L’incontro con questo libro è stato abbastanza insolito. Era in un mucchio di libri vecchi che l’Istituto di Cultura di Rio aveva deciso di scartare. Visto che questi libri sarebbero scomparsi definitivamente dagli scaffali della biblioteca e che quindi il momento per vedere di cosa si trattasse era quello, decisi di dargli uno sguardo. Ne vidi subito due che mi destarono immediatamente l’attenzione. Uno: Purosangue animale da esperimento di Federico Tesio e l’altro, il Libro del tè, di Okakura Kakuzo, uno sconosciuto autore giapponese. Capivo che all’Istituto non interessava includere tra i libri per la consultazione testi che parlassero dell’allevamento dei purosangue inglesi o quanto meno dei cavalli (materia che al contrario mi affascina) – nonostante fosse scritto dal mitico Federico Tesio, il mago del purosangue -, né testi scritti da autori non italiani e che trattassero di argomenti oltremodo distanti dalla cultura prettamente italiana.
Mi rendo conto che, anche un libro di questo tipo, anche se non direttamente attinente alla nostra cultura è stato tuttavia, a partire da allora, un testo determinante nella mia formazione, una riflessione quotidiana su chi siamo e come dobbiamo prendere la vita di ogni giorno, un invito insomma a vivere in gioia e armonia costante. A questo proposito l’Istituto di Cultura è stato anch’esso un ottimo maestro di vita: cercare in ciò che apparentemente non interessa, può risultare, a conti fatti, oltremodo stimolante e determinante. Oltretutto, questo testo, tradotto in lingua italiana ha un ritmo meraviglioso, sembra quasi che l’autore lo abbia scritto nella nostra lingua.
Prima di cominciare a leggerlo, credevo che Il libro del tè fosse un semplice manuale pratico per preparare un buon tè, invece già dalle prime pagine vedevo che si trattava di un grande libro. Scritto nel 1906, in inglese, da un cultore delle tradizioni orientali e in particolare giapponesi, lancia fin dalle prime pagine un messaggio anche oggi abbastanza attuale: basta con l’occidentalizzazione dell’oriente! E pensare che questo processo era solo agli inizi. Ma vale la pena di ricordare che proprio all’inizio del XX secolo già si veniva contrapponendo un blocco orientale a uno occidentale, sullo sfondo del conflitto russo-giapponese (1904-05). Tuttavia il Giappone, malgrado il martellante europeismo, non aveva compiuto quel balzo in avanti che compirà invece dopo la ricostruzione e specializzazione tecnologica, all’indomani dell’ignobile bomba che tentò di annientare questa potenza culturale.
L’autore oltretutto, Okakura Kakuzo (1862-1913), proprio perché discendente da una dinastia di samurai, rappresenta il tentativo di ricongiunzione tra antico e nuovo Giappone. Okakura studia all’Imperial University di Tokio e nel 1889 assume la direzione della Scuola nazionale di Arte di Tokyo. Nonostante fosse un fermo sostenitore delle tradizioni giapponesi, andò anche negli U.S.A come consulente del Museum of Fine arts di Boston, come esperto di arte orientale.
In America incontra Ernest F. Fenollosa, profondo estimatore della cultura giapponese, ponte culturale tra occidente e oriente. Nel 1913 lascerà Boston per tornare in Giappone definitivamente ma, purtroppo, una violenta influenza lo condurrà alla morte a soli 51 anni.
Insomma, credo che per capire la potenza di questo libro non sia necessario essere un orientalista, anzi questo testo è un monito rivolto proprio a chi non si è mai avvicinato alla cultura orientale; in vari passi del libro, l’autore afferma con forza che forse gli occidentali hanno demonizzato l’oriente senza esservisi avvicinati e averlo voluto comprendere. La scelta della lingua inglese rappresenta quindi la ferma volontà dell’autore di promuovere questo messaggio in America e nel mondo.
Dietro una tazza di tè esiste tutto un mondo, il modo di vivere e pensare dell’oriente. Un semplice rituale, un’umile bevanda dietro alla quale oltre a nascondersi una storia antichissima, risiede tutta la freschezza della dialettica orientale e soprattutto giapponese. L’impressione che si ricava da questo libro è che nella complessità della vita, il vivere ogni singolo dettaglio con pienezza risulta essere il modo più facile, armonico ed unico possibile atto che si può riassumere nella preparazione disciplinata di una tazza di tè, quando ogni singolo movimento conduce a una sinfonia perfetta. C’è un modo preciso e specifico per preparare le foglie del té, come e fino a che punto scaldare l’acqua, il che significa che anche nella vita per avere un ottimo risultato c’è bisogno di compiere tutte le azioni con profondo ordine e armonia.
Del Libro del tè esistono varie traduzioni in italiano: la mia è quella edita da Bocca nel 1954 (dove manca purtroppo il nome del traduttore), poi c’è quella della Sugarco (1978 e 2014) tradotta da Piero Verni, e per finire la più recente da Garzanti con la traduzione di Giuseppe Maugeri.
La traduzione dalla quale estrarrò alcuni passaggi è appunto quella del ’54, la quale mi sembra oltremodo efficace: confrontata con la fonte inglese, ha in sé uno slancio positivo in più, risultando un testo piacevole e scorrevole. Ho usato questo libro anche nelle mie lezioni all’università sulla teoria della traduzione e ho riscontrato che, rispetto all’originale, pochissime e perdonabili sono le omissioni e, in sintesi, ha una forza unica nel guidarci verso i contenuti essenziali della filosofia del tè, tanto che la lettura risulta piacevole e oltremodo significativa, forse ancor più dell’originale dove il tono sembra essere, a volte, nascostamente polemico.
Ma andiamo ad alcuni punti del libro che spiegano come il tè possa essere punto di incontro tra l’espressione dei dettagli del vivere e le idee filosofico-religiose dell’oriente: “(..) Nel liquido ambrato che riempie la tazzina di porcellana color d’avorio, l’iniziato può gustare il delicato riserbo di Confucio, il mordente di Laotsé, l’eterno aroma di Sakyamuni stesso. Chi è incapace di sentire in sé la piccolezza delle cose grandi è mal preparato a discernere la grandezza delle cose piccole negli altri”.
Proprio ad apertura del libro, Kakuzo ci dice che in Giappone anche il carattere delle persone è commensurabile e definibile col tè. Infatti per l’autore chi non comprende la vita è chi “manca di tè”, e questi sono contrapposti a quelli eccessivamente attivi, passionali e disordinati che hanno “troppo tè”. Ci sono appelli premonitori sul cammino dell’umanità, che vede oltretutto una contrapposizione bellica tra occidente e oriente, per questo, lungo tutto il testo, l’autore cerca di sanare le incomprensioni tra questi due mondi: “Il cielo dell’umanità moderna è stato spezzato infatti, nella ciclopica lotta per la potenza e la ricchezza. Il mondo cammina a tastoni nelle tenebre dell’egoismo e della volgarità. Il conoscimento si acquista a prezzo della coscienza, si compiono le buone azioni a scopo di utilità . L’Oriente e l’Occidente, come due dragoni precipitati in un mare tempestoso, lottano invano per conquistare il tesoro della vita. Noi abbiamo bisogno di una Niuka per riparare il grande disastro; noi aspettiamo il grande Avatar. Nell’attesa gustiamo una tazza di tè. La luce del crepuscolo rischiara i bambù, le fontane cantano deliziosamente, il sospiro dei pini rimormora nella teiera. Abbandoniamoci al mondo dell’Effimero e lasciamoci cullare dalla amabile follia delle cose”.
Ho letto e riletto tante volte questo libro, vado continuamente a rivedere tutte le indicazioni e i sentimenti estetici che contiene. Mi ha aperto orizzonti nuovi su come e quanto gustare l’effimero, il momento, l’aura di ogni situazione quotidiana, apparentemente priva di significato, così come la lettura casuale di testi di varia natura, colta o meno. Devo dire che in tutti questi anni è stato un valido vademecum, anche a seguito del mio avvicinamento al buddismo giapponese. L’autore tra le varie filosofie, confucianesimo, buddismo e taoismo, ci mostra in più luoghi di preferire l’unità tra le tre dottrine catalizzata dal passaggio del Tao. Il taoismo è arte di stare al mondo, anche perché: “l’arte della vita consiste in una costante adattazione dell’ambiente”; “Per i taoisti il conservare alle cose la giusta proporzione e far posto agli altri senza perdere il proprio, è il segreto del successonel dramma della vita umana”.
Per capire appieno la filosofia del tè quindi, bisogna accettare il principio di Laotsé il quale sostiene che per far parte del tutto bisogna essere il vuoto, proprio come una teiera: “Colui che riuscirà a fare di sé stesso uno spazio vuoto, nel quale altri potranno penetrare liberamente, diventerà padrone di tutte le situazioni”.
Come il bere una tazza di tè è un atto rappresentativo del particolare che ci chiarisce la nostra appartenenza al tutto, l’atto è una cerimonia in un luogo curato, la casa del tè e artisticamente rappresentativo delle forze della natura e del mondo, dove ogni dettaglio è denotativo e figura del cosmo, come i fiori e le piante, elemento essenziale nel giardino della casa del tè, tra lo scorrere dell’acqua e il fruscio del vento (acqua e verde, importante ricordare che sono anche elementi topici del locus amoenus classico). Ciò che sottende la bellezza è un sentimento puro dell’arte dell’esistenza, dove noi stessi siamo le opere d’arte “Il nostro spirito è la tela sulla quale l’artista sparge i colori; le tinte sono le nostre emozioni ed il chiaroscuro è dato dalla luce delle nostre gioie e dall’ombra delle nostre tristezze. Il capolavoro è in noi e noi siamo il capolavoro” (p. 75).
Attraverso l’arte del Tè che stimola l’autocoscienza della vita come momento nel quale siamo protagonisti attivi e interpreti del nostro capolavoro individuale e universale, l’autore ci insegna a seguire l’esempio dei maestri del Tè: “Il loro influsso si sente non solo negli usi della buona società, ma anche nei dettagli della vita domestica. Molti fra i nostri cibi più delicati come pure la nostra maniera di presentare le vivande, sono stati da essi inventati . Ci hanno insegnato a non vestirci che di tinte scure. Ci hanno anche insegnato la speciale disposizione di spirito con la quale ci dobbiamo avvicinare ai fiori. Hanno rafforzato la nostra disposizione naturale per la semplicità, ci hanno rivelato la bellezza dell’umiltà. Ed è grazie al loro insegnamento che il tè è penetrato nella vita del popolo.
Coloro che fra noi ignorano il segreto di adeguare la propria esistenza al tumultuoso mare di insensate inquietudini che noi chiamiamo vita, vivono in istato di perpetua sofferenza, anche se invano, si sforzino di apparire felici e soddisfatti”.
Al di là di concezioni e posizioni culturali e filosofico-religiose che possono sembrare insolite o quanto meno distanti dal nostro modo di pensare, a mio avviso la lettura di questo libro può servire per renderci consapevoli di come dobbiamo pensare la vita nel dettaglio di ogni istante che viviamo. Non è sbagliato osservare e pensare a tutte le azioni, apparentemente insignificanti, soprattutto quelle automatiche e ripetitive che compiamo in ogni momento, anzi esse possono direzionarci verso la semplicità di un equilibrio permanente e armonico. È proprio questo modo di creare la vita nelle azioni che compiamo in ogni momento che troviamo tutta la nostra felicità, essere contenti di vivere ciascun momento della nostra esistenza, essere il contenitore, ovvero il vuoto di cui parla Lao tse che contiene il tutto. Essere noi il capolavoro della nostra vita. Se poi, noi italiani, abbiamo troppo tè o manchiamo di tè, beh questo credo dipenda dal temperamento di ognuno e dal modo in cui ognuno intende rappresentare il capolavoro della propria vita. Io posso solo dire che questo libro ci può avvicinare verso la consapevolezza di noi stessi e aiutare a conoscerci, per essere piú felici per quello che siamo e per ciò che abbiamo qui e ora. E non è poco.
L'autore
- Guido Alberto Bonomini, è nato a Roma e insegna Lingua e Letteratura italiana presso l’ Universidade Federal Fluminense (UFF) di Niterói, Rio de Janeiro, dal 2002. Proviene dalla Sapienza di Roma, dove ha seguito i corsi di filologia romanza col prof. R. Antonelli ma si è poi laureato in Letteratura Brasiliana con la Prof. Luciana Stegagno Picchio. Ha un Master in linguistica applicata ottenuto presso l’Universidade Federal do Rio de Janeiro (UFRJ) e un dottorato in Letterature Comparate della Universidade Federal Fluminense (UFF). Si occupa prevalentemente di studi storici linguistici e teoria della traduzione.
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