Perché i poeti nel tempo della povertà?
Hölderlin
La lingua italiana: questa conquista della cultura.
La meravigliosa avventura della conquista della lingua, che ha impegnato l’umanità e ha permesso un tracciato neuronale dedicato in ognuno di noi, ci ha coinvolti nella comunione della cognizione-comunicazione, per dissolvere il regno diafano di un mondo altrimenti muto e per consentirci il giudizio sull’esserci nel mondo. La lingua consegna il presente, richiama gli oggetti del passato e proietta nel panorama della prossimità futura, e l’impiego dello strumento linguistico diviene responsabile dell’autonomia conoscitiva, la quale si dispiega dalla dimensione dell’oralità, che è proprio dello statuto di lingua della quotidianità, a lingua del fare scientifico, negli ambiti della tecnica come della letteratura.
Rispetto a questa conquista evolutiva della facoltà di linguaggio dell’umanità, la lingua italiana è una fra le tante acquisizioni culturali avvenute nella storia del “Bel Paese” che è consistita nel divenire del rapporto dialettico fra le fasi di volta in volta proposte di “italiano” e i suoi numerosi “dialetti”.
In questo continuo e costante relazionarsi, lo stadio attuale nel quale stiamo vivendo ci fa assistere a una situazione in cui, dopo aver, nel non lontano passato, voltato le spalle alla civiltà agricolo-pastorale e artigianale per transitare nella produttività industriale, persino la scolarizzazione è infagocitata dal tumulto della tecnologia della comunicazione, per trovarsi a essere vertiginosamente proiettata nella configurazione di un orizzonte virtuale, il cui modello di egemonia reale, sul quale sono in atto procedure, più che altro, inconsapevoli di ristrutturazione, risulta oramai quello imposto dalla globalizzazione.
I circuiti permanenti attraverso il web sostituiscono l’applicazione alla lettura e internet diviene la clavis universalis della enciclopedia alternativa, i contatti costanti attraverso le chat sopravanzano le relazioni dialogiche, la conversazione-visione attraverso il telefonino sostituisce persino il contatto interpersonale fino a favorire la tendenza patologica all’isolamento.
Prima che questa attuale-futura dimensione si realizzasse, la società era ancora dominata dalle istituzioni accademico-scolastiche. In tale ambito, nel superamento di qualsiasi aspetto derivante dall’empirismo esperienziale di cui la dialettalità è parte integrante, la scolarizzazione ha comportato l’adeguamento della società degli alfabetizzati alla “questione della lingua” attorno a cui hanno orbitato due problemi. Sul piano della scrittura, si era posto l’uso della lingua letteraria rispetto al latino e, nel Settecento, al francese; sul piano dell’oralità, permaneva il confronto con gli innumerevoli dialetti che, al pari del fiorentino, discendevano dal latino volgare; sullo sfondo si affacciava la consapevolezza dell’italiano come lingua comune di interscambio. La scolarizzazione ha contribuito a circoscrivere lo spazio della specificità dell’italiano quale risultato della convergenza e dei limiti di molteplici processi.
A cavallo del Settecento e dell’Ottocento, Milano, resa estremamente attiva da favorevoli condizioni di sviluppo socio-economico, illustra con chiarezza le posizioni intellettuali accese dalle polemiche, spesso dai toni assai aspri, fra Paolo Onofrio Branda (1717-1776) e gli oppositori. Branda, nel primo dei Dialoghi della lingua toscana, del 1759, aveva formulato apprezzamenti assai poco lusinghieri sia nei confronti del dialetto milanese e dei suoi cultori, per rendere invece omaggio alle “toscane lettere”, sia nei confronti dei membri dell’Accademia dei Trasformati, il cui rifondatore, nel 1743, e Conservatore perpetuo fu Giuseppe M. Imbonati; l’Accademia, pur guardando al Classicismo, si mostrava aperta al revisionismo dell’Illuminismo e, su questo percorso, favoriva la composizione e la recita di opere letterarie nel vernacolo. I termini di questo importante confronto, al quale presero parte anche Pietro Verri e Giuseppe Parini (Porta parlerà di «lenguagg noster meneghin»), si prolungano al secolo successivo, per immettersi nel cuore della discussione in chiave nazionale riguardante l’uso che vive e fiorisce in Toscana a fronte della teoria del Bembo come delle istanze favorevoli alle considerazioni del continuum dialettale. Fra i molti che interverranno, Pietro Giordani, Alessandro Manzoni, Graziadio I. Ascoli mostrano la consapevolezza del fatto che la relazione fra la lingua dominante e le realtà locali finisce per determinare la storia (e la sorte) del patrimonio tradizionale della stessa dialettalità.
Il Parini mette in guardia quegli autori insolenti che sottovalutano la difficoltà della poesia dialettale, dichiara la piena coscienza del valore letterario del dialetto e si mostra allineato sulla linea espressiva Maggi-Balestrieri. Pur sempre nell’idea di un rapporto gerarchico in cui al dialetto si antepone la lingua, il lato vernacolare del Parini è molto distante dalla posizione del Giordani il quale considerava la poesia dialettale come una semplice forma di intrattenimento, fra il plebeo e lo scherzoso, la cui diffusione a mezzo di stampa sarebbe stata inutile. Se Giordani elogia iniziative come quella della stesura di vocabolari dialettali finalizzate all’apprendimento della lingua italiana, polemizza con l’uso di tenere prediche e lezioni di catechismo nei vari dialetti locali, giungendo a prospettare il problema stesso dell’unità italiana, in quanto coscienza nazionale, come un problema di diffusione di lingua comune. Si tratta di una polemica aspra destinata a dividere le posizioni degli intellettuali milanesi. I fratelli Verri si trovano schierati piuttosto con la fazione unitarista e “toscana”, mentre il pluralismo appare loro un ritorno al passato.
La produzione in milanese di Giuseppe Parini è limitata a quattro sonetti e a un epigramma che gli fanno tuttavia meritare una collocazione nella quartina con cui Carlo Porta, nel solco della ideologia dei Trasformati (dalla quale quindi viene attraverso il Porta a dipendere anche il romano Belli), sancì il canone della poesia meneghina: «Varon, Magg, Balestrer, Tanz e Parin, / cinqu omenoni proppi de spallera, / gloria del lenguagg noster meneghin, / Jessus! Hin mort, e inscì nol fudess vera» ‘Varon, Magg, Balestrer, Tanz e Parin,/ cinque colonne capaci proprio di reggere i pesi maggiori, / gloria della nostra lingua meneghina, / Gesù! Son morti e magari non fosse vero’. I nomi si riferiscono a Varrone (Giovanni Capis, 1550-1610, Autore di Varon milanes de la lengua de Milan, Milano 1606, stampato insieme al Prissian de Milan de la parnonzia milanesa di Giovanni A. Biffi), Maggi (Carlo M., 1630-1699), Balestrieri (Domenico, Milano 1714-1780), Tanzi (Carl’Antonio, Milano 1710-1762) e Parini.
Il dialetto: questa nostra creatura.
Le Marche rappresentano un articolato quadro dialettale in cui la componente maceratese-fermano-camerte sigilla l’interazione di questa espressione di lingua con il territorio al quale ha dato, ma dal quale ha preso, perché ha permesso nel corso dei secoli la narrazione dei fatti che si svolgevano in ogni singola situazione di vita, personale, familiare e sociale. Il dialetto rende pertanto comunicabile la realtà delle cose e delle azioni, dalle più banali alle più complesse, così come dei propri sentimenti, all’interno della indissolubile relazione fra pensiero, fisicità e contesto da cui si origina lo spazio dell’autonomia conoscitiva. Il dialetto è l’attività riguardante le necessità del processo pratico di scambio condizionato da interlocutori e contesti.
La crisi più profonda sorge con la comparsa dei diversi momenti di apertura del circoscritto “piccolo mondo antico” al confronto con le dimensioni vaste dell’assetto nazionale e, a seguire, con la globalizzazione. Tuttavia, proprio perché il dialetto, come qualsiasi lingua, crea la densità esistenziale dell’uomo, la necessità di affermare la propria soggettività ha innestato la reazione mirata a impedire l’abbandono alla banda larga del nulla. Si assiste nelle Marche e altrove al fenomeno di “risorgenza dialettale” che, al di là dei consolidamenti locali che andranno esaminati caso per caso, rivelano, da una parte, l’avanzamento generalizzato di forme di comunicazione informale, dove il dialetto si unisce a varietà regionali di italiano e a forme di slang giovanile, e, dall’altra, ne sottolineano il recupero per la produzione letteraria di poesie, commedie, e persino per traduzioni. Una serie di Autori marchigiani elabora l’effetto sconvolgente dell’introspezione nei segreti dell’identità, sospingendo la sintassi in esiti di estrema concentrazione, volti al recupero di memorie sedimentate. Senza attardarsi nella meraviglia e nel sogno, Ennio Donati, Fabio Macedoni, Jacopo Curi, Leonardo Mancino rappresentano solo alcuni nomi fra una numerosa schiera.
Il dialetto: una presa di coscienza.
A proposito delle Marche centrali. Scrivere non è semplice, e voler scrivere in dialetto è maggiormente reso complicato dal dover fissare combinazioni di suoni per i quali non sempre le convenzioni ortografiche risultano adeguate. Sul dialetto maceratese-fermano-camerte, dopo gli studi pionieristici di Amerindo Camilli basati sul dialetto, di area fermana, di Servigliano (Il dialetto di Servigliano, “Archivum Romanicum” 13/2-3, Ginevra, Olschki, 1929, pp. 220-271 [rist. 2002, a c. di Fabio Paci]), nell’ambito di una attività di studio maturatasi nel tempo presso il Dipartimento di ricerca linguistica dell’Università di Macerata (DIPRI, attuale SeLLF), Agostino Regnicoli, Marina Pucciarelli, insieme con gli oramai scomparsi Claudio Principi e Adriano Biondi, hanno ragionato sulla opportunità di servirsi di soluzioni per la grafo-fonia del dialetto in convenzioni di corrispondenze che rimandino all’ortografia dell’italiano.
Circa il quesito della liceità o necessità del rimando alla ortografia dell’italiano, già il Camilli aveva posto l’attenzione, per esprimersi in favore del confronto, perché utile a superare la difficoltà della proliferazione degli “alfabeti fonetici” come veniva segnalato dai Romanisti.
Ma il dialetto offre un vasto campo di esplorazione. Per accennare alla struttura, il Camilli, nel 1929, segnalava una particolarità di estremo interesse della pronuncia del suono corrispondente a b italiano che, a seconda del contesto fonotattico in cui è inserito, risulta variare in un’alternanza che la attuale dialettofonia sta perdendo. L’esempio preso a dimostrazione è che bbaffu, lu vaffu, um maffu per ‘che baffo’, ‘il baffo’, ‘un baffo’.
Un interessante problema morfo-sintattico riguardante la resistenza nei dialetti di quest’area di sintagmi monotematici la cui dinamica resta autonoma rispetto all’italiano moderno ma che rimanda a una fase ammessa di età medievale-rinascimentale. Si tratta delle forme modulari di <<termine di parentela + agg. possessivo di I, II, più raro III pers. sing.>> dove accanto allo schema proclitico del pronome mi fìjju compare lo schema enclitico e quindi agglutinativo fìjji-mu, accanto a tu patre / tu vabbu compare bàbbi-tu. Se oggi lo schema enclito del pronome (fìjji-mu, bàbbi-tu, a zì-sa ‘sua zia’) risulta aberrante rispetto all’italiano, nel passato le cose stavano diversamente. In Dante si trova signór-so per ‘suo signore’ e in Boccaccio –to / –ta sono frequenti. Come documenta il Rohlfs, il fenomeno è stato, e ancora permane, della Toscana, era del romanesco antico ed è stato fino a recente del giudeo-romanesco, sopravviveva nel còrso documentato dai più anziani (fratèllu-mu, surèlla-ta), si estende ancora oggi sino alla Calabria estrema.
La storia di tale modulo cambiò allorquando il Varchi, e dopo di lui la maggior parte dei grammatici umanisti, condannò l’uso che per conseguenza finì per non essere più accettato dalla norma letteraria. Tuttavia, in una prospettiva più ampia, muta il quadro delle relazioni fra italiano e dialettofonia dell’Italia.
Ancora nelle scuole del Regno, la polemica Manzoni-Ascoli sul profilo da dare alla lingua di insegnamento nelle scuole dell’obbligo, pur con la vittoria della posizione manzoniana, accettò il compromesso di ammettere nelle classi elementari manualetti che facilitassero la convivenza con il dialetto locale. Inoltre, come anche mostra il Belli, sono documentate anche registrazioni del plurilinguismo in atto nelle realtà locali.
Il lessico, se non è replicato con le parole che si era soliti udire nell’infanzia, si dissolve facilmente, perché esso è una mappatura del mondo imprecisa e manchevole; sempre superato dalle innovazioni, è pronto a cercare altrove, pur di soddisfare l’esigenza del momento e a fungere da repertorio nella negoziazione dialogica. In questo processo dinamico, ben segnalato da Flavio Parrino e da Dolores Prato, e documentato dalla attuale poesia del serviglianese Luigi Bracalenti, molti sono i termini in via di estinzione: afa ‘incantamento, iettatura’, arbuattu ‘brutto, tonto’, bigunzu ‘stupido’, cachèticu ‘presuntuoso’, caporello ‘capezzolo’, ciarìngulu ‘budellino del maiale’, cinìcchia ‘piccolino’, frigulì ‘pochino’, gnucca ‘sbornia’, lemmecciolo ‘ombelico’, scartoccià ‘spannocchiare’, paìnu o paccó ‘raffinato’, purassà! ‘certo, ci mancherebbe, fammi il piacere!’, scuficchì ‘ficcanaso’, stommellò ‘spilungone’, teòlicu ‘saccente’.
Accanto a questi termini, la vivacità popolare si manifesta in una fraseologia di particolare effetto: quando si avvertiva una fame smodata, si soleva dire di avere una pancia che ce se pò fa la sparra ‘che può essere arrotolata come uno straccio’, e il concetto di solidarietà spontanea era figurato come un pa che se’rmpresta ‘un pane che si restituisce’.
Talvolta, però, il lessico del dialetto prevale e, in forza della tipicità prodotta nel territorio, si impone sull’italiano. Questo accade con ciabuscolo e vincisgrassi (princisgras nel settecentesco libro di cucina di Antonio Nebbia); in essi la cedevolezza al tatto e la morbidezza al palato, del primo, e il trito rosolato di lardo o prosciutto, cipolle, sedano, carote cui si aggiungono rigaglie e macinato di manzo e pollo o agnello e oca, del secondo, li fanno emergere su qualsiasi altra denominazione.
Come spesso succede, i dialetti preservano tracce di tradizione che rimandano alla complessità della trasmissione di un sapere che non di rado ha i sapori di arcaico. La modalità espressiva gne noccia ‘non nuoccia’, che deriva dall’ingiuntivo latino ne noceat, porge l’invito augurale a ché la situazione permanga o si volga al positivo. Siccome i dialetti italiani, al pari del fiorentino, discendono tutti dal latino volgare, non c’è da meravigliarsi di trovare un magnifico parallelismo nelle parole di incoraggiamento rivolte da Virgilio a Dante «non ti noccia / la tua paura» (Inf. vii 4-5).
Autodidattismo e neodialetto.
La temperie attuale è vissuta con densità esistenziale sottolineata da una serie di condizioni indiziali che si riassumono in un itinerario nella dialettofonia poetica recuperata, se non iniziatasi, in età adulta, o, comunque sia, sviluppatasi come un comportamento secondario, provocato dall’interferire di accadimenti esterni dimostratisi condizionanti. Come nel milanese, urbano, “mutante” e contaminato, di Franco Loi, o come nel lucano tursitano di Albino Pierro; ambedue sono, per diverse esperienze di vita, in origine estranei a quelle realtà linguistiche che, recuperate attraverso la scrittura, trovano nel secondo la ragione della scelta nella perdita della madre e nel primo l’adesione culturale al contesto sociale.
Loi ha sostenuto che «senza che lo sapessi, avevo il milanese dentro» e, ancora, che «è il milanese che usa me» (“Il Sole 24 Ore”, 18 aprile 2017). In Achille Serrao si registra il trauma della perdita paterna attraverso cui, come per una fessura, penetra il nuovo flusso di una dialettofonia armonica ed equilibrata. Per Mariano Bàino la crisi identitaria dovuta alla massmedialità si riverbera nella struttura portante del dialetto intrecciato con contaminazioni, calchi, neologismi, giochi verbali. In Salvatore Di Natale l’angoscia della solitudine è sapientemente ricomposta nel dialetto che partecipa delle figure del simbolismo ereditato dalla sua francofonia.
Il partenopeo Antonio Calabrese e il dialetto di Matelica (nel Maceratese) di Ennio Donati elaborano l’effetto sconvolgente dell’introspezione nei segreti dell’intimo, sospingendo la sintassi in esiti di estrema concentrazione. Ambedue sono professionisti nell’ambito tecnico-scientifico, ambedue sono andati a trovare un punto di fuga nascosto in grado di fornire loro un luogo prospettico privilegiato, dove poter disporre l’oggetto prima di impegnarsi, come uomini-poeta, a descriverlo verbalmente, ambedue hanno nella vita impiegato quasi esclusivamente l’italiano e hanno anche frequentato realtà plurilingui.
Sono riusciti, per dirla col verso milanese di Loi, a «vèss òm e vèss puèta», a ‘esser uomo e a esser poeta’ (“Aria de la memoria”, Isman). Donati, da autentico interprete della “neodialettalità” italiana, che ha il prodromo in Belli e, fra i moderni, il rappresentante più illustre in Pasolini, innesta questa opzione sul recupero, psichico, di aspetti altrimenti celati della identità e, storico, di memorie sedimentate nella trasmissione di un sapere e nell’assaporamento di lemmi arcaici e colti. È dichiarato nella “Prefazione” che il titolo dell’opera, Eraàmo ricchi. Le poesie de Sór Righétto, rimanda a «la semplicità, la serenità e la piacevolezza della vita di un tempo», pur tenendo l’argomentare lontano dalla «retorica di una vuota e generica nostalgia» che potrebbe comparire quando viene spinto l’acceleratore della ripetitività. La risposta è ottenuta nel ritorno alla condizione culturale del mito, riproponendo il passato nella attualità del presente e rivivendolo attraverso un sistema integrato di poesia che spinge la parola verso l’interno “dei sintomi”: essendo questi stati creati dal Poeta, tutti i gradi della “tecnica verbale” sono compresi sotto la denominazione di poesia.
A lui è successo di accedere al dialetto come alla lingua gelosamente endofasica delle suggestive atmosfere legate al ricordo rivisitato alla luce dell’esperienza di vita. Per anni nessuno più gli ha replicato le parole che era solito udire da ragazzo, radicate con radici germinanti dall’intimo verso la pienezza nell’arte derivata da una giovinezza interiore prolungata, che ancora appare sdoppiata nel foglio sovrascritto dai versi, quale manifesto umano e poetico in cui modulare in dissolvenza il pensiero riposto e ispirato; ed egli fa ritorno a Matelica dopo essersene allontanato da bambino: «quandu témbu adè che ssò jìtu via!» (“Matélica mia”, Eraàmo ricchi), nel luogo di ‘quella donna chiamata Mattia’ che è però anche lo spazio delle più diverse modalità di vita.
In Calabrese (Le parole ritrovate. Poesie in napoletano), l’accadere della parola poetica è potenza vitale dell’esprimersi sulla scena della storia per mostrare che, senza attardarsi nella meraviglia e nel sogno, nessuna cosa permane dove la parola manca. I versi sulla natura pongono domande sull’inizio attraversato dalle antiche parole strappate al silenzio, rese veritiere dalla loro aderenza alle cose e quindi per essere state disvelate nel contenuto più autentico. Un inizio che non ha inizio, perché è ovunque e in nessun luogo. Perché si abbia poesia, bisogna che il linguaggio già sia là!
Non ha infatti affermato Gilles Deleuze (Critique et clinique) che i capolavori della letteratura si concedono sempre in una specie di lingua che appare straniera rispetto alla lingua in cui sono scritti?
L'autore
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Diego Poli, professore Emerito, è stato professore ordinario presso l'Università di Macerata di Glottologia e linguistica. Negli anni 1990-96 ha ricoperto la carica di Preside della Facoltà di Lettere e filosofia per due mandati consecutivi. È stato dapprima Segretario e successivamente Presidente della Società italiana di glottologia (SIG) in carica per il biennio 2001-2002. È attualmente Direttore della Collana “Episteme” (Editrice il Calamo di Roma) e della “Rivista italiana di linguistica e di dialettologia” (Fabrizio Serra Editore, già I.E.P.I., di Roma - Pisa). Ha organizzato numerosi convegni, tra i quali si segnalano fra i più recenti: “Cristina di Svezia e la cultura delle accademie” (2003), “La lingua del teatro fra d’Annunzio e Pirandello” (2004, in collaborazione con L. Melosi), “L’Oriente nella cultura dell’Occidente” (2004, in collaborazione con D. Maggi e M. Pucciarelli), “Lessicologia e metalinguaggio” (2005), “Annibal Caro a cinquecento anni dalla nascita” (2007), “I linguaggi del Futurismo” (2010), “Le Marche terra di elezione di G.G. Belli” (2015, in collaborazione con M. Baleani), “In limine - Frontiere e integrazioni” (2018), “Gli universali in linguistica” (2018). Si occupa di linguistica storica (in particolare classica, celtica e germanica), etimologia, dialettologia, retorica, storia della lingua latina, storia della lingua inglese, antico nordico, fonetica e fonologia, storia della linguistica, storia della grammatica nel Medioevo, etnolinguistica. Ha inoltre studiato la speculazione linguistica in Dante, Annibal Caro, Leopardi, Belli, nel Futurismo e ha approfondito le istanze linguistiche nel pensiero della Compagnia di Gesù dei secoli XVI-XVIII, in particolar modo in riferimento alle figure di Matteo Ricci e di José de Acosta. È membre d’honneur della “Société belge d’études celtiques” dal 1995. È eletto, nell’adunanza del 24 marzo 2012, socio corrispondente non residente dell’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti per la Classe di scienze morali, lettere e arti. È dichiarato socio honorario della “Asociación de docentes e investigadores de lengua y literatura italiana” dell’Argentina (ADILLI) nel settembre 2012. Il 25 ottobre 2013 è insignito dal Cardinale di Milano, S.E. Angelo Scola, del titolo di Accademico ambrosiano. Nel maggio del 2021 è cooptato nella Accademia degli Agiati di Rovereto. Gli è conferito il titolo di “professore Emerito” dal Ministro dell’Università e della ricerca, prof.ssa Maria C. Messa, con Decreto 0000071 del 18 gennaio 2022.