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Gli ingredienti del giallo bibliofilico

Partendo dal romanzo Il violino di Mussolini (2019) di Mario Baudino, mi propongo di passare brevemente in rassegna quelli che a mio avviso sono gli ingredienti basilari del giallo bibliofilico. Baudino è uno scrittore, saggista, e giornalista (a lui si deve la rubrica Cartesio de “La Stampa”), che aveva già pubblicato ne Lo sguardo della farfalla (2016) le prime avventure del Pio Convento, ovvero un gruppo di bibliofili agguerriti, attorno al Capo, in una libreria antiquaria nelle colline piemontesi. Con Il violino di Mussolini propone una nuova avventura del Pio Convento, nella quale si ritrovano tutti i tic, le manie, i riti, le ostentazioni e i gusti bibliofilici, i libri rari, ma anche i delitti. Di tutto ciò Baudino si era già occupato nel gustoso saggio Ne uccide più la penna (2011), dove ripercorreva le vicende di crimini, legati a librai e a detective.

Ma proviamo una – pur sommaria – periodizzazione.

 

Marlowe innanzitutto. Tutti ricordiamo un film mitico: Il grande sonno di Howard Hawks, del 1946, con Humphrey Bogart e Lauren Bacall, tratto, come si sa, dall’omonimo romanzo di Chandler (a sua volta, del 1939). Nel libro, come nel film, Philip Marlowe, investigatore privato, deve indagare su un traffico di foto pornografiche in cui era stata invischiata la figlia del generale Sternwood. La storia è notissima. Ma forse non tutti rammentano che tale losco traffico si svolge in una libreria antiquaria: il che rende sospetta, di per sé, quell’attività. Ma vi è di più. Per capire come sono cambiati i tempi rispetto alla moda letteraria di cui ho parlato in apertura, giova annotare il modo con cui il detective Humphrey Bogart entra nella libreria, che certo mai avrebbe visitato, se non per via dell’inchiesta in corso: difatti, per scoprire il traffico di foto pornografiche, Bogart entra nella libreria antiquaria camuffandosi. Prima di tutto, egli inforca occhiali fasulli (un lettore non può che essere miope!), poi si cala il cappello sulla testa, di modo tale da assumere un’aria vagamente stupida. Infine, entra e naturalmente smaschera il traffico pornografico, nascosto dentro i volumi, ma la percezione che viene trasmessa al lettore-spettatore è che chi frequenta una libreria antiquaria debba essere un soggetto, non saprei come dire, un po’ bizzarro, tutt’altro che aitante, perfino poco virile.

L’antiquariato librario come fenomeno di moda, dunque, è ancora molto lontano nel tempo.

Ma procediamo con ordine. Quanti sono e come funzionano i romanzi che trattano di libri antichi, rari, collezionismo e crimini? Io ne ho contati almeno 480, che distinguerei in due filoni diversi:

1) Investigatori vari, di professione, detective, che aprono librerie antiquarie e continuano, però, a svolgere le investigazioni. Ecco alcuni esempi: Cliff Janeway, Cotton Malone, Van Veeteren e Mario Conde. Sono tutti e quattro librai antiquari. Tutti e quattro ex poliziotti, ancorché di diverso tipo. Janeway, il capostipite, è un ex ispettore della polizia di Denver: lasciata l’uniforme, ha aperto una libreria specializzata in prime edizioni della letteratura americana. È frutto della fantasia di John Dunning, il migliore (a mio modo di vedere) tra gli autori citati. Malone, invece, – pensate un po’ – è addirittura un ex agente della CIA. Ritiratosi dal mestiere, ha aperto una libreria antiquaria a Copenaghen: lo ha creato quel piccolo genio della letteratura di massa che risponde al nome di Steve Berry, milioni di copie vendute nel mondo. Van Veeteren, invece, è un ex commissario di un paese dell’Europa del Nord, mai nominato, ma facilmente riconoscibile nella Svezia del suo autore, Hakan Nesser, che – dopo aver fatto ritirare il suo personaggio dall’attività investigativa – gli ha anche fatto rilevare una libreria antiquaria in un ignoto paese perennemente innevato. Mario Conde, infine, spostandoci di emisfero, è un ex poliziotto cubano: anche lui, lasciata l’uniforme, si è dedicato all’antiquariato librario. Lo ha creato un grande scrittore di quell’Isola caraibica, Leonardo Padura Fuentes, che racconta con gusto ciò che effettivamente esiste nella realtà odierna di Cuba, un fiorente e ricchissimo commercio di libri antichi e rari. In Italia, poi, è Hans Tuzzi (pseudonimo di un grande bibliografo, autore di alcune tra le più importanti guide all’antiquariato librario) ad aver creato il commissario Melis, protagonista di storie poliziesche sempre costruite attorno al mondo della bibliofilia, nonché bibliofilo-poliziotto egli stesso. Da ultimo, proprio in questi giorni, è uscito, di Dario Crapanzano, Il furto della Divina Commedia (Mondadori), in cui si narra del furto, appunto, della mitica edizione dantesca fiorentina del 1481 (quella commissionata dai Medici, curata da Cristoforo Landino con le illustrazioni ispirate al Botticelli): furto con omicidio, ovviamente!

2) Librai antiquari di professione che indagano su delitti per proprio gusto (e sono, ovviamente, bravissimi). Victor Legris – frutto della penna di due bouquinistes parigine, Liliane Korb e Laurence Lefèvre, rispettivamente rive droit e rive gauche della Senna, che firmano insieme con lo pseudonimo di Claude Izner – il quale, pur esercitando il nobile mestiere di libraio antiquario, diventa nella finzione narrativa acuto investigatore dilettante di tanti efferati delitti perpetrati nella capitale francese. Esmahan Aykol, autrice turca, pubblicata in Italia da Sellerio, immagina invece una protagonista, Kati Hirschel, donna di origini tedesche, proprietaria dell’unica libreria specializzata in romanzi polizieschi esistente a Istanbul. Ovviamente, oltre a vendere libri polizieschi, risolve anche delitti complicatissimi…

Se vogliamo, il contrario accade con Pepe Carvalho, investigatore privato di Barcellona – creatura, come ben noto, di Vázquez Montalbán – che brucia i suoi libri nel camino: ma lo fa per eccesso di amore e – particolare tutt’altro che trascurabile – perché ne ha accumulato un’infinità. Ancora una volta, un investigatore privato amante dei libri. In verità, in questo caso, amore-odio, si direbbe. Il contrario accade anche nei romanzi di Lawrence Block, nei quali Bernie Rhodenbarr, ladro d’appartamenti abilissimo, ma bibliofilo appassionato, si trasforma in libraio…

Ma a quando risale il successo del fenomeno del giallo bibliofilico, da cui poi si dipana e si allarga a dismisura il fenomeno? Sembrerebbe piuttosto recente. Apparentemente, infatti, tutto inizia nel 1980, quando esce cioè Il nome della Rosa. Questo straordinario romanzo è il capostipite di tutto il genere. Basta ricordare che l’ambientazione è in una biblioteca, il movente è la caccia al secondo libro della Poetica di Aristotele, l’assassino è il bibliotecario cieco, il venerabile Jorge, e lo strumento stesso del delitto è il libro cosparso di veleno. In realtà bisogna fare un (risoluto) passo indietro… Siamo nel 1841: viene pubblicato quello che, con buona approssimazione, può essere definito il primo libro poliziesco in assoluto, il capostipite, fondatore di un genere fortunatissimo. Si tratta de I delitti della Rue Morgue, del grandissimo Edgar Allan Poe. Protagonista della storia, è appena il caso di rammentarlo, è Auguste Dupin, primo investigatore della letteratura poliziesca e prototipo di mille altri eroi successivi. Ma quanti ricordano – tra i pur numerosi appassionati di Poe – il modo in cui Dupin viene presentato ai lettori, proprio in apertura del romanzo? “L’unica sua debolezza erano i libri”. Investigatore e bibliofilo, dunque. Non a caso, Dupin e l’io narrante della storia si conoscono in una libreria antiquaria di Rue Montmartre a Parigi. La letteratura poliziesca, insomma, nasce in mezzo ai libri antichi. Poe, d’altro canto, è una costante nella letteratura poliziesca e libresca. Ed è lo stesso Poe che ritroviamo sia ne Lo sguardo della farfalla di Baudino come spunto per risolvere il mistero, sia nel Violino di Mussolini dove viene detto, non casualmente: “Sempre tra i piedi il vecchio Edgar Allan”. Ma Baudino non è certo il primo ad alludere allo scrittore americano: già Dunning ne Le ceneri del corvo aveva immaginato una spettacolare edizione del Corvo (appunto) di Poe. Ma anche il meraviglioso Connelly ne Il poeta e Il ritorno del poeta concepisce un omicida seriale che lascia sui cadaveri versi proprio di Poe.

Poe morirà nel 1849, a soli quarant’anni, attanagliato dal delirium tremens. Perfino la tomba è controversa. Giuseppe Marcenaro – in un libro la cui straordinarietà di scrittura suscita in me affettuosa invidia (Cimiteri, pubblicato da Bruno Mondadori nel 2009) – ne ha descritto le sorti. Mentre l’americano Matthew Pearl (L’ombra di Edgar, edito da Rizzoli nel 2006), ha inventato l’investigatore Augusto Duponte, il cui nome non può trarre in inganno, chiamato ad indagare proprio sulla morte prematura e molto discussa di Poe: come sempre accade, i personaggi letterari sopravvivono assai più a lungo dei loro autori.

Jorge Luis Borges, poi, dal canto suo, letterato squisito e inarrivabile, era anche – è cosa notissima –, raffinato bibliofilo. Non è dunque certo un caso, che proprio Borges s’inventi un personaggio, l’investigatore Lönnrot, che credeva di essere “un puro ragionatore, un Auguste Dupin” (ecco che ritorna Poe), poliziotto, certo, ma anche – uso ancora le parole di Borges – “bruscamente bibliofilo”: è il protagonista dello splendido racconto La morte e la bussola, contenuto nell’altrettanto superba raccolta del 1944 intitolata Finzioni, nella quale leggiamo anche La Biblioteca di Babele, metafora libresca del mondo.

Ma il medesimo Auguste Dupin è protagonista anche del romanzo del grande Georges Perec La disparition (1969, riproposto in Italia da Guida nel 2007). L’ispettore è chiamato a cercare di risolvere l’enigma – tutto letterario – della “scomparsa” di una lettera dell’alfabeto, la E, nonché di un personaggio dal nome inequivoco, Voyl  (vocale, in francese, come la medesima E). Dupin, questa volta, fallirà. Ma non è certo casuale che venga chiamato proprio lui a dipanare – senza successo – l’enigma, il gioco letterario di Perec, che a sua volta traeva spunto da Queneau (che nel 1948 aveva eliminato tutte le X dal racconto Saint Glinglin): non è un caso, perché proprio E. A. Poe, creatore di Dupin, aveva scritto a suo tempo un racconto, Come icsare un paragrafo (tradotto in Italia niente meno che da Giorgio Manganelli), nel quale un tipografo smarrisce il carattere della lettera O e stampa quindi un giornale sostituendola sempre con la X. E Queneau è citato in abbondanza proprio nel Violino di Mussolini. Poe, dunque, ma anche i giocolieri della parola, Queneau e Perec, infine Manganelli. Il gioco di rimandi tra libri è incominciato. Può continuare all’infinito.

“Quasi tutti gli investigatori (hanno) un hobby: se Cuff economicamente coltiva rose, Nero Wolfe costosissimamente coltiverà orchidee; e se Sherlock Holmes suona il violino, altri avrà passione per la letteratura o le porcellane cinesi, per i libri rari o i pesci tropicali”. Sono le eleganti (poteva essere diversamente?) parole di Leonardo Sciascia nella sua Breve storia del romanzo poliziesco (in Cruciverba, apparso da Einaudi nel 1983 e poi più volte ristampato da Adelphi). Non sappiamo se – parlando dei libri rari – il grande scrittore siciliano intendesse proprio Dupin, ma tendo a crederlo, perché quest’ultimo personaggio ricorre anche in uno dei tanti giochi di specchi creati appunto da Sciascia stesso. “Sviluppai una ipotesi che mi era avvenuto di fare dopo il primo delitto; la sviluppai, voglio dire, come il cavaliere Carlo Augusto Dupin sviluppa le sue nei racconti di Poe. (…) Ma la soluzione del problema (era) netta e quasi ovvia: molto simile a quella della Lettera rubata di Poe”. È il protagonista di Todo modo che si cimenta nel tentativo di scoprire l’autore di alcuni illustri omicidi: come si sa, invano.

Un ultimo esempio. Dupin, ancora. Nel 1975 Mario Brelich, eclettico e strepitoso studioso, tra le altre cose, delle sacre scritture e della tradizione cristiana, dava alle stampe per Adelphi un saggio anche recentemente ripubblicato: L’opera del tradimento. Protagonista del libro è, dunque, ancora una volta, Auguste Dupin che – ormai vecchio e ritiratosi dal lavoro – si dedica all’ultima investigazione, per puro e privato interesse intellettuale. Brelich rammenta bene la passione di Dupin per i libri: “nonostante l’enorme tempo trascorso, l’arredamento dell’antica casa non era cambiato, non si era arricchito nemmeno d’un solo pezzo di mobilio, a parte un nuovo, gigantesco scaffale per i libri, il cui incremento era inarrestabile nella vita del chevalier Dupin”. L’investigazione cui è chiamato questa volta Dupin – evidentemente colossale – concerne il suicidio di Giuda, dopo il tradimento perpetrato nei confronti di Gesù Cristo e i relativi trenta denari. Attraverso questa indagine, Brelich avrà modo di studiare le diverse tradizioni evangeliche della vicenda e ne discetta da par suo. Puro, squisito, vertiginoso godimento intellettuale.

Per tornare a Baudino, individuerei alcune altre caratteristiche del giallo (o noir che dir si voglia) bibliofilico. Intanto, non può mancare il gusto “citazionista”: i personaggi menzionano di continuo altri libri e altri autori, ammiccando al lettore, a seconda delle sue nozioni e capacità, esercitandosi in diversi livelli di scrittura (e conseguente lettura). Questa caratteristica che ho definito (un po’ sommariamente, lo ammetto) “citazionista” raggiunge il loro acme ne Il Nome della Rosa. Partiamo dalla scena iniziale: il cavallo dell’abate è fuggito. Gli indizi per individuarlo sono labilissimi. Ma Guglielmo ne offre (senza averlo mai visto) una perfetta descrizione e ne indovina persino il nome, Brunello, rivelandosi un perfetto seguace del metodo, ovviamente, di Sherlock Holmes: e non a caso si chiama Guglielmo da Baskerville, località che evoca immediatamente, sempre di Conan Doyle, il celebre mastino. Citazioni semplici da scoprire.

Ma anche Jorge Luis Borges, che nella sua esistenza reale era stato un bibliotecario  cieco, diventa il venerabile Jorge, l’assassino, a sua volta esattamente bibliotecario cieco. Questo ci porta al rapporto che si instaura tra autore e pubblico. Come ha scritto un acuto studioso della letteratura popolare e di massa, Stefano Bartezzaghi, «per giocare con le parole queste devono essere conosciute da tutti gli interlocutori: una battuta di spirito, un’allusione arguta, una deformazione satirica» saranno efficaci solo se comprese «da un numero di persone infinitamente maggiore di quello degli specialisti» (si veda il recente S. Bartezzaghi, Scrittori giocatori, Torino 2010, p. 13). In fin dei conti, «ogni atto di lettura è una […] transazione tra la competenza del lettore […] e il tipo di competenza che un dato testo postula per essere letto» (U. Eco, Interpretazione e sovrainterpretazione [Cambridge 19921],  Milano 1995, p. 82).

Quanto è comprensibile, dunque, in questa chiave di lettura, Il nome della rosa? Un lettore semplice può agevolmente afferrare i riferimenti a Conan Doyle. Un lettore di discreta cultura può cogliere il debito verso Borges. Un lettore ancora più attento saprà apprezzare il topos del manoscritto ritrovato, riconnettendolo a Manzoni e, ancora, a Borges. Un lettore con competenze storiche e filosofiche medioevali vi ritroverà invece la teologia, le eresie, i trattati di farmacologia medioevale, e così via. Infine, i pochissimi lettori esperti di Apocalisse sapranno individuare cose note al solo Eco, che su quell’argomento aveva redatto la tesi di laurea e indagato a più riprese nei decenni successivi. Insomma, si scrive anche per il gusto di immaginare chi comprenderà – e in che misura – le allusioni, le citazioni nascoste, i riferimenti.

In Baudino, peraltro, si rinvengono anche citazioni di altri polizieschi bibliofilici: in particolare Delitto di stampa di Fletscher, che viene esplicitato, ma io ci ho ritrovato anche echi del Club Dumas di Arturo Perez Reverte, e anche di un vecchio Giallo Mondadori, Un autentico falso (1979) di William Hallahan. Come in tanti gialli bibliofilici, il libro di Baudino si può, dunque, impiegare come una sorta di gioco del domino. Ogni pagina ne evoca altre, altri libri, altri rimandi, altri autori e personaggi, altri giochi, altre avventure.

Termino con un’ultima suggestione. Il libro, a mio avviso, è allo stesso tempo formidabile strumento di seduzione, ma anche causa scatenante di efferati delitti. In fondo, una delle più struggenti pagine d’amore della letteratura di ogni tempo nasce proprio dalla lettura di un libro. Seduzione reciproca. Attrazione perenne, che vince anche la morte. I due amanti avvinghiati nell’aldilà, travolti per sempre da vento e passione. Paolo e Francesca. Ma questo stupefacente episodio dantesco costituisce anche – diremmo oggi – il primo “femminicidio” (e non solo) della storia della letteratura italiana. Ma tutto – seduzione e delitto – nasce dalla lettura. È il caso di ricordarlo? “Galeotto fu (poteva essere diversamente?) il libro e chi lo scrisse”.

 

 

 

L'autore

Oliviero Diliberto
Oliviero Diliberto
Oliviero Diliberto è un politico, giurista e docente di Diritto romano. E' stato ministro di Grazia e Giustizia dal 1998 al 2000 e segretario del Partito dei Comunisti italiani dal 2000 al 2013.

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