L’aspirazione all’altrove è da sempre una costante della vita dell’uomo, una vocazione interiore che coincide con un bisogno di conoscenza che è alla base dello status viatoris, dell’uomo di oggi come di ieri. Il richiamo all’altrove è d’altronde il leitmotiv del viaggiatore: quanto abbiamo viaggiato con la fantasia su quegli atlanti durante gli anni di scuola, quanto abbiamo sognato di mari blu e sconfinati, e non è un caso che il primo eroe letterario della civiltà occidentale sia appunto Ulisse, l’uomo dal multiforme ingegno, il viaggiatore per eccellenza. “Uomo libero, sempre amerai il mare” scriveva Baudelaire a riconferma di quella aspirazione dell’uomo alla libertà, sui lidi della conoscenza, che l’esperienza del viaggio sottende e ricompone in unità, come condivisione umana dell’essere, del sapere, del riconoscersi.
Sono molti i viaggiatori della letteratura, così come molta letteratura è stata prodotta da viaggiatori. In quanto metafora dell’esistenza umana, il viaggio coinvolge tutti, sia che si tratti di una partenza vera, sia che si tratti di uno spostamento immaginario, un sogno della fantasia, come ci ha insegnato fin troppo bene il Des Esseints della penna di Huysmans. Eppure, se di viaggi sono intessute le nostre vite, dai viaggiatori (moderni o meno) nascono pagine di letteratura dall’alto valore umano e documentario, memorie di viaggio sempre attuali, se il cuore dell’uomo resta lo stesso mentre cambiano epoche e giorni. Sono riconducibili all’Abruzzo d’età moderna molte memorie di viaggio: una terra che ha da sempre affascinato, attirando artisti, scrittori, pellegrini, registi, turisti di ieri e di oggi, villeggianti, autori di memorie. Tra questi, padre Serafino Razzi, tornando indietro di anni e anni, nel tempo.
Il tema della letteratura odeporica si arricchisce di un ulteriore capitolo con le memorie di viaggio in Abruzzo a cura del frate domenicano Serafino Razzi, scritte nella seconda metà del ‘500, a testimonianza di un viaggio che il religioso compì in diverse regioni italiane, tra cui figura appunto la terra d’Abruzzi.Il diario rappresenta un importante precedente a quelle cronache di viaggio nella regione che saranno materia ambita per i cultori settecenteschi del Grand Tour, ma allo stesso tempo costituisce un’eccezione a quella concezione di derivazione trecentesca e di chiaro sapore boccacciano di un Abruzzo isolato e irraggiungibile, terra misteriosa e impenetrabile, che da sempre gli costò nella fantasia popolare una reputazione di luogo remoto e dalle usanze singolari.
È in questa accezione dunque che l’opera acquista un’importanza fondamentale.
Il frate domenicano Serafino Razzi (1531- 1611) intraprende “il viaggio alla riforma d’Abruzzi” come tappa ulteriore di un itinerario che lo aveva portato a visitare diverse città del tempo: siamo negli anni che vanno dal 1574 al 1577, sebbene è quasi certo che tutte le carte di viaggio siano state da lui successivamente rimaneggiate e sistemate intorno agli anni 1597-1601, per essere raccolte in due volumi manoscritti, di cui solo uno è giunto fino a noi. Il manoscritto superstite, segnato Palatino 37 e conservato nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, è molto usurato, al punto che alcune carte risultano illeggibili (per la sezione relativa all’Abruzzo, si sono nel tempo susseguite diverse edizioni critiche, tra cui quella dell’editore Polla, di Luigi Anelli e di Benedetto Carderi).
Il testo ha il merito di ritrarre l’Abruzzo del tempo, con un’attenzione documentaria e cronachistica di cui non si hanno precedenti: dominano nella narrazione gli aspetti folcloristici e umani, l’attenzione per la citazione colta e per la cura del dettaglio formale, la chiarezza espositiva che sottolinea la vita raccontata nella geografia dei luoghi e dei giorni.
Grande scrittore e divulgatore di opere in latino e volgare, Serafino Razzi doveva essere di certo consapevole del valore culturale ed umano dei propri scritti, tanto da sottolinearne egli stesso l’utilità nella prefazione al manoscritto: “e non è questa sorta e maniera di scrivere se non gioconda et utile. Gioconda per la varietà degli accidenti che accaggiono dì per dì. Utile poi per la cognizione di molti luoghi, e di molte città, la quale si acquista et impara”.
Una dichiarazione di poetica e programmatica, dunque, di un certo impegno documentario e divulgativo, che se da un lato si può ricondurre al ludendo docere di deamicisiana memoria, offre una chiave di lettura importantissima sullo stato della società del tempo, da cui si evincono le difficoltà per il viaggiatore di ogni sorta e si enunciano gli opportuni consigli e ammonimenti: “nelle quali descrizioni sono molte cose spettanti […] alla informazione dei costumi, e delle cautele, le quali devono osservare coloro i quali fanno i viaggi”.
Effettivamente, l’Abruzzo di Serafino Razzi è una regione figlia dei tempi. Un territorio sottoposto al dominio spagnolo, che ha visto decadere la via degli Abruzzi quale direttiva principale dei commerci tra nord e sud nella penisola, che conosce il fenomeno del banditismo e delle incursioni saracene via mare. Ma allo stesso tempo è una terra luminosa e ubertosa, sospesa tra gli alti e impervi monti e la costa, dove si collocano centri vitali pieni di religiosità, monasteri e chiese, conventi e abbazie, testimonianze ricche di storia e di umanità.
Se l’occasione della visita è per il nostro frate la nomina a Priore del Convento di Penne nel luglio del 1574, il viaggio diventa per il lettore di ogni tempo un vero e proprio documento: colpiscono le pagine in cui si descrivono i centri principali, Civita di Penna, Solmona, la nobilissima città “patria del già famosissimo poeta Ovidio”, Pescara, “una fortezza, fatta a disegno militare e di mura e di sito quasi inespugnabile”, e ancora Chieti, Lanciano, Vasto, “terra deliziosa, già chiamata una picciola Napoli”, fino a Petacciata, Termoli. È vivida la descrizione di Spultore, città ricca di grano, così come sono vivide le trascrizioni latine e soprattutto i proverbi, espressione di una cultura popolare che reca con sé l’impronta della verità o testimonia la pratica della transumanza: “chi provar vuoi le pene dell’inferno la state in Puglia e all’Aquila lo inverno”, oppure“gran concio va al mulino”.
O ancora, particolare interesse riscuotono i passi in cui l’allarme per le incursioni turche scuote l’intera cittadina di Francavilla: “Ma non avevamo ancora compito il primo sonno della notte, che sentimmo gridare per la terra “all’armi” per cagione di fuste, che stimavano turchesche […] Onde la misera terra piena di spavento, tutta commossa, con molta sollecitudine incominciò a fare il fardello delle più preciose cose, et inviare le donne, per la porta di terra verso la montagna”.
Emerge dalle pagine uno spaccato di vita vissuta e semplicità, che alle difficoltà materiali del viaggio unisce il rischio per la presenza di briganti e banditi lungo le strade principali.
Può sembrare dunque vero ed essere smentito allo stesso tempo, quanto scriveva Boccaccio nel Decameron a proposito di un Abruzzo misterioso e lontano: difficoltà di viaggio certo, ma in un territorio che continua ad affascinare il viaggiatore di ogni sorta, via di passaggio peri pellegrini, i forestieri e i tanti religiosi che ancora alla fine del Cinquecento circolano nella regione.
Così, quella fama particolare, quell’aura fascinosa di luogo curioso e remoto che Frate Cipolla avvicinava fantasiosamente alla “Terra dei Baschi”, permane in minima parte ancora oggi, come dono del tempo e della tradizione: “E quindi passai in terra d’Abruzzi dove gli uomini e le femmine vanno in zoccoli su pei monti, rivestendo i porci delle lor busecchie medesime; e poco più in là trovai genti che portavano il pane nelle mazze e il vin nelle sacche; da’quali alle montagne dei Baschi pervenni” (Boccaccio, Decameron, VI giornata).
L'autore
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Laura D’Angelo è scrittrice e poetessa. Dopo la laurea con lode in Lettere classiche e Filologia classica, consegue un Dottorato di ricerca in Studi Umanistici. Docente di materie letterarie, pubblica articoli accademici su riviste scientifiche e saggi in volumi collettanei, approfondendo lo studio della letteratura e della poesia contemporanea. Giurata in diversi Premi nazionali di poesia e narrativa, partecipa a convegni internazionali e svolge attività di critica letteraria, curando presentazioni di libri e interviste. Ha scritto per diverse testate giornalistiche ed è autrice di riviste culturali e letterarie. Tra i suoi testi scientifici: Dante o dell’umana fragilità, in «Sinestesieonline», a. X, n. 32, 2020; L’Isottèo di Gabriele D’Annunzio e la poetica della modernità, in Un’operosa stagione. Studi offerti a Gianni Oliva, Carabba, Lanciano, 2018; Gabriele D’Annunzio e le case della memoria, in Memories &Reminiscences; Ricordi, lettere, diari e memorialistica dai Rossetti al Decadentismo europeo, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Chieti-Vasto, 20-21 novembre, 2019, in «Studi medievali e moderni», a. XXIV – n. 1/2020; Music and Soul: Gabriele D’Annunzio and his Abruzzo Homeland, in Bridges Across Cultures, Proceedings, Vasto, 2017; Dante tra web e social network, in «Studi medievali e moderni», a. XXV – n. 1-2/2021; L’etica dell’acqua, in «Gradiva», International Journal of Italian Poetry, n.62/2022, ed. Olschki, Firenze; La “Prima antologia di poeti dialettali molisani” di Emilio Ambrogio Paterno, in «Letteratura e dialetti», vol. 16, 2023; Da “Cuore” a “L’appello” per una scuola dell’inclusione, in «Nuova Secondaria Ricerca», n.8, aprile 2023. Ha pubblicato inoltre il volume di prose poetiche Sua maestà di un amore (Scatole Parlanti, 2021), semifinalista al Concorso di Poesia “Paolo Prestigiacomo” e il volume Poesia dell’assenza (Il Convivio editore, 2023). Sta recentemente approfondendo lo studio della poesia e della letteratura molisana.
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