La storia del primo romanzo (o meglio, racconto lungo) di Andrea Donaera, poeta pugliese, è davvero intrigante. Qui però mi soffermerò poco sulla trama, lasciando al lettore il piacere della scoperta.
Tutto inizia col suicidio di un quindicenne figlio di Mimì, un boss della Sacra corona unita, snodandosi poi nell’insieme di storie personali che si intrecciano attorno a questo evento, anche se non si tratta veramente di storie (la vicenda è solo una, quella principale, di cui è protagonista Mimì), quanto di viaggi nei meandri interiori dei vari protagonisti della storia. Un racconto abbastanza statico quindi, si potrebbe dire forse claustrofobico, in cui c’è pochissimo dello splendido paesaggio pugliese e le descrizioni dell’ambiente sono esterno ridotte al minimo. Il paesaggio insomma, la realtà esterna oggettiva rimane secondaria ai vissuti dei personaggi.
L’autore è bravo nel consentire al lettore di capire solo gradualmente il disagio nascosto di un adolescente che si uccide, lasciando intravvedere nel corso dell’intera narrazione il possibile legame di questo, solo suggerito però e mai esplicitamente approfondito, con una passione per certa musica heavy metal volgarmente detta “satanica”, e perfino con presenze sovrannaturali che aleggiano sui protagonisti in certi frangenti particolarmente significativi. Si tratta però soprattutto di una storia intrisa di violenza, che non risparmia al lettore i particolari macabri, e dalla quale emerge come da un nucleo iniziale di violenza, incistato nella storia del padre mafioso, ricada come una pioggia malvagia la violenza successiva, autoinflitta o eteroinflitta, su tutti i membri della famiglia. Dalla violenza nasce violenza insomma, e non c’è salvezza. La “bestia” citata nel titolo, probabile riferimento ad una dimensione occulta che sembra aleggiare negativamente sulla vicenda, si riferisce innanzitutto alla bestia che è nell’uomo, al male di cui quest’ultimo è capace.
Risulta interessante la modalità del racconto, tramite un discorso indiretto libero che si posa su tre personaggi: l’altra figlia del boss, Arianna, poco più che adolescente anche lei; il fidanzatino di questa, Emanuele (detto “Veli”); e soprattutto Mimì, il padre malavitoso del ragazzo suicida. Il linguaggio usato cambia coerentemente a seconda del personaggio e trova il suo apice, a mio avviso, quando il narratore parla dalla prospettiva del boss attraverso una narrazione frenetica – caratterizzata da una sintassi molto semplice, infarcita di ripetizioni e di cadenze dialettali, e continuamente spezzata dalla punteggiatura – capace di trasmettere di continuo una forte tensione al lettore. Ed è proprio in questi frangenti che l’autore lascia intravedere il suo talento, considerata che si tratta della sua prima vera prova narrativa di questa ampiezza. Donaera è bravo anche a tenere alta l’attenzione del lettore anche attraverso i dialoghi, ancora più scarni della narrazione e sempre molto credibili.
Ciò che convince meno del libro, a mio avviso, è da un lato la capacità dell’autore di immedesimarsi nella visione delle cose e nel pensiero dei personaggi femminili della vicenda. Mi riferisco in particolare alla figlia del boss, Arianna, di cui vengono riportate ogni tanto le frasi del suo diario personale, che dovrebbero dire molto di lei ma che non sembrano proprio coerenti con l’ambiente culturale che la circonda per la loro sensibilità e raffinatezza, risultando più tipiche di una ragazza di alto livello d’istruzione o certamente più matura di quanto la stessa non sia. Si sente troppo, in queste frasi e nei ragionamenti collegati, la presenza ingombrante dell’autore. Ma anche il comportamento e i ragionamenti di Nicole, l’altra adolescente della storia di cui il ragazzo morto si era invaghito, non risulta sempre realistico: sequestrata dal boss, e poco tempo dopo aver assistito alla morte del proprio padre, trova il tempo e la voglia di fare batture ironiche, di scherzare, di pensare al sesso e ad una vita insieme col proprio compagno di prigionia appena conosciuto.
Infine la faccenda centrale del suicidio, che inizialmente sembrava celasse motivi più torbidi e interessanti che non un comune amore adolescenziale non corrisposto (motivi riferentisi appunto a quella cultura musicale metal) non viene a mio avviso sviluppata a dovere, lasciando un po’ di amaro in bocca dopo aver incuriosito il lettore. Una storia quindi che avrebbe potuto essere più ampia, articolata e ancora più interessante di quella presentataci.
Si potrebbe dire quindi che Donaera come romanziere ha certamente ancora strada da fare, soprattutto nella direzione di concentrare maggiormente la sua lente su alcuni dettagli dei personaggi e sullo sviluppo e approfondimento delle vicende narrate. Però viene anche da dire che la stoffa c’è, sia nella capacità di tenere il lettore incollato alla pagina (e non è poco), sia nella capacità di creare una storia interessante, sia infine nell’uso della lingua. I lettori lo attendono ad altre prove.
L'autore
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Marco Nicastro (Caltagirone, 1979) vive e lavora a Padova. Da anni si occupa di psicoanalisi, poesia e scrittura. Ha pubblicato diversi articoli di argomento psicoanalitico su riviste scientifiche e i saggi Il carattere della psicoanalisi (Psiconline edizioni, 2017), Pensieri psicanalitici. Riflessioni non ortodosse sulla psicanalisi (Polimnia Digital Editions, 2018), La resistenza della scrittura. Letteratura, psicoanalisi, società (Ladolfi, 2019). Ha pubblicato per il sito della Mondadori "Studenti.it" l'ebook Ti presento Eugenio Montale. Riscoprire il piacere della poesia (2020).
Suoi articoli e recensioni sono apparsi su vari blog e riviste culturali online tra cui Le parole e le cose, La Balena Bianca, Il lavoro culturale, Atelier, Kasparhauser, Cultweek, Pangea.
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