“Que la tierra florezca en mis acciones
como en el jugo de oro de las viñas,
que perfume el dolor de mis canciones
como un fruto olvidado en la campiña”.
(De “Sinfonia de la trilla”, Crepusculario -1919)
Il professor Gabriele Morelli ha recentemente dato alle stampe, per i tipi della Salerno editrice di Roma, il sontuoso volume Neruda. Si tratta di un libro di cui si sentiva francamente bisogno: come nel caso del suo precedente, García Lorca, Morelli spazza via una quantità di stereotipi che condizionano l’immagine e la ricezione di questi due grandi poeti. Morelli, ricostruisce, finalmente in maniera organica, l’itinerario biografico e personale del poeta cileno Premio Nobel nel 1971, correlandolo a tappe specifiche della sua vita personale. Quella che ci viene restituita non è solo l’immagine di un grandissimo poeta ma soprattutto quella di un uomo straordinario, che visse, quasi divorò la vita – ma in realtà forse due o tre vite diverse –, facendo viaggi in luoghi esotici e remoti, conoscendo personaggi straordinari.
Professor Morelli, cominciamo procedendo à rebours: il Memorial de Isla Negra, pubblicato nel 1964. L’ “affresco”, come lei stesso lo definisce, è una sorta di viaggio nel passato di Neruda, nel quale emergono sostanzialmente memorie dell’infanzia e della prima gioventù, che a loro volta richiamano e si riconducono a frammenti del presente per configurarsi come una sorta di bilancio della sua esistenza, tra vittorie e sconfitte ed errori di valutazione.
In effetti Neruda è un poeta che guarda al passato, sempre presente nella sua enciclopedica opera, poiché rappresenta l’infanzia vissuta in mezzo alla natura australe del Cile e la giovinezza povera trascorsa a Santiago, dove scopre e vive la pienezza dell’amore, come racconta la silloge Veinte poemas de amor y una canción desesperada, pubblicata a vent’anni, nel 1924. Il libro ha avuto un successo mondiale e continua a richiamare lettori di ogni parte del mondo. Possiamo dire che una parte della poesia di Neruda è il risultato di una memoria dilatata che alimenta costantemente la sorgente della sua poesia. Del resto, nel libro da lei citato, Memorial de Isla Negra, sono ben enucleati i centri emotivi e ispiratori della sua lirica, in cui il tema fondamentale è l’amore: l’amore per le donne che Neruda ricorda anche dopo il naufragio delle loro unioni; ancora, insieme a tanti momenti e incontri del passato, s’impone il sentimento di solidarietà per i poveri e gli emarginati, ai quali Neruda è vicino. Anche il libro delle memorie Confieso que he vivido mette al centro l’esperienza della vita poiché, in definitiva, l’autore cileno non ha fatto altro che cantare l’esperienza dell’io e il suo rapporto con il mondo.
Dopo aver appreso tutta la verità sugli orrori e le nefandezze di Stalin, figura da lui ammiratissima alla quale aveva addirittura dedicato un’ode, quali sono le riflessioni sul dittatore russo che si colgono nel Memorial?
Il giudizio di Neruda sull’operato di Stalin al quale, come lei ben ricorda, ha dedicato una commossa elegia in occasione della morte, è molto severo. In più occasioni, in numerose dichiarazioni e soprattutto in molti componimenti, per esempio la poesia “Culto, II” del libro Fin de mundo, è ricordato il dittatore. I versi dell’elegia criticano in modo duro il culto della persona imposto da Stalin: “Un milione di orribili ritratti / di Stalin coprirono la neve / con i suoi baffi di giaguaro. // Quando abbiamo saputo e abbiamo sanguinato / scoprendo tristezza e morte”.
Al contrario, nella ultima epoca di Neruda (di cui lei ha avuto la possibilità di leggere una raccolta di versi ancora inedita, Album de Isla Negra), vi è una rielaborazione e un ripensamento delle sue precedenti posizioni comuniste, che lo porta ad avvicinarsi al socialismo umanitario che andava affermandosi in Cile e che culmina con l’elezione nel 1970 di Salvador Allende. Quale fu l’attività letteraria e soprattutto politica di Neruda in questo periodo?
Più che nel libro d’amore per la giovane Alicia, il ripensamento è visibile e chiaramente espresso già in Fin de mundo del 1969. In particolare posso ricordare il componimento “1968”, data dell’invasione dell’Ungheria e dell’ingresso dei carri armati russi a Praga, che così inizia. “L’ora di Praga mi cadde / come una pietra sulla testa, / era incerto il mio destino, / un momento di buio / come quello di una galleria in un viaggio”.
Secondo lei come si coniuga questa immagine di intellettuale comunista, estremista in alcuni casi, con quella del bon vivant, amante del buon vino, del buon cibo, delle belle cose, del lusso, delle donne: difatti è lunghissimo l’elenco delle sue amanti.
Non vedo contrasti. Neruda, che ho conosciuto personalmente, era un uomo che amava la vita: le donne, il cibo, le cose belle di cui si circondava; allo stesso tempo era un poeta impegnato ideologicamente che manifestava pubblicamente, ma soprattutto attraverso la poesia, il sentimento di solidarietà umana a favore dei deboli e dei poveri. Un “io” il suo che va alla ricerca del bello, ma è attento alla problematica del “noi”. Ricordo questi brevi versi della lirica Ode all’uomo semplice del libro Odas elementales:: “Ogni giorno mi pettino / pensando come tu pensi, / e cammino, / come tu cammini, / mangio, come tu mangi, / tengo tra le braccia il mio amore / come tu la tua ragazza”.
Cosa comportò per Neruda la vittoria del Premio Nobel?
Oltre alla grande soddisfazione personale del poeta proveniente da un lontano paese d’America, fu l’affermazione di un’opera che rivendica, oltre la presenza dell’io, la preoccupazione sociale per un mondo più giusto.
Tornando indietro alla sua prima stagione poetica, si può dire che le sue prime prove rappresentano lo stupore del giovane di Parral e di Temuco davanti al mondo, prima quello naturale e poi cittadino, e le sue meraviglie? Una poesia completamente diversa che soppesa e decanta le parole per trasformarle nel mezzo adeguato per esprimere le sensazioni che questo mondo gli provoca?
Quanto lei dice mi pare chiaro e perfetto nelle sue ragioni tanto umane che poetiche.
Questo stupore davanti alla natura, alle sue creazioni, ne vertebra l’intera produzione poetica. Lei pensa che questo stupore sia genuino fino alla fine?
Neruda ha conservato fino all’ultimo questo profondo legame con la natura, contratto fin dall’infanzia trascorsa a Temuco, e possiamo aggiungere che, durante tutta la vita, ha conservato il cuore innocente dell’infanzia, pur fra tante contraddizioni e cadute.
Sappiamo che Neruda ricoprì vari incarichi diplomatici che lo portarono in parti del mondo anche remote. L’esperienza più significativa, rimane senz’altro quella spagnola, e in particolare quella madrilena. Possiamo affermare che l’arrivo di Neruda nell’ambiente letterario della capitale fu un vero e proprio terremoto culturale? Parlo del suo ruolo nell’elaborazione del concetto di “poesía impura” e nella creazione di riviste come “Caballo verde para la poesía”.
Certamente l’arrivo nel 1934 di Neruda a Madrid, accolto da García Lorca con un mazzo di fiori alla stazione della capitale, come lo stesso poeta cileno ha ricordato, è un avvenimento fondamentale per l’opera di Pablo, ma anche per quella dei giovani poeti spagnoli della Generazione del ’27 e del ’36, che gli dedicano un libro rappresentativo di alcune poesie di Residencia en la tierra; credo, la più importante opera poetica del Novecento. Inoltre, come lei ha giustamente ricordato, gli affidano la rivista “Caballo verde para la poesía”, dove Neruda, nel primo numero, pubblica il noto manifesto della poesia impura che afferma un nuovo concetto di scrittura non più concepita secondo la teoria orteghiana dell’arte per l’arte, praticata in Spagna soprattutto da Juan Ramón Jiménez.
Da quanto leggiamo nel suo libro un rapporto privilegiato, un sodalizio umano e letterario profondo fu quello con Federico García Lorca.
Sì, fu un grande, intenso, fruttifero sodalizio umano e letterario, che inizia a Buenos Aires nel 1933 quando i due scrittori sono presenti nella capitale argentina; amicizia che continua e si arricchisce in Spagna, a Madrid, dove Neruda si trasferisce come console cileno. È il poeta granadino che presenta l’amico agli studenti dell’università madrilena affermando che si tratta di “un poeta più vicino alla morte che alla filosofia, più vicino al dolore che all’intelligenza, più vicino al sangue che all’inchiostro”, definendo in modo intuitivo ma chiaro la natura antiaccademica della poesia di Neruda, espressione di una ricerca profondamente umana e passionale.
Il poeta che gli rimase nel cuore fu comunque Miguel Hernández, la sua terribile morte nelle carceri di Franco. E Miguel fu il motivo che la portò a conoscerlo personalmente: lei un giovane laureando che alla domanda del grande poeta gli parla della sua tesi su Hernández. Io immagino questo incontro come un momento folgorante, un’epifania. Lei, che ne fu il fortunato protagonista, invece come lo ricorda?
Continuo ancora a sentire le parole di Neruda che mi descrivono la figura rude del poeta pastore di Orihuela, e ricordo ancora il suo volto ovale e gli occhi umidi di commozione allorché evoca la figura del giovane Miguel, morto in un carcere franchista nel 1942, all’età di 32 anni. È difficile per me dimenticare quell’incontro che ho descritto nel libro.
Parliamo invece di inimicizie. Che ci può dire di Leopoldo Panero e del suo Canto personal?
Leopoldo Panero è un grande poeta, purtroppo poco conosciuto in Italia e anche un po’ dimenticato in Spagna per i suoi trascorsi politici a fianco di Franco. La sua partecipazione ideologica, almeno all’inizio, è legata al momento dello scontro politico che ha poi determinato la sua successiva partecipazione nell’esercito nazionalista imposta dalla famiglia. Per quanto concerne il suo Canto personal, è una risposta polemica al libro Canto general di Neruda, di cui Panero fu grande amico durante il periodo madrileno. Nel volume dell’epica sul continente latinoamericano, il poeta cileno lancia una dura invettiva contro alcuni scrittori e poeti (Dámaso Alonso, Gerardo Diego, José María de Cossío), accusati di essere i responsabili della morte del giovane poeta Miguel Hernández, a cui – come prima abbiamo detto – Neruda era molto legato. In ogni modo Leopoldo Panero è un poeta interessante (come del resto lo sono i suoi figli Juan e, soprattutto, il più conosciuto Leopoldo). Per questo mi è sembrato giusto far conoscere la sua opera attraverso un’antologia essenziale pubblicata in Italia dalle Edizioni Medusa di Milano.
Vorrei chiederle della dolorosa vicenda dell’unica figlia di Neruda, Malva Marina, dalla quale non emerge una figura d’uomo propriamente edificante.
Sul tema sono nate e si sono intrecciate violente polemiche; si sono scritti libri sulla dolorosa storia di questa bambina malata di idrocefalia, soprattutto sono numerosi coloro che criticano il comportamento di Neruda, a cui rinvio per un giudizio sereno, tenendo conto anche dei tragici momenti (l’occupazione di Madrid delle truppe franchiste e la precipitosa fuga a Barcellona) in cui avviene la vicenda.
Vorrei un suo parere sull’aspetto formale della poesia nerudiana, che nella maggior parte delle volte prescinde dalla rima, impiega in uno stesso testo versi molto disuguali, rinnovando in alcuni casi il concetto di prosodia o enjambement e a volte operando scelte lessicali ardite. Cosa ci può dire del suo rapporto con la poesia di stampo classico, ancora in uso presso i modernisti alla fine del secolo o presso i poeti della Generazione del ’27?
Neruda nei suoi primi libri (Crepuscolario, Viente poemas…) guarda ancora al movimento modernista, ma subito rompe e supera il modello tradizionale con una poesia che guarda soprattutto alle istanze e problematiche della vita. Possiamo anche dire che assistiamo a continui cambi e variazioni tanto a livello ritmico come poetico: dal verso dodecasillabo si passa presto a misure brevi, frantumate e a innesti prosastici. Già in Residencia en la tierra il poeta cileno esplora nuovi impieghi vicini alle forme colloquiali rappresentative del linguaggio quotidiano. Ancora nei libri delle Odas inventa un lessico minimale in osmosi con le immagini essenziali fornite dai prodotti della natura o dalla presenza di oggetti d quotidiani che il poeta canta: un universo semplice, umile, di immagine francescana, che di nuovo sorprende il lettore moderno.
Harold Bloom disse di Neruda: “Nessun poeta dell’emisfero occidentale del nostro secolo regge un confronto aperto con lui”. Dal canto Suo, García Márquez affermò “È il più grande poeta del XX secolo, in qualsiasi lingua”. Lei è d’accordo?
Sono d’accordo, anzi – se è possibile dirlo – sono d’accordissimo.
Non crede che la poesia nerudiana, nella sua doppia possibilità di lettura, quella amorosa e quella politica, non ha superato indenne la prova del tempo, al contrario di ciò che lei mi disse su Lorca?
Ora non ricordo precisamente quanto posso averle detto su Lorca. A mio giudizio Neruda continua a essere un poeta importante, poiché riflette le varie correnti della poesia dell’epoca in cui è presente tutta la geografia e la contrastata storia ideologica del Novecento, a cui partecipa a favore del comunismo da cui, dopo le rivelazioni di Kruscev dei crimini di Stalin, si allontana optando per un socialismo dal volto umano che egli crede interpreti il Partido Popular di Salvador Allende. In ogni modo, anche dopo il pentimento e la confessione dell’errore, non elimina dalla sua Opera Completa nessun testo elogiativo del partito comunista, a testimonianza di un’esperienza che, con tutti i suoi errori, continua a credere importante.
Da questo suo studio documentatissimo e rigoroso emerge qualche dato inedito sulla vita e la morte di Neruda?
Ho indicato momenti ed episodi diversi da quelli trasmessi in genere dalla critica e storiografia nerudiana; in particolare ho messo in luce la vicenda amorosa della relazione clandestina di Neruda con Alicia Urrutia, nipote della moglie Matilde e, soprattutto, ho parlato del libro inedito dedicato dal poeta alla giovane amante, di cui ho anche citato alcuni frammenti.
Ultimamente c’è un rinnovato interesse intorno alla figura di Neruda. Ne è testimonianza l’omonima pellicola di Pablo Larraín. Lei l’ha vista? Che ne pensa?
Sì, ho visto la pellicola, e voglio essere sincero: non mi è piaciuta. Mi conforta l’analogo giudizio espresso dallo scrittore cileno Jorge Edwards, premio Cervantes, grande amico e confidente di Neruda, che mi ha messo a parte del suo parere negativo sul film, piuttosto semplicistico.
Mi permetta un’ultima domanda, stavolta ironica: secondo lei, l’inserimento del nome di Neruda in una canzone di Arbore degli anni Ottanta, “Lo diceva Neruda / che di giorno si suda / ma la notte no”, ha contribuito alla conoscenza presso l’italiano medio della figura del poeta cileno?
Di Renzo Arbore ho sempre apprezzato l’intelligenza e lo humor corrosivo e mai offensivo con cui tratta e utilizza vari materiali, anche letterari. Credo tuttavia che la popolarità di Neruda in Italia sia precedente alla canzone, grazie anche all’opera di studio e diffusione fatta dal professor Giuseppe Bellini di Milano. Sono sicuro che al poeta avrebbe fatto comunque piacere sentirsi citare per affermare che davvero “di giorno si suda / ma la notte no”. La notte cantata da Neruda è in genere la notte riservata all’amore. Ricordo i versi iniziali del poema 10 di Veinte poemas… diretti all’amata lontana, con cui chiudo il nostro colloquio: “Abbiamo ancora perso questo crepuscolo. / Nessuno ci ha visto questa sera con le mani nelle mani / mentre la notte azzurra cadeva sul mondo”.
L'autore
-
Roberta Alviti è ricercatore di Letteratura Spagnola presso l’Università degli Studi di Cassino e del Lazio meridionale; le sue ricerche sono dedicate principalmente allo studio della tradizione manoscritta del teatro spagnolo del Siglo de Oro e all’edizione di testi teatrali. Il campo di indagine privilegiato è stato quello delle commedie scritte in collaborazione fra più autori, con una particolare attenzione alla problematica della strategia compositiva e agli aspetti tematico-stilistici. Si è interessata anche allo studio del linguaggio paremiologico nelle commedie di Lope de Vega e di Calderón de la Barca e ha curato la traduzione italiana di Il freudismo, testimonianza dell’uomo contemporaneo di María Zambrano; attualmente si dedica allo studio della ricezione italiana delle piezas di diversi drammaturghi spagnoli, in particolare Agustín Moreto e Calderón de la Barca.
Tra i suoi lavori: I manoscritti autografi delle commedie del ‘Siglo de Oro’ scritte in collaborazione. Catalogo e studio, per i tipi di Alinea e l’edizione critica de La Burgalesa de Lerma, di Lope de Vega, nell’ambito del progetto PROLOPE, dell’Universitat Autònoma di Barcellona
Ultimi articoli
- avvenimenti17 Aprile 2022“La muerte es una trampa, es una traición, que le sueltan a uno sin ponerle condición. La única manera de burlar a la muerte es escribir, escribir mucho” (Gabriel García Márquez). Intervista a Justin Webster
- Interventi31 Dicembre 2019Lo épico y lo lírico mezclado: fútbol y poesía de la Generación del ’27
- a proposito di...25 Agosto 2019A proposito di Neruda: Roberta Alviti intervista Gabriele Morelli
- avvenimenti29 Luglio 2019Cronache da Gerusalemme: patria, lingua, conflitto