«A volte mi piace vedere la storia del rock’n’roll come l’origine della tragedia greca, che iniziò su piccoli spazi all’aperto nelle stagioni cruciali e all’inizio era un gruppo di fedeli che ballavano e cantavano. Poi, un giorno, una persona posseduta emerse dalla folla e cominciò a imitare un dio». Così si esprimeva Jim Morrison, l’icona del rock americano fra gli anni ’60 e ’70 e leader dei Doors, pensando alla tragedia greca (S. Davie, Author of Hammer of The Gods, London 2004, p. 246). In queste poche frasi egli condensa un parallelo tra due generi letterari e musicali, immaginandone percorsi comuni. La tragedia greca si sviluppò tra sesto e quinto secolo a.C., mentre la musica e gli spettacoli rock dal secondo dopoguerra hanno attraversato le mode musicali e il costume fino ai giorni nostri. Una simile interpretazione dell’origine della tragedia è di estremo interesse, soprattutto perché instaura una comparazione tra due generi apparentemente distanti e diversi. Eppure, il confronto è pertinente, perché molti sono i presupposti comuni.
In primo luogo gli spazi dove nascono sono quasi simili. Si tratta di zone aperte e marginali, agresti per certi versi. Questo significa che entrambi condividono un’origine popolare e periferica, per poi urbanizzarsi e diventare forma di critica e di contestazione.
Secondo la Poetica di Aristotele (Poetica 1449a 9-14), una delle testimonianze più credibili, la tragedia greca sarebbe nata da «quelli che intonavano il ditirambo» che era un canto in onore di una divinità agreste, Dioniso. Venerato, infatti, dalle classi popolari e ai margini delle divinità olimpie, Dioniso era un dio dei prodotti umidi della natura (gli alberi da frutta) e quindi del vino. Dai suoi culti sarebbe derivata la tragedia greca, e ciò confermerebbe la sua natura popolare.
Una teoria sulla filiazione della tragedia greca dal dionisismo era già stata formulata un secolo prima da F. Nietzsche nella sua Die Geburt der Tragödie, un saggio molto affascinante che però non aveva avuto fino agli anni ‘60 la giusta considerazione tra gli studiosi del teatro greco e tra i filologi classici. Sappiamo di certo che Jim Morrison aveva letto e studiato con interesse il filosofo tedesco restandone, profondamente influenzato. Secondo J. Rocco (The Doors Companion: Four Decades of Commentary, New York, Schirmer 1997, p. XVIII), «Jim Morrison was probably the most effective populariser of Nietzsche in the twentieth century», fu lui che aprì le porte alla conoscenza del filosofo, tenuto ai margini fino ad allora per numerosi pregiudizi.
Per Morrison la tragedia e il rock avrebbero avuto inizio da canti e balli. Già Nietzsche aveva sostenuto che, attraverso il canto e l’arte coreutica, l’uomo rivela la sua appartenenza a una comunità superiore: il suo passo non è quello usuale del camminare, ma si presenterebbe come un’elevazione, una salita verso le cime più alte. E in queste occasioni risuonerebbe in lui «qualcosa di sovrannaturale», si sentirebbe come un dio, nel rapimento e nell’elevazione. Il linguaggio espressivo della danza nel mondo dionisiaco antico e nella musica rock rappresenta il tentativo umano di accedere a una sfera superiore.
La danza, inoltre, non solo eleva l’uomo a una sfera celeste, ma gli consente di sperimentare, anche in uno spazio di tempo ristretto, quel recupero dell’unità primigenia dalla quale proveniamo e alla quale nostalgicamente tendiamo. La sacralità consiste proprio nel recuperare questa condizione, l’unità dispersa nella frantumazione del presente. Rivivere questa dimensione significa ritrovare l’Uno e quindi il Divino.
Nella sua ipotesi sull’origine del rock e della tragedia, inoltre, Jim Morrison parla di «stagioni cruciali» entro le quali si sarebbero verificati i primi fenomeni. In maniera più chiara, Nietzsche aveva spiegato quali fossero le situazioni in cui si risveglia questo bisogno ancestrale di ricongiungersi in una unità originaria: «sia sotto l’influsso della bevanda narcotica, di cui parlano negli inni tutti gli uomini primitivi, oppure al violento approssimarsi della primavera che pervade gioiosamente l’intera natura, si risvegliano quegli istinti dionisiaci che, aumentando d’intensità, fanno svanire l’elemento soggettivo in una totale dimenticanza di sé» (cap. I).
L’istinto dionisiaco di riconnettersi all’unità attraverso i rituali emerge o sotto l’influsso di bevande narcotiche, in particolare il vino che è prodotto della sapienza del dio, o nelle atmosfere primaverili, quando il ridestarsi dell’intera natura favorisce l’oblio di sé e il recupero di una dimensione collettiva. Questi due fattori rimandano sempre a situazioni rituali. In particolare, il vino nel mondo antico era sempre iscritto in riti condivisi, ben differenti dall’impiego individuale e distruttivo delle epoche recenti. Quello a cui pensano Nietzsche e Morrison sono proprio le feste pagane del risveglio della natura che hanno segnato e scandito le religioni di molti popoli antichi.
In una poesia Morrison celebra questo istinto:
Droghe sesso ubriachezza battaglia
regressioni al mondo d’acqua
Ventre marino
Madre dell’uomo
Mostruoso dormi-veglia gentile brulicante
mondo atomico
Anomia della vita sociale
come possiamo odiare o amare o giudicare
in un mondo che è un mare di atomi sciamanti
Tutt’uno, un Tutto
Come possiamo stare o non stare al gioco
Come possiamo mettere un piede avanti all’altro
o far la rivoluzione o scrivere
Di un certo rilievo è l’elemento acqueo che favorisce questo bisogno di riconciliazione con la natura e di obnubilamento del sé nel magma del «Tutt’uno». L’acqua, come liquido amniotico, rappresenta non solo la regressione alla vita uterina ma anche un superamento del «brulicante mondo atomico», origine dell’infelicità. Nelle feste del risveglio della natura, quindi, l’uomo recupera questa dimensione primigenia, dopo aver sperimentato il baratro di solitudine e di morte, nel quale sprofonda dopo aver preso coscienza della sua individualità.
In questo senso, i concerti di Morrison si configuravano come veri rituali pagani, tesi a restituire e recuperare questa condizione totalizzante. I suoi spettacoli sono stati definiti, infatti, rituali rock-sciamanici, perché si presentavano come evocazione di forze ancestrali attraverso danza e canto da parte di un «sacerdote» che dal palco eseguiva e dirigeva un rituale orgiastico. Quello che accomuna lo spettacolo tragico a un concerto di Morrison è del resto la trasfigurazione del protagonista sulla scena, cioè la sua trasformazione in un personaggio leader carismatico, sciamano, officiante. Del resto, il teatro greco classico rappresenta la prima occasione di trasformazione dell’uomo (attore) in un eroe, è stato il primo momento in cui, contro e a differenza della poesia epica, a narrare i fatti era il protagonista stesso che parlava attraverso la voce e il costume dell’attore. Secondo Nietzsche (cap. VIII), il dramma aveva rappresentato questa consistente novità di trasformare il poeta in attore, che impersonava il protagonista della vicenda. Prima di allora nessun poeta, nessun artista, si era fuso con le sue immagini: c’era qui un annullamento dell’individuo «per l’ingresso in una natura estranea».
Alterità, danza e canto consentivano, inoltre, di guardare e accettare il dolore,senza evitarlo: era questo il senso dei rituali dionisiaci, della tragedia greca prima e del rock poi. Il dolore è parte della vita, è un suo fattore necessario. Dimenticarlo, tentare di superarlo, rifugiarsi nel mondo apollineo dei sogni è solo un limite dell’animo umano, ma certamente non è un modo per liberarsene. La tragedia greca ci ha insegnato come si possono affrontare le sofferenze in una cornice gioiosa quale era la festa in onore di Dioniso. Nel quinto capitolo della Nascita della tragedia, Nietzsche ricorda come gli artisti apollinei, nel caso specifico sia lo scultore sia il poeta epico, sono immersi nella pura contemplazione delle immagini. Invece il musicista dionisiaco, che non produce immagini, è «solo e interamente dolore primigenio e sua risonanza». La musica e l’ebbrezza che sono espressione del dionisiaco, sono visione totale e disincantata della vita, non costruzione artificiale di visioni alternative, per questo sono pura contemplazione di tutto quello che all’uomo accade, senza disincanto, compresa la sofferenza. Ed è nei canti popolari che rivive questo spirito disincantato della contemplazione della sofferenza.
Come nella tragedia greca il male diventa una forma di spettacolo in onore al dio della gioia, così nella musica dei Doors ci sono canzoni che celebrano la violenza e la morte in forme gioiose. Per esempio in Peace Frog, in stile funky Jim Morrison canta e ricorda non solo una strage avvenuta a Chicago durante una manifestazione di protesta alla Convention nazionale del Partito Democratico, ma anche il sangue copioso versato sulle strade americane ai tempi della costituzione della nuova Nazione.
Il dionisismo, in definitiva, ci induce a riflettere sul male come qualcosa di necessario, cioè di connaturato all’esistenza, difficilmente evitabile. Lo spettacolo tragico era per questo una purificazione delle emozioni che non riguardava il pubblico, ma i personaggi della scena. La musica, la danza, la recitazione, in definitiva, costituivano lo spettacolo dionisiaco della accettazione del male e della sofferenza. Consapevole di questo, Morrison disse in un’intervista a Richard Goldstein del New York Magazine: «c’è una teoria sulla natura della tragedia secondo la quale Aristotele non intendeva destinare la catarsi al pubblico ma agli attori stessi, come purificazione delle emozioni. Il pubblico è solo un testimone dell’evento che accade sul palcoscenico». Era proprio la musica a possedere in sé una forza catartica; e raccontare in quel modo il male e le sofferenze aveva in sé una funzione liberatoria, e quindi forniva la capacità della loro accettazione.
In una sua poesia, Morrison ricorderà quanto sia importante per l’uomo ogni forma di rituale dionisiaco di cui la musica rock non è altro che l’incarnazione più moderna e, forse, più estrema:
Alla gente servono Connettori
scrittori, eroi, divi,
guide (…)
Cerimonie, teatro, danze
Per ribadire Bisogni tribali & memorie
una chiamata al rito, in comunione
superiore, un rovesciamento,
un anelito alla famiglia & alla
magica sicurezza dell’infanzia.
Quello che lo spettacolo fornisce è una catarsi che assume la forma della consolazione, del ritorno all’infanzia. Attraverso le parole e i gesti rituali del cantante, si recupera quell’anelito a partecipare a una comunità superiore, un rovesciamento delle logiche usuali e della vita comune, l’approdo a una sicurezza originaria. E la tragedia greca avrebbe favorito di pari passo anche l’insorgere della libertà di parola e una liberazione del linguaggio, aprendo e promuovendo quella percezione delle profondità della natura umana, troppo a lungo ingabbiate nei principi, non sempre confortanti, dell’apollineo.
Attingendo all’orgia di emozioni che incalza, i partecipanti ai riti dionisiaci sperimentano che cosa significa sentirsi a uno stadio divino, non quello immaginato nella dimensione del sogno, ma quello vissuto realmente. Dioniso, non a caso, per i greci era il dio che entrava nel corpo dei suoi fedeli attraverso il vino, consentendo un’alterazione della propria natura. Si parlava di enthousiasmós proprio a indicare questa fase transitoria che concedeva un superamento dei limiti umani. Dioniso «possiede» i partecipanti al rito attraverso la mania, che Platone del Fedro (265a 5-b 3) definisce telestica, cioè connessa ai riti misterici.
Il rituale che il rock voleva riprodurre era proprio quello dei culti dionisiaci, che garantivano ai partecipanti l’espressione del divino insito nella natura umana, in sostanza la capacità di accogliere e assecondare la sua presenza.
La tragedia greca nata da culti dionisiaci, ne era il precipitato, una forma di rito dionisiaco che consentiva l’accesso a questa sfera precivile, autentica, per certi versi divina. Non a caso in una delle sue lapidarie affermazioni, Morrison condensò la sua visione liberatoria della musica e della tragedia greca: «Facciamo appello agli stessi bisogni umani della tragedia e dei primi blues del Sud». La sua idea è che ci troviamo in un ambiente ostile alla vita, freddo, e che sentiamo il bisogno di mitigare e allontanare il «morto» attraverso canti, danze e musica. Sarebbe questo un rimedio contro la malattia e un tentativo di curarla. Dioniso che era morto e poi rinato, aveva attraversato le fasi del dolore umano e aveva insegnato agli uomini a trovare un rimedio attraverso il rituale del vino, del canto e della danza.
L'autore
- Donato Loscalzo insegna Letteratura greca presso l'Università degli Studi di Perugia.
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