Arsâ vorrieivo un monumento in rimma
a-o primmo Eröe che meitasse in tæra
de filantropo sommo o vanto e a stimma
fra quanti son famosi in paxe e in guæra
mostrando un mondo no scoverto primma
che paixi innumerabili o rinsæra,
che i europei tanto inricchiva pöi
de fræ, d’idee, d’industrie e de tesöi.
[Vorrei innalzare un monumento in rima al primo eroe che meritò sulla terra il vanto e la stima di sommo filantropo tra quanti furono famosi in pace e in guerra, avendo mostrato un mondo mai scoperto prima, che innumerevoli paesi contiene, e che avrebbe tanto arricchito gli europei di fratelli, di idee, di industrie e di tesori]
Tra i diversi anniversari e ricorrenze che anche in ambito letterario riguarderanno il 2020, dubito fortemente che qualcuno si ricorderà del 150° della pubblicazione dell’opera maggiore di Luigi Michele (Michê) Pedevilla (1815-1877), A Colombiade, apparsa appunto nel 1870; e sono anche pronto ad ammettere serenamente che questo poema di 2.570 ottave in 20.560 endecasillabi raggruppati in 20 canti non meriti di essere riportato agli onori del mondo per le sue intrinseche qualità estetiche e letterarie, che pure qua e là, nell’innegabile modestia del testo nel suo complesso, emergono in qualche sprazzo di vera poesia.
Penso invece che l’anniversario meriti di essere evocato (e il poema, almeno in ambito specialistico, riesumato) per l’originalità nel contesto regionale e nazionale dell’impresa alla quale il religioso genovese (insolita figura di parroco di quartiere liberale, in perenne lotta con le gerarchie ecclesiastiche) si era accinto fin dagli anni Quaranta del secolo.
A Colombiade è infatti l’unico esempio a me noto di epica ottocentesca in una delle lingue d’Italia (se si esclude ovviamente l’italiano comune), e l’unica che si inserisca coerentemente nel contesto rinascenziale delle letterature regionali europee: contemporaneo per gestazione alla Mirèio provenzale di Frédéric Mistral (1859) e anticipatore dell’Atlàntida catalana di Jacint Verdaguer (1877), di cui condivide tra l’altro, e forse non casualmente, il tema colombiano, il poema in genovese rappresenta il tentativo di ridare lustro a un’espressione letteraria che nella percezione locale non era tradizionalmente associata a una concezione di scrittura “dialettale”, rivendicando anzi una propria continuità e autonomia a partire dalle origini duecentesche (l’opera dell’Anonimo Genovese era stata da poco “riscoperta” ed era oggetto in quegli anni di un rinnovato interesse) e lungo l’asse del classicismo impostato nel sec. XVI da Paolo Foglietta e Barnaba Cigala, continuato nel Siglo de Oro secentesco da Gian Giacomo Cavalli e Giuliano Rossi e poi nel Settecento di Stefano de Franchi e dell’epica patriottica legata alla guerra contro gli austro-piemontesi del 1746-47.
Proprio in continuità col robusto filone di poesia civile che attraversa nei secoli l’espressione genovese, præ Pedevilla si era già fatto interprete, in polemica con l’insorgente gusto “dialettale” successivo all’annessione della Repubblica al Regno di Sardegna (1815) di un patriottismo regionale che per paradosso solo apparente, come vedremo, andava a confluire nelle istanze risorgimentali e unitarie di matrice repubblicana che avevano in Genova, con l’apostolato di Mazzini, il loro centro principale. La sua Elegia del 1849 per la feroce repressione sabauda dei moti repubblicani e secessionisti di quell’anno è certamente tra le pagine più ispirate del romanticismo genovese, suggello al rimpianto per la cessata indipendenza ed evocazione di un futuro di integrazione in un orizzonte più ampio.
D’altronde, il contesto politico-culturale in cui si muove præ Pedevilla è proprio quello del disegno ideologico di una “Nazione dei Liguri” (secondo l’espressione di Giovambattista Spotorno) che ambisce a inserirsi nel progetto unitario con un ruolo-guida, dettato non solo dalle tradizioni storico-politiche dell’antica Repubblica e dal primato mercantile, ma anche dalla specificità linguistica e culturale, per la quale intellettuali ed eruditi locali andavano evocando, anche in reazione ai miti “celtici” di altri contesti europei, un’origine remota nelle vicende delle popolazioni liguri preromane.
L’impronta regionalista che permea gran parte della cultura genovese del periodo, sia di area conservatrice che liberale, prima e dopo la fondazione nel 1858 della Società Ligure di Storia Patria, non predica tanto, quindi, improbabili restaurazioni, quanto una sorta di “primato” che, in continuità con la retorica repubblicana dei secoli precedenti, attinge volentieri a un catalogo di immagini e di figure retoriche destinate in parte (come quella, non priva di aspetti mistificatori, del Balilla) a entrare a far parte dell’armamentario ideologico del “Genio italico”: tra queste vi è l’icona di Colombo, scelto non a caso da Pedevilla al seguito, ancora una volta, di una tradizione locale veicolata, oltre che dalle arti figurative, dal gusto letterario, per il quale Gabriello Chiabrera tra l’altro paragonava alle scoperte del navigatore, in quanto “trovatore di cose non imaginate e à pena credute” le strabilianti altezze poetiche raggiunte in genovese dal suo amico Cavalli, poeta nazionale e modello di tutta l’espressione genovese ancora in pieno Ottocento.
Attraverso la figura di Colombo, eroe del progresso e della fede, il sacerdote intendeva così erigere un monumento al “genio” ligure per illustrare la storia passata e presente fino alla deprecata annessione al Regno di Sardegna e alle vicende del Risorgimento “tradito”, visto in continuità con la storia repubblicana di Genova. In tal modo, anche dove l’attualità politica è meno incombente, come nelle grandiose e suggestive visioni del vergine suolo americano, patria di popoli liberi e selvaggi,
…e o paise di araucani, rassa antiga
de pòpoli agguerrii, e impetosi e ardenti
comme i vinti vorchen che gh’an in riga,
e comme i terramòtti là frequenti;
tremendi in faccia de l’armâ nemiga,
fei, indòmiti infin e independenti
comme l’é o còndor che là o s’erze e o spande
e ae larghe e robuste sorve e Ande
[…e il paese degli araucani, razza antica di popoli agguerriti, impetuosi e ardenti come i venti vulcani allineati e come i terremoti là frequenti; tremendi di fronte all’esercito nemico, fieri, indomiti infine, e indipendenti come il condor che là si alza e allarga le robuste ali sulle Ande],
o nella durissima e per l’epoca clamorosa condanna del colonialismo,
L’Éuròpa in questa tæra a peu trasmette
fòrse quante lê stessa a no possede?
A peu queste tribù, sémpliçe e sccette
unî tutte d’amô inta stessa fede
mentre de tante discordanti sette
religiose lê mæxima a l’é a sede?
…
Fòrse à questa naçion sarvæga e fea
a çiviltæ l’Éuröpa a peu portâ?
Ma cöse l’é ätro a çiviltæ éuropea
che unna barbarie in maschera ò vellâ?
[l’Europa può trasmettere in questa terra ciò che essa stessa non possiede? Può unire d’amore nella stessa fede queste tribù semplici e schiette, quando essa stessa è sede di tante discordanti sette? … Forse l’Europa può portare la civiltà a questa nazione selvaggia e fiera? Ma che cos’è la civiltà europea, se non una barbarie in maschera?],
la passione ideologica appesantisce non poco il poema, che pure ha spunti descrittivi talvolta felici nella ricerca di effetti “sublimi”:
O pù ne-o vedde ne-e regioin boreali
l’eterna, immensa, orribile giassea,
dove ve fan stordî ne-o contemplâli
i giassi enòrmi, ò sollevæ in manea
de muaggioin ò pilastri colossali,
ò ascciannæ inveçe basci in sce l’idea
d’un vasto campo, ò liscio comme un spegio
ò sgrezzo comme un astrego zà vegio;
ò ve pan scheuggi, e ligge, ò bricchi, ò monti
ò gròtte piñe de candiöti belli
comme cristalli, ò vòtti, ò archiöti, ò ponti,
ò ròcche, ò töri, ò fòrti, che i castelli
di marcheixi, di prinçipi e di conti
son öxellee à paragon de quelli,
ò de montagne mòbili, ò de banchi
dove van comme in barca i orsci gianchi.
[Oppure al vedere, nelle regioni boreali, l’eterno, immenso, orribile ghiacciaio, dove vi stordite a contemplare i ghiacci enormi, sollevati a guisa di muraglie o pilastri colossali, o spianati invece, e bassi come un vasto campo, liscio come uno specchio o ruvido come un vecchio pavimento. o vi appaiono scogli, rupi, balze, monti o grotte piene di belle stalattiti come cristalli, archi, archivolti, ponti, rocche, torri, fortezze, al cui confronto i castelli di principi, conti e marchesi sembrano voliere, o iceberg e banchi sui quali fluttuano gli orsi bianchi.]
Del resto, che A Colombiade non sia un capolavoro è una realtà difficilmente contestabile, e i limiti del poema si possono facilmente elencare, dall’incuria linguistica alla prolissità, dall’invadenza dei riferimenti all’attualità fino all’evidente dipendenza da Virgilio e Dante, da Tasso e dai Lusiadi di Camoẽs. Anche gli artifici retorici utilizzati da Pedevilla sono del tutto convenzionali: in un poema che ha come sfondo le vicende del primo viaggio di Colombo verso il nuovo continente si intersecano episodi della vita del navigatore narrati da lui stesso ai compagni, e in una lunga visione l’arcangelo Gabriele lo informa sulle ingiustizie che lo attenderanno al ritorno dal viaggio.
In ogni caso la figura di Colombo, esaltato come campione della stirpe ligure, ma anche del libero pensiero, appare troppo distaccata, incapace di suscitare sentimenti di simpatia e identificazione:
In mezo a un mâ vastiscimo e temmuo
Lê o s’avanzava coraggiosamente,
De trovâ ne-i sò carcoli seguo
I confin dell’Oçeano à l’oçidente,
E un paise poco o ninte conosciuo,
E poi tornâ da-a parte dell’Oriente,
Con fâ pe-o primmo e di mainæ o ciù ardio
E fortunou do Glöbo tutto o gio.
[In mezzo a un mare vastissimo e temuto egli avanzava coraggiosamente, certo di trovare nei suoi calcoli i confini occidentali dell’Oceano e un paese poco o affatto conosciuto per poi fare ritorno da Oriente, facendo, primo e più ardito e fortunato tra i marinai, il giro completo di tutto il globo]
Così, le figure più riuscite del poema sono i personaggi minori dei quali il poeta si serve per condannare o lodare diversi aspetti della natura umana: il religioso sincero e fervente rappresentato dal padre Marcena o il bigotto ipocrita e untuoso adombrato in fra’ Boile.
L’attualità politica ottocentesca è poi presente in maniera esplicita in tutto il poema, e l’opera è fitta di richiami agli avvenimenti storici e politici della Liguria e dell’Italia risorgimentale, introdotti con vari espedienti nella narrazione delle vicende dell’eroe. Significativo in tal senso è il canto VII, in cui l’ombra di Pagano Doria, ammiraglio duecentesco vittorioso sui veneziani, descrive a Colombo gli avvenimenti futuri della Liguria fino all’Ottocento: l’annessione al Regno di Sardegna viene qui deprecata senza mezzi termini, e Pedevilla individua lucidamente, tra le cause della fioritura del movimento liberale in Liguria, la reazione all’annessione stessa: dopo aver condannato i sovrani sabaudi e i loro ministri corrotti e interessati (primo fra tutti Cavour) passa infatti a esaltare in Mazzini e Garibaldi i continuatori di mai sopiti sentimenti repubblicani:
…e pòi questa çittæ potente e brava,
questa regiña do Mediterranio,
scì, questa â veddo finarmente scciava
co-o tìtolo de sòçia à un regno estranio!
…
Sostituî veddo in Zena finarmente
l’arma de croxe gianca in campo rosso
(arma soggetta à unn’atra ciù potente,
ben che a regia coroña a pòrte adòsso)
a-a croxe rossa, insegna independente
d’un stato inlustre, ben che meno gròsso;
e cangiâse ne-i regi ingordi lioin
i generoxi e lìberi grifoin.
Ma intanto i franchi e sccetti liberali
che a Liguria aggregâ à unna monarchìa
tegnua d’euggio da-e aquile imperiali
no veuan, ni scciava da diplomaçia,
ma unia à l’italia ne-i sò naturali
confin tutta in un stato solo unia,
stato, se no republica, potente
comme i primmi d’Éuröpa, e independente;
e quelli liberali franchi e sccetti
che an cheu, animo e brasso intento e fisso
à unna vea libertæ sensa i difetti
d’unna costituçion fæta à postisso,
son odiæ, son scöxii, son maledetti,
stimmæ degni da forca e de l’abisso
comme autoî d’un remescio ch’o despiaxe
à chi tòllera o zovo in santa paxe.
[…e poi questa città potente e valorosa, questa regina del mediterraneo, sì, lei, la vedo infine diventare schiava col titolo di associata a un regno straniero! Sostituire io vedo a Genova, alla fine, l’insegna con la croce bianca in campo rosso – insegna soggetta a un’altra più potente, per quanto rechi la regia corona – alla croce rossa, insegna indipendente di uno stato illustre, ancorché meno e steso; e trasformarsi in regi ingordi leoni i generosi e liberi grifoni. Intanto, i franchi e schietti liberali che non vorrebbero la Liguria aggregata a una monarchia ostaggio delle aquile imperiali, né schiava della diplomazia, ma unita all’Italia nei suoi naturali confini e unita in un unico stato (stato, se non repubblica, potente quanto i primi d’Europa, e indipendente), quei liberali franchi e schietti che hanno cuore, animo e braccio votati a una vera libertà senza i difetti di una costituzione posticcia, sono odiati, derisi, maledetti, stimati degni della forca e dell’inferno perché autori di un disordine che rincresce a chi tollera il giogo in santa pace.]
Non vi è insomma nel pensiero di præ Luigi Michê, come si anticipava, una cesura tra la storia della Repubblica di Genova e il Risorgimento, e il poeta trova modo di coniugare il suo patriottismo ligure con un non meno sincero patriottismo italiano: ma in questo modo la sua opera si carica di ulteriori spunti polemici legati alla situazione contingente.
In un periodo in cui in genovese si scrive molto, in prosa e in poesia, ai più diversi livelli ed esprimendo le più diverse impostazioni ideologiche, Pedevilla concepisce ambiziosamente il proprio poema, insomma, con l’intento di dotare la “piccola patria” di adeguate credenziali per il suo accesso in quella “grande”, in un rapporto con la cultura nazionale impostato su una dialettica di integrazione ma anche di autonomia, linguistica non meno che politico-economica e culturale in senso lato, non diversamente dagli atteggiamenti che permeano i movimenti linguistico-letterari attivi in altre regioni dell’Europa occidentale nello stesso periodo: né il Felibrismo provenzale né la Renaixença catalana presentano infatti, almeno nelle loro fasi iniziali, una differente impostazione “separatista”, che emergerà semmai in seguito, attraverso processi di elaborazione identitaria tesi a riprodurre in chiave regionale, almeno velleitariamente, un modello vagheggiato di stato-nazione caratterizzato dall’esistenza, tra i suoi attributi, di una lingua codificata nelle sue diverse funzioni.
È vero d’altronde che la polemica con l’uso dell’italiano è implicita, nella misura in cui questa lingua è ancora recepita in fase preunitaria, nel momento in cui Pedevilla elabora il suo poema, come strumento di comunicazione di un potere politico (quello sabaudo-piemontese) ritenuto ostile e “straniero”: e non è un caso in tal senso che nel contesto italiano, fermenti “rinascenziali” relativi alla promozione delle lingue regionali si manifestino in maniera paragonabile a quello ligure e ad episodi consimili presenti in diversi paesi europei, solo in regioni sottoposte a un regime politico che, nel momento in cui fa proprio e veicola l’uso dell’italiano, non è espressione dal territorio, come la Sardegna (ancora una volta in rapporto alla monarchia sabauda) o la Sicilia nel suo orgoglioso particolarismo rispetto alla monarchia napoletana: di tutto ciò si troveranno poi gli echi negli sviluppi successivi del ligurismo linguistico (con Angelico Federico Gazzo soprattutto, traduttore non parodico della Divina Commedia) non meno che nel sicilianismo di Alessio Di Giovanni o nella “questione della lingua” emersa in Sardegna nel corso del Novecento.
Nondimeno, la pubblicazione tardiva della Colombiade, con le molte polemiche che suscitò soprattutto negli ambienti conservatori, reazionari e puristici, non produsse l’instaurarsi di un movimento di rivendicazione linguistica paragonabile a quelli che trovarono nelle opere di Mistral e di Verdaguer la riprova di un’originalità linguistica in grado di sostenere un rilancio letterario in aperta competizione con le lingue nazionali: ciò avvenne da un lato per gli oggettivi limiti artistici del poema di præ Pedevilla, tanto più modesto, dal punto di vista artistico, dei consimili elaborati in provenzale e in catalano, ma anche per le stesse scelte linguistiche dell’autore, fautore di una sorta di volgarismo italianizzante che gli impedì (più in questo poema che in altre opere, del resto) di svolgere un lavoro di elaborazione e fissazione capace di dotare il genovese moderno di un modello letterario percepibile nella sua autonomia; ma soprattutto poi, perché la pubblicazione giunse tardiva, l’anno stesso del compimento dell’unità nazionale con la presa di Roma, che fece definitivamente passare in secondo piano, agli occhi della borghesia genovese, l’esigenza di un autonomismo politico-culturale da fare valere nella dialettica dei suoi rapporti col centro politico del nuovo regno: la classe imprenditoriale e mercantile ligure, all’epoca fra le più dinamiche del neonato stato unitario, stava proprio in quegli anni cementando la propria alleanza con la monarchia sabauda, fautrice di un modello centralista all’interno del quale la promozione delle “identità” linguistiche locali non aveva ragion d’essere.
Del tutto diversa fu invece, in particolare, la ricezione dell’opera di mossen Verdaguer da parte della borghesia barcellonese, all’epoca impegnata nella rivendicazione polemica della specificità catalana rispetto al retroterra castigliano, in una Spagna in cui, per la sua secolare unità, le spinte regionaliste potevano rappresentare, al contrario che in Italia, istanze “nuove” e fattori di dinamismo politico.
Dove il regionalismo linguistico e culturale si scontra insomma con realtà centralistiche stabilizzate, in Francia come in Spagna, i poemi “nazionali” provenzale e catalano, poggiando su un sostrato plausibile di rivendicazione politica, si impongono come momento fondamentale nella storia letteraria di lingue minorizzate; in Liguria invece questa operazione si scontra con una realtà ideologica più fluida, in cui il regionalismo è solo uno degli elementi in gioco nelle vicende politiche locali: la cultura minoritaria non viene qui recepita, così, come fine-strumento della rivendicazione stessa.
Ciò aiuta a capire l’insuccesso dell’operazione “politica” sottesa all’elaborazione della Colombìade, quella di creare il “poema nazionale”, il capolavoro capace di sollevare le sorti di una letteratura in crisi di identità: la mancanza di una necessità realmente avvertita, in quella fase, di disporre di uno strumento di tal genere è la vera discriminante (al di là dei risultati artistici) tra la Colombiade nell’ambito della letteratura in genovese, e l’Atlàntida nel quadro della letteratura catalana.
Il fallimento della Colombiade come esperienza militante e come elemento propulsore di un movimento linguistico-letterario di significativa portata, non ne inficiano comunque il valore storico, nel momento in cui il poema contribuisce a determinare una lettura della storia dell’espressione genovese nei suoi caratteri di continuità e autonomia, e quindi, in senso storico-critico, di antidialettalità: perché se è vero che dopo la pubblicazione di questo poema la storia della letteratura genovese finisce per confluire in buona misura nel panorama della dialettalità italiana (pur con caratteri originali, e con notevoli spinte in senso contrario fino ai giorni nostri), prima di questo estremo tentativo di restaurazione di un canone letterario originale, l’espressione genovese si era sviluppata secondo modalità e forme che costituiscono di questo episodio il presupposto necessario, tanto da far risultare poco utilizzabile nei confronti di quella ligure nel suo insieme la categoria critica di “letteratura dialettale riflessa”.
Ciò che rappresenta quindi un’anomalia nel contesto italiano – il suo carattere di poema epico pienamente leggibile nel panorama rinascenziale europeo – fa del poema di præ Pedevilla un episodio che, a centocinquant’anni di distanza, merita, se non una celebrazione, quanto meno di essere esaminato con speciale attenzione, soprattutto in questo momento di rigurgiti identitari nazionalistici e di atteggiamenti postpuristici che sembrano voler perpetuare miti di monolitismo e racconti a posteriori della storia linguistica italiana inficiati da un’inescusabile tendenza all’omissione del valore fondante del policentrismo e della pluralità idiomatica come elementi propulsivi della cultura italiana.
Nota
La grafia dei brani riportati è stata adeguata allo standard attuale. Sulla Colombiade la letteratura storico-critica è purtroppo esigua e difficilmente reperibile, e poco più ampia quella su Luigi Michele Pedevilla, che pure fu figura centrale della letteratura d’espressione genovese dell’Ottocento. Mi limito qui a segnalare alcuni miei studi e opere antologiche dalle quali si potranno desumere ulteriori approfondimenti: Diversi livelli di plurilinguismo letterario. Lineamenti per un approccio comparativo al tema delle regionalità letterarie europee, in Furio Brugnolo e Vincenzo Orioles (cur.), Eteroglossia e plurilinguismo letterario. Vol. 2, Plurilinguismo e letteratura. Atti del XXVIII Convegno internuniversitario di Bressanone (6-9 luglio 2000), Roma, Il Calamo, 2002, pp. 459-490; La letteratura ligure in genovese e nei dialetti locali. Profilo storico e antologia. Vol. 6, Ottocento, Recco, Le Mani, 2009; A Colombìade e L’Atlàntida: due poemi rinascenziali dell’Ottocento europeo, in «Estudis Romànics», 32 (2010), pp. 267-283.
L'autore
- Fiorenzo Toso (Arenzano, 1962) vive tra la Liguria, dove risiede, e la Sardegna, dove è professore ordinario di Linguistica all’università di Sassari. Dialettologo, è specialista dell’area linguistica ligure, alla quale ha dedicato numerosi studi, con riferimento in particolare al contatto linguistico tra genovese e altri idiomi e alle varietà d’oltremare, alla storia linguistica e letteraria e a vari temi relativi al lessico: tra gli altri Il tabarchino. Strutture, evoluzione storica, aspetti sociolinguistici, Milano, Franco Angeli, 2004; Linguistica di aree laterali ed estreme. Contatto, interferenza, colonie linguistiche e «isole» culturali nel Mediterraneo occidentale, Recco, Le Mani, 2008; La letteratura ligure in genovese e nei dialetti locali. Profilo storico e antologia, Recco, Le Mani, 2009; Piccolo dizionario etimologico ligure, Lavagna, Zona, 2015. Si occupa anche di minoranze linguistiche in Italia e in Europa, con riferimento agli aspetti sociolinguistici e glottopolitici e alle tradizioni letterarie (Lingue d’Europa. La pluralità linguistica dei Paesi europei fra passato e presente, Milano, Baldini Castoldi Dalai Editore, 2006; Le minoranze linguistiche in Italia, Bologna, Il Mulino, 2008), di etimologia italiana (Parole e viaggio. Itinerari nel lessico italiano tra etimologia e storia, Cagliari, CUEC, 2015) e di metalinguaggio della linguistica. Libero docente di Filologia Italiana, collaboratore tra l’altro del Lessico Etimologico Italiano fondato da M. Pfister e dell’Atlante Linguistico del Mediterraneo, di La cultura italiana diretta da L. Cavalli Sforza (2009) e della Enciclopedia dell’italiano diretta da R. Simone (2010), dirige il progetto del Dizionario Etimologico Storico Genovese e Ligure. È anche traduttore dallo spagnolo e dal francese in italiano, dallo spagnolo e dall’italiano in genovese; in quest’ultima lingua è autore del volume di poesia E restan forme (2015).
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