Giuseppe Tomasi di Lampedusa, duce di Palma e principe di Lampedusa, nato a Palermo il 23 dicembre 1896, era figlio di Giulio Tomasi e Beatrice Tasca di Cutò. La baronessa Teresa Piccolo era sua zia; Agata Giovanna, Casimiro e Lucio suoi cugini. Con Lucio in particolare Tomasi legò subito per comuni affinità letterarie. Fra di loro s’instaurò una sorta di affettuoso antagonismo, una sana competizione letteraria che portò il poeta, dopo il successo del Gattopardo, a dire che Lampedusa era suo cugino e non lui cugino di Lampedusa.
Nel ’54 il principe accompagnò Lucio Piccolo al meeting di San Pellegrino Terme e fu partecipe del “trionfo” del cugino coronato dalla successiva pubblicazione dei Canti barocchi prefati da Montale per Mondadori.
La decisione di scrivere il romanzo fu probabilmente determinata dal consenso letterario del cugino.
Nel ’56 proprio Lucio Piccolo aveva spedito alla Mondadori l’opera del Lampedusa senza successo. Il romanzo intanto venne rifiutato anche da Elio Vittorini, consulente editoriale dell’Einaudi. Fu a Capo d’Orlando dai Piccolo che si rivelò il male di cui già soffriva Giuseppe Tomasi, un tumore al polmone destro. Era l’aprile del ’57. Ricoverato in una clinica a fine maggio, morì il 23 luglio a Roma.
L’anno appresso Giorgio Bassani pubblicò Il Gattopardo con Feltrinelli ed ebbe un’insperata fortuna. Dopo quello di Lucio Piccolo era scoppiato il “caso” letterario, ancora più éclatant, di Tomasi di Lampedusa. Nel ’59 il Gattopardo si aggiudicò il premio “Strega”. Il regista Luchino Visconti ne ha fatto poi un film, premiato con la Palma d’oro a Cannes nel ’63, tra i capolavori del cinema italiano. Oggi questo romanzo, che ha avuto milioni di lettori e traduzioni in tutto il mondo, è uno dei best-seller del ventesimo secolo.
La prima, ormai mitica edizione del Gattopardo di Tomasi, prefata da Bassani, figura nella collana feltrinelliana “Biblioteca di letteratura” diretta dallo stesso Bassani, risale al 1958. Il romanzo, dopo un’odissea editoriale che fece storia, venne stampato in appena tremila copie perché non ci si aspettava un gran successo e invece andò letteralmente a ruba, in sei mesi si vendettero sessantamila copie e già due anni dopo si era alla sessantaquattresima edizione.
Maria Bellonci così racconta nel suo Io e il premio Strega (1987) come si pervenne alla scelta del Gattopardo vincendo il prestigioso riconoscimento: «Fra i nostri 361 votanti c’era tempesta. Qualcuno sosteneva che era impossibile non tener conto della presenza di un’opera simile nella nostra letteratura; rispondevano altri che appunto la sua eccezionalità la metteva fuori concorso. Nulla nel nostro regolamento vietava la sua inclusione nella lista. (…) Moravia presentò, insieme con Gianfranco Contini, Una vita violenta di Pier Paolo Pasolini. A loro volta alcuni professori universitari indicavano la Casa della vita di Mario Praz, che fu presentato da Alfredo Schiaffini e Giacomo Debenedetti» (…).
«La sera del 7 giugno prima di mezzanotte, scadevano a quell’ora le presentazioni, aprimmo il telegramma col quale la principessa di Lampedusa dava il suo consenso alla partecipazione del Gattopardo al premio. Presentatori erano due scrittori di autorità senza ombra, Geno Pampaloni e Ignazio Silone. (…) La votazione fu seguita in un silenzio più teso del solito. La percentuale dei votanti effettivi era stata altissima, il novantaquattro per cento; dei tre libri che rappresentavano le tre correnti principali, Il Gattopardo ebbe 135 voti, La Casa della vita 98, Una vita violenta 70».
Lo “Strega” fu la consacrazione del Gattopardo.
Ma quando il romanzo fu pubblicato i critici subito si divisero in favorevoli e contrari perché venne a cadere in un periodo, quello appunto della fine degli anni Cinquanta, in cui l’ideologia letteraria del neorealismo sembrava corrispondere anche a una “crisi del romanzo” tradizionale. Frattanto nasceva la neoavanguardia e si apriva una nuova stagione socio-culturale in Italia, quella industriale che avrebbe portato al boom economico degli anni Sessanta e allo sviluppo del consumismo. Questo lo capì e lo scrisse Pier Paolo Pasolini riferendosi anche al Gattopardo. Ciò generò numerose inchieste giornalistico-letterarie da cui emerse una nuova coscienza del mercato librario, del gusto del pubblico, dell’investimento editoriale. Fu proprio il caso del Gattopardo, primo best-seller del mercato italiano assieme a Il dottor Zivago di Pasternak, considerato un romanzo “inattuale”, ad accendere un aspro confronto politico-culturale che oltrepasserà la dimensione della lettura critica del testo.
Fu Vittorini a innescare una discussione sul Gattopardo come caso editoriale. Intervistato da “Il Giorno” il 24 febbraio 1959, Vittorini accusò Bassani di aver pubblicato un romanzo del tutto estraneo alle problematiche della letteratura contemporanea, un romanzo a suo giudizio vecchio e ricalcato su I Viceré di De Roberto. Il provocatorio intervento di Vittorini, che riteneva il romanzo lampedusiano non adatto alla “sinistra letteraria” votata all’avanguardia in cui lui stesso si riconosceva, venne criticata. Pampaloni disse di essere scettico sulla possibilità di individuazione di una “destra” e di una “sinistra” letteraria dichiarando di avversare una lettura ideologica del Gattopardo. Anche Luigi Russo, Giorgio Barberi Squarotti e il poeta francese Aragon si schierarono con Pampaloni. Tuttavia era difficile, in quella contingenza temporale, sottrarsi a una lettura ideologica del romanzo e Moravia, concordando con Vittorini, accusò Il Gattopardo di essere un successo della “destra letteraria”. Anche Sciascia espresse riserve sul romanzo per via di una Sicilia astratta, mentre Giacomo Debenedetti affermò che l’opera di Lampedusa era anche un romanzo storico ma soprattutto un romanzo di famiglia, alla Buddenbrook di Thomas Mann.
La bibliografia sul Gattopardo è, come potete immaginare, a distanza ormai di sessant’anni dalla sua uscita, molto vasta. Oltre ad articoli e saggi apparsi in Italia si è scritto parecchio anche all’estero. Fra le recensioni più valide figurano quelle di Carlo Bo, Giuseppe De Robertis, Eugenio Montale, Carlo Salinari. Carlo Bo e Montale, in particolare, azzeccarono in pieno il giudizio dimostrando di aver fiutato rabdomanticamente l’autentica sostanza di un romanzo destinato a diventare un moderno classico della narrativa italiana.
«(…) A lettura finita ricordiamo tutto del Gattopardo – chiude Montale il suo articolo sul “Corriere della Sera” – e siamo certi che prima o poi vorremo rileggerlo da capo a fondo. E ci chiediamo di quanti libri dell’ultimo decennio si possa dire altrettanto». La recensione su “La Stampa” di Bo diede il via al concerto della critica. «Un libro per molti versi più che notevole, un libro d’eccezione nel miglior senso della parola – scrive Carlo Bo -, tale da costituire non soltanto un caso ma da autorizzare il senso di una rivelazione, soprattutto se si tengono presenti le condizioni della nostra narrativa. (…) Il Tomasi si è servito del romanzo per confessare la sua esperienza umana, solo questo ma questo poco o tanto (ognuno sceglie secondo i suoi gusti) l’ha fatto con tanta sicurezza da lasciarci sorpresi e arricchiti. Di quanti romanzi si può dire altrettanto?».
Importanti sono, poi, cinque interventi in particolare che esemplificano diverse prospettive e modi di lettura del romanzo (cfr. Giancarlo Buzzi, Invito alla lettura di Tomasi di Lampedusa, Mursia, Milano 1972-1973). Il primo del gesuita Giuseppe De Rosa (“Civiltà cattolica”, 8 aprile 1959), offre il punto di vista di un cattolico militante e di stretta osservanza (apprezza i valori letterari del libro ma deplora lo «scetticismo moralmente inaccettabile»). Il secondo di Mario Alicata, comunista ortodosso (“Il Contemporaneo”, aprile 1959), in cui si dà invece un’impostazione critica di tipo marxista (accusando Tomasi di avere una limitata visione della storia e di fornire una immagine «ristretta e meschina» del Risorgimento). Il terzo di Geno Pampaloni (“Comunità”, febbraio 1959), già citato prima, che tenta una critica scevra da pregiudizi e non condizionata da prese di posizione ideologiche. Pampaloni, come si diceva, afferma l’assoluta contemporaneità di quell’atteggiamento di «indifferenza dell’individuo verso la storia» che è del Principe Salina in contrapposizione all’inattualità del Gattopardo avanzata da Vittorini. Quest’ultimo, come si sa, sul “Giorno” assume un atteggiamento negativo del Gattopardo considerato un libro non costruttivo, senza prospettive nuove. La visione immobilistica e pessimistica della storia simboleggiata nel Gattopardo da una frase entrata nel linguaggio quotidiano («se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi») non piaceva, non venne capita. Il quinto intervento di Giorgio Bassani (Prefazione al Gattopardo) in controtendenza rispetto al giudizio ostile di Vittorini ritiene invece il romanzo di Tomasi come «un felicissimo caso di poema nazionale», come un «grande saggio critico sulla letteratura decadente da cui deriva». Ma anche la critica del Bassani cade in eccessi fin troppo evidenti e attribuisce al libro un significato e un valore esagerati.
Le dispute sul Gattopardo, inoltre, non si limitarono al momento del debutto e non cessarono dopo la vittoria dello “Strega”. Si poteva essere entusiasti o meno del romanzo di Lampedusa, ma la cosa certa era che il libro non passava più inosservato. Alcuni personaggi ed espressioni erano diventate ormai proverbiali come “gattopardesco”, per riferirsi a cosa anacronisticamente pittoresca, o “gattopardismo”, un neologismo coniato dal romanzo per etichettare quel trasformismo frequente nella storia politica italiana derivante dal «perché tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi». Insomma, non si poteva ignorare e lo dimostrano due colossi della critica contemporanea, Gianfranco Contini e Cesare Segre, che nei rispettivi volumi sulla letteratura italiana del Novecento, del ’78 il primo e del ’98 il secondo, dedicano al Gattopardo parole più positive che negative. Le polemiche, tuttavia, si sono protratte anche recentemente. In un mia intervista del ’98 sulla “Gazzetta del Sud”, per esempio, Vincenzo Consolo rispose su una controversia scoppiata fra Asor Rosa e Francesco Orlando a proposito del Gattopardo. Per Asor Rosa il romanzo vale poco, è mediocre; per Orlando è invece il capolavoro assoluto del Novecento europeo. Consolo prende le distanze da entrambi i contendenti a suo parere troppo estremisti e giudica Il Gattopardo comunque un grande libro senza gli eccessi pro e contro espressi da Orlando e Asor Rosa.
Dopo questo excursus necessario sulla fortuna critica del romanzo di Tomasi per inquadrare il giudizio di Quasimodo, è interessante apprendere la posizione del poeta sul Gattopardo. Un giudizio, il suo, rimasto pressoché sconosciuto e che valuta l’opera del conterraneo fuori da polemiche e interpretazioni faziose benché Quasimodo fosse di sinistra e avrebbe potuto allinearsi alle riserve manifestate da Vittorini, Alicata e Moravia. Intanto Quasimodo parlò del Gattopardo nel ’65, quando le polemiche più accese sul romanzo si erano andate stemperando ed era ormai chiaro che Tomasi di Lampedusa non avrebbe rappresentato una meteora presto dimenticata della narrativa contemporanea nelle antologie e nelle storie letterarie.
Quasimodo, ch’io sappia, non conobbe mai Tomasi di Lampedusa. Avrebbe potuto incontrarlo al convegno di San Pellegrino Terme quando il principe accompagnò il cugino Lucio Piccolo. Ma allora Tomasi era un perfetto sconosciuto all’ambiente letterario perché non aveva pubblicato nulla. In ogni caso Quasimodo, che pure figurava nel comitato d’onore del convegno, non andò a San Pellegrino. Più tardi conobbe personalmente Lucio Piccolo, ma fra i due poeti non nacque un’amicizia o un reciproco interesse letterario come invece era avvenuto anni prima per l’autore dei Canti barocchi con Montale. Nel ’58, quando Feltrinelli pubblicò Il Gattopardo, Quasimodo ottenne il premio “Viareggio” per la sua nuova raccolta di poesie La terra impareggiabile. Nel ’59, quando il romanzo di Lampedusa vinse a sorpresa il premio “Strega”, Quasimodo ebbe il Nobel, anche questo un po’ a sorpresa, che scatenò nel nostro Paese tante polemiche ingiuste come le aveva scatenate, abbiano visto, per diversi motivi il Gattopardo.
Quasimodo scrisse il commento al Gattopardo per la sua rubrica Colloqui, asterischi o brevi articoli apparsi sul periodico “Il Tempo” tra il ’64 e il ‘68, rispondendo alle domande rivoltegli dai lettori. Questi “colloqui”, alcuni significativi per la poetica quasimodiana ma anche per capire meglio la posizione contingente e generale del poeta sulla cultura, il costume e la società italiana, e non solo italiana, sono rimasti confinati per decenni solo nelle pagine del “Tempo” e avrebbero fatto la fine della cera persa, per usare un’espressione cara a Bufalino, cioè sarebbero stati di ardua consultazione o peggio ancora irreperibili. Per fortuna a questa lacuna si è posto rimedio raccogliendo i “colloqui” in volume. Il libro, a cura di Carlangelo Mauro e introduzione di Giuseppe Rando, pubblicato nel 2012 ha riportato alla luce fra i tanti disparati commenti quasimodiani pure il testo sul Gattopardo.
Quasimodo apprezza il romanzo di Lampedusa, lo reputa un’opera romantica, ma non inattuale come la definiva Vittorini, un’opera quindi contemporanea, anche se la vicenda è ottocentesca, lontana nel tempo e piace al lettore perché descrive un mondo aristocratico antiquato, ormai sulla soglia della sua scomparsa, visto con l’animo di chi ha vissuto all’interno di questo mondo. Un mondo siciliano che si fa metafora della più generale condizione di una classe sociale decadente e decaduta a metà del ventesimo secolo. Se il giudizio di Quasimodo va rapportato a una delle cinque esemplari interpretazioni della critica prima sinteticamente esposte, ci sembra che si avvicini di più alla posizione di Pampaloni, che parla di contemporaneità del romanzo senza lasciarsi condizionare da interferenze etiche e ideologiche. Quasimodo conclude il suo intervento profetizzando un felice e lungo successo al Gattopardo, e questo va sicuramente a suo merito se si pensa oggi, con maggiore chiarezza e serenità di valutazione, alle incomprensioni di altri accreditati letterati italiani che hanno sottovalutato, frainteso o non colto il vero valore del romanzo lampedusiano
Appendice
Si riproduce qui di seguito la lettera del lettore e la risposta di Quasimodo, già ripubblicate in S. Quasimodo, Colloqui, “Tempo” 1964-1968, a cura di M. Carlangelo, Nola, L’Arca e l’Arco edizioni, 2012, pp. 236-237:
P.R., di Roma scrive: “A nome mio e di alcuni amici di un Circolo di lettura, chiedo il suo parere per sapere quale posto occupa nel campo letterario il famoso romanzo Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, che la maggioranza della critica ha giudicato il più bel romanzo degli ultimi trent’anni. Anche noi siamo dello stesso parere specie se lo confrontiamo con i romanzi di Moravia, Pasolini ed altri. Nel Gattopardo infatti l’autore sa descrivere e superare le quattro o cinque scabrose situazioni erotiche con eleganza e umorismo, mentre un Moravia le avrebbe accentuate in pagine e pagine…”.
Quasimodo: “Non si può dare qui una risposta di pura estetica; cerchiamo di trovare le ragioni della fortuna del Gattopardo. Anche la critica ha tentato di chiarire la propria meraviglia di fronte al successo di un’opera che non presenta nessuna della caratteristiche dominanti nella letteratura contemporanea. Il Gattopardo, svolgendo un’idea non astratta della bellezza, appare come un libro scritto per il piacere di creare e di inventare. La vicenda è romantica; ma pur appartenendo a un tempo passato essa non è al di fuori del nostro tempo. Il favore dei lettori più che quello della critica per il libro di Tomasi di Lampedusa è provocato infatti dalla concretezza del racconto immerso in una zona di lontananza. Quel sapore di assenza è, infondo, l’attributo qualificativo di molti scritti del romanticismo e della loro gloria. La narrativa dello scrittore siciliano si avvicina al concetto linguistico e poetico del Leopardi: ciò che dà sensazioni vaghe, di distanza, di infinito è più lirico di ciò che è rude e determinato. I riferimenti negativi del lettore romano alla letteratura del dopoguerra e a tante sue esperienze sono ancora da giudicare in senso assoluto. Il lettore è stato di cartelloni squallidi che vogliono presentare acuminate storielle sotto il profilo dell’arte. In esse la fantasia non giunge a dare sollievo alla mente depressa dalle cronache simili ai fatti della nostra vita. In parte l’uomo del popolo riconosce più volentieri se stesso nella figura del crociato che nel cosmonauta vincitore degli spazi, è più felice di credersi il moschettiere di Luigi XIII che non il milite del Vietnam, il calzolaio della corte di Artù più che un operaio specializzato degli alti forni. Il sogno della favola, ciò di una realtà irreale, non c’è più nella narrativa e così l’istinto della metamorfosi e dei travestimenti che trascinava l’uomo nelle brigate dei carnevali di un tempo. Tomasi di Lampedusa si è ricordato di questa esigenza fantastica e ci ha dato una storia che conserva tutte le prospettive del fantasma a rovescio dell’invenzione, pur concedendo importanza al rigore e alle emozioni contemporanee. Le “scabrose situazioni erotiche” che vibrano nei periodi di Pasolini e di Moravia non appartengono certo al genere del “realismo” di Boccaccio. I dissertivement non partecipano alla nostra tradizione letteraria. Così erano gli aneddoti delle alcove della Pompadour e dei baldacchini napoleonici; anche allora c’erano i codici rosa dei visionari erotici. Per fortuna il tempo è una ghigliottina severa di tutte le teste galleggianti. Tomasi di Lampedusa ha già salito molti gradini nella fama delle compagnie letterarie che passeranno alla storia.”
L'autore
- Sergio Palumbo, giornalista e documentarista messinese, come autore e critico letterario è presente con proprie opere nelle più autorevoli biblioteche e università del mondo. Nel suo archivio custodisce un epistolario con alcuni dei maggiori intellettuali italiani contemporanei. Ha organizzato mostre documentarie e bibliografiche, ha curato cataloghi, antologie e carteggi fra cui Eugenio Montale, Lettere a Pugliatti. Montale e la critica nel carteggio con Salvatore Pugliatti e tre lettere di Elio Vittorini (1986). Ha realizzato programmi radiofonici per la Rai. Suoi documentari televisivi sono stati trasmessi da Raitre. È autore della più completa bibliografia critica dell’opera poetica di Lucio Piccolo nell’integrale ristampa per le edizioni Scheiwiller (2001). Tra i suoi saggi in volume: Una polemica fra Vann’Antò e Pasolini (1988), L’altra faccia dell’isola. Incontri con Leonardo Sciascia (1996); Montale e la Sicilia, alla scoperta di nuovi talenti (1998); L’impetuosa giovinezza di antiborghesi senza rimedio. Fascismo e afascismo nella stampa messinese degli anni Trenta (1999); I Piccolo di Calanovella (2001), Strategie e schermaglie sul quasimodismo nel carteggio con Glauco Natoli (2003); La quarta dimensione di Beniamino Joppolo (2010). Nel 2015 è apparso il suo primo libro di narrativa, Tre sogni, tre racconti per le edizioni “Le farfalle”. Nel 2016, sempre per “Le farfalle”, ha pubblicato il volume D’Arrigo, Guttuso e i miti dello Stretto e nel 2017 ancora un saggio, Colapesce e altre leggende normanne di Sicilia, per lo stesso editore. È l’ideatore e il curatore del Museo virtuale Orion sui miti dello Stretto di Messina per conto della Regione Siciliana. Per informazioni più dettagliate si rimanda al sito www.sergiopalumbo.com
Ultimi articoli
- Interventi19 Febbraio 2020“Il Gattopardo” visto da Salvatore Quasimodo