché ormai mi capita addirittura di scrivere delle poesie sul cellulare oppure sul computer, me le mando via mail, ma a parte la protesi tecnologica il resto è rimasto uguale: per me la poesia è veramente la camera di compensazione, lo spazio di riflessione, l’ultima spiaggia per cercare di fare i conti con le cose che non riesco a capire. Lo ha detto bene Attilio Bertolucci quando scrisse che la poesia è una forma terapeutica. Anche Donatella Bisutti scrisse un libro sulla poesia come cura; ma non come cura psicanalitica: a me interessa come cura del linguaggio.
È curioso pensare come oggi la penna sia infatti uno strumento quasi in disuso, sostituito da supporti elettronici ed informatici che rendono la scrittura più rapida, immediata, ma decisamente meno concreta. Mi sono recentemente occupata delle scritture giovanili attraverso i social network, in particolare per ciò che concerne la poesia: sono moltissimi gli Under 30 che oggi esprimono il proprio estro in rete, approdando solo in un secondo momento alla carta stampata. Valerio Magrelli, che stando alle parole di Giorgio Patrizi (La ricerca poetica negli anni Ottanta e Novanta, in «Storia generale della letteratura italiana» a cura di N. Borsellino e W. Pedullà, Federico Motta Editore, Milano 1999, vol. XII, p. 619) era, ai propri esordi, proiettato «all’interno di una condizione materica – biologica, fisiologica, minerale», come si pone nei confronti di questa dimensione del tutto immateriale? Qual è il suo rapporto con il web e, più nello specifico, con i social network?
A quello che ho detto aggiungo una cosa: mi è anche capitato di prendere appunti con Dragon Dictation, l’app di riconoscimento vocale in cui, dettando, l’orale si trasforma in testuale. Da questo punto di vista, più è immediata la presa di contatto con quello che vogliamo dire e meglio è, non faccio grandi differenze per quel che riguarda il supporto usato. Poi certo, il lavoro invece avviene sempre sulla carta, perché entrano in ballo il ritmo e la metrica, due cose molto diverse ma altrettanto importanti, e dunque si finisce per agire sullo spazio, sul rettangolo di gioco che è quello della pagina. Ma all’inizio ogni segnale è buono per lasciare una traccia; per me è importante proprio questa foga, questo slancio nel prendere l’appunto, immediatamente, e quindi tutti gli strumenti vanno bene.
Discorso a parte quello dei social: siccome ho scoperto di perdere più di un’ora al giorno con le mie mail, mi sono vietato di andare sui social, anche perché ho invece dei compiti molto importanti rispetto alla lettura di alcuni libri che altrimenti non avrei il tempo di leggere. Ho dei blog curati da amici, ai quali però non partecipo minimamente. La mail rimane, certo, ma per me la vera fonte di contatto è il telefono: io sono orale al mille per mille.
Per quanto riguarda queste forme di poesia che nascono e si diffondono in rete mi rifaccio alla mia esperienza. La mia generazione ha partecipato per anni a reading, cioè letture pubbliche, per vedere poi questi testi pubblicati anche molto tempo dopo: io vengo da uno stato di sistematica sperimentalità. Il mio primo lavoro accademico è stato sul Dadaismo, ho polemizzato con il Gruppo 63 perché mi sento più dadaista di loro, sono aperto a qualsiasi cosa. Ciò premesso, devo dire che purtroppo molto spesso i risultati sono invece desolanti; è vero che esistono dei gruppi di notevole valore – ad esempio a Roma c’è un gruppo che fa scrittura asemantica e traduce Ponge o Tarkos –, però per il resto proliferano delle poesie da Baci Perugina che sono da mettersi le mani nei capelli. Questo tuttavia non dipende dallo strumento, ma dal contesto che le genera.
Spesso la poesia contemporanea viene identificata come un canale comunicativo esclusivamente emotivo, utile per l’anima ma lontano dalla realtà. All’interno della sua produzione troviamo invece un costante collegamento con l’attualità, in particolare con il mondo dei media, già a partire da Didascalie per la lettura di un giornale (Einaudi, 1999). Ne Il commissario Magrelli (Einaudi, 2018) i riferimenti alla cronaca sono tutt’altro che marginali: il G8 di Genova, Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi, Giulio Regeni sono solo alcuni dei casi che hanno invaso le televisioni e i giornali per anni, senza mai ricevere adeguate risposte dalla giustizia, e di cui il poeta, in veste di commissario – ironico, tagliente –, si fa a questo punto paladino. Finalmente ci troviamo davanti a una poesia davvero impegnata, che non ha paura di fare nomi e cognomi. Atteggiamento già riscontrato negli anni passati riguardo a questioni politiche correnti, come il noto congedo dal PD del 2009 (su «MicroMega», 18 marzo 2009), con quel guanto sinistro che rivoltandosi diventava destro. Ritiene che la militanza politico-letteraria possa essere uno strumento utile ed efficace nel panorama attuale? Avere un ruolo sociale decisivo: è questo, in fin dei conti, uno dei molteplici ruoli della poesia?
Qui ogni risposta è esclusivamente personale, devo sottolinearlo dieci volte; ognuno fa quello che crede, non esistono regole e non c’è niente di più orribile di un poeta obbligato a seguire la linea di un partito. Personalmente, io voglio sfruttare quel poco di possibilità che ho in più rispetto agli altri per far sentire la mia opinione, semplicemente perché se posso scrivere un articolo ne approfitto per denunciare ciò che tanti altri condividono con me ma non hanno la possibilità di esprimere. In questo senso a me piace poter dire di provare a fare un’attività che sia anche politica.
Nel momento in cui c’è qualcuno che ti ascolta, tanto vale approfittarne per dirgli di non comprare le bottiglie di plastica. Anche se io facessi il calciatore direi la stessa cosa. È chiaro che non si può chiedere ad una figura pubblica di intervenire su tutto; mi è piaciuto molto Klopp, allenatore del Liverpool, a cui hanno chiesto un parere sul coronavirus. La sua risposta è stata «Perché chiedete a me? […] La mia opinione non è importante». E lo stesso risponderei io. Però ci sono delle cose su cui chiunque deve dare il suo parere, ad esempio la plastica non va comperata.
Quasi dieci anni fa pubblicavo Il Sessantotto realizzato da Mediaset (2011), il libro più polemico che abbia mai fatto, che stranamente venne edito da Einaudi; un libretto completamente antiberlusconiano, la cui pubblicazione fece onore alla casa editrice. Proprio nella prima pagina parlavo del «trionfo di due materiali il cui abuso sta rovinando l’ecologia del pianeta: plastica e musica». Non capisco perché dover essere molestato da una musica scelta da qualcun altro. Vuoi sentire la musica? Comprati le cuffie. Perché usi questa violenza contro di me? Questo è uno dei miei cavalli di battaglia; a questo proposito ho addirittura trovato un testo in cui Kant dichiara che, di tutte le arti dell’uomo, la musica è l’unica arte maleducata, perché infastidisce chi non la vuole sentire. Si tratta di rispetto, una cosa del genere va detta. Quindi io in un mondo di domani vedrei il silenzio e il vetro, che hanno soppiantato la musica e la plastica, nel rispetto dell’uomo e dell’ambiente. Quando mi vengono a dire «Ma non ti piace la musica?», rispondo no, non è che non mi piaccia la musica, non mi piace la tua musica: io non ti obbligo a sentire quella che piace a me, e pretendo che tu non faccia lo stesso. Sono discorsi logicamente ardui, mi rendo conto, ma se io fossi il Sovrano d’Italia la prima cosa che metterei tra le materie a scuola sarebbe un corso obbligatorio di “reciprocità”. Due ore a settimana di reciprocità, insegnerei che tu non puoi fare una cosa a me se io non la faccio a te. Sono cose più difficili da capire della fisica quantistica, ci vogliono anni e anni. Ma io credo che dopo dodici anni di due ore a settimana, lo capirebbe davvero chiunque.
La poesia è l’ambito in cui è maggiormente conosciuto ma, come già detto in apertura, sono numerosissimi i contesti con i quali si è confrontato nel corso della sua carriera. La traduzione in particolare ha avuto un ruolo di rilievo, non solo per ragioni accademiche – in quanto professore di letteratura francese – ma anche per una vocazione dimostrata da sempre, che l’ha portata a lavorare al fianco di Giulio Einaudi dal 1993. Quello della traduzione è un terreno insidioso, perché essere fedeli ad ogni aspetto dell’originale è impossibile: universo culturale, contenuto, musicalità, ritmo. Per assecondarne uno è necessario tradire l’altro. L’idea della collana «Scrittori tradotti da scrittori» era forse quindi quella di restituire un testo non fedele ma, al contrario, coerente nella propria infedeltà, frutto dell’esperienza di chi nel quotidiano affronta il conflitto interno ad un qualsiasi testo scritto e quindi si svincola dalla mera letteralità. Qual è il valore aggiunto che un Cesare Pavese, una Lalla Romano o un Primo Levi – per citarne solo alcuni – hanno potuto offrire alla traduzione o, al contrario, quale dono la traduzione ha potuto far loro? Qual è l’indissolubile legame che intercorre tra la letteratura e la traduzione?
La traduzione è un’ottima occasione per realizzare due obiettivi: il primo è conoscere una nuova lingua, ossia un nuovo mondo; il secondo è abbandonare il proprio. Quindi con un unico movimento otteniamo due cose preziose: allontanarci da quella monotonia che a volte caratterizza chi si fossilizza nel proprio piccolo mondo, e dall’altra parte conoscere qualcosa di radicalmente inedito. Un grande scrittore, André Gide, diceva che se fosse stato un dittatore – io prima dicevo “se io fossi un Sovrano”… – avrebbe obbligato tutti gli scrittori a tradurre almeno un libro nella loro vita, proprio per spingerli fuori da questo isolamento che a volte può essere sterile.
Io ho dedicato un libro intero, uscito un paio d’anni fa (La parola braccata, Il Mulino, 2018), al problema della traduzione e ritengo che la traduzione sia un preziosissimo avvicinamento al mistero della letteratura, per dirlo con le parole di Borges. Chi non è un letterato, chi non è un romanziere, chi non è un poeta dovrebbe studiare come funzionano le traduzioni per capire cosa vuol dire “fare letteratura”.
Per concludere questa intervista, mi piacerebbe parlare del suo rapporto con la contemporaneità letteraria: si è spesso mostrato contrario alle classifiche e alle imposizioni del mercato, anteponendo la qualità all’ottica del consumo. Quali sono allora i suoi punti di riferimento per l’offerta letteraria attuale, lontani dalle inflazionatissime top ten? In chi, o in che contesto, un giovane che si avvicina oggi alla scrittura può trovare il proprio modello?
Il vero problema di oggi è la fine della critica letteraria sui grandi mezzi di comunicazione: se andiamo a vedere riviste online, giornali, non ci sono più critici letterari. Questo è triste, perché i critici letterari in Italia esistono eccome, ce ne sono di decani – penso ad esempio a Mengaldo e Lavagetto – e ce ne sono di giovani di grandissimo valore – i primi che mi vengono in mente sono Bello Minciacchi, Calandrone, Cortellessa, Mazzoni, Policastro, Simonetti –. Persone che fanno questo lavoro ci sono, ma questo stesso lavoro viene rubato loro da gente che non ha neanche un centesimo delle loro capacità, delle loro competenze, del loro studio. Quando io leggo «lasciamo la parola ai lettori» mi vengono i brividi e mi sposto sempre sul piano delle competenze: se ho una carie, io vado da un dentista; e se il dentista mi dicesse «Ma lasciamo la parola ai passanti!» ne resterei sconvolto. Io non voglio farmi curare da un passante, io voglio un esperto. E allora la mia domanda è: perché i denti ce li facciamo curare dagli esperti e i libri ce li lasciamo suggerire dai passanti? Forse perché la letteratura non vale niente? Ecco, la vera differenza è tra chi crede che la letteratura abbia un valore e chi crede che la letteratura sia come una trasmissione televisiva: se tu credi che la letteratura sia Il Grande Fratello, vai al bar e fatti dare un parere dal primo che incontri; se invece credi che la letteratura come l’odontoiatria abbia una dignità, rivolgiti al dentista e al critico letterario.
Il mio suggerimento per chi scrive è quello di alzare gli occhi e guardare il mondo, prima di cominciare a scrivere e a parlare di sé. Quindi io ritengo che chiunque scriva una poesia abbia l’obbligo di leggere un unico libro, l’antologia Poeti italiani del Novecento di Mengaldo (Mondadori, 1978). Se tu non hai letto prima quell’antologia, non puoi scrivere. Hai letto quell’antologia? No. E allora torna a casa con i tuoi foglietti e i tuoi versi, perché hai il dovere almeno di conoscere i maestri del tuo tempo. Questo sì, dev’essere proprio un dovere. Anche perché è un’antologia, quindi un libro in cui incontrerai più di quaranta poeti diversi: venti ti faranno schifo, dieci ti faranno sorridere, gli ultimi dieci ti entusiasmeranno. Non si può scrivere nel nulla, chi scrive ha l’obbligo di conoscere chi è venuto prima di lui, almeno i più grandi.
L'autore
- Ilaria Dinale si è laureata in Lettere Moderne presso l’Università degli studi di Roma “La Sapienza” con una tesi dal titolo “Scritture poetiche e narrative nei social network. Panorami italiani”. Presso il medesimo ateneo attualmente frequenta il corso di laurea magistrale in Linguistica.
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