Avete presente l’olio su tela di Edward Hopper Railway Sunset che fissa quel momento del tardo tramonto in cui i colori assumono, per un istante, la più forte intensità, il più intenso barlume? «La luce del tramonto si riflette sulle due rotaie che corrono parallele: su di esse, a ben guardare, si ritrovano riflessi qua e là gli stessi colori dell’orizzonte. Un effetto espressionista del colore che svela una natura apparentemente incontaminata», secondo la curatrice del catalogo espositivo su Hopper, Elena Pontiggia. Una natura incarnata da uno sguardo che immobilizza e produce un effetto di straniamento nell’osservatore. Lo stesso effetto pietrificante degli occhi curiosi della foto qq ideata da Francesco Sanesi. Un click, suono rarefatto dell’articolazione avulsiva, offre l’idea precisa dello strappo, del distacco. Uno sguardo meduseo che costringe all’immobilità e vuole cogliere l’essenza, l’immutabile, l’inaspettato, che punta direttamente alla spiritualità della natura visibile per strappare una confessione.
Uno sguardo enigmatico spicca sulla cover di Stoner. Il libro di John Edward Williams viene pubblicato il 12 giugno 1965 per i tipi della Viking Press, suo terzo romanzo che segue Nothing but the night (1948) e Butcher’s Crossing (1960), romanzi intervallati da due raccolte poetiche: The Broken Landscape (1949) e The necessary life (1965). La versione in italiano, che mantiene il titolo originale in inglese Stoner (Fazi Editore, 2012), narra la vita romanzata dell’accademico William Stoner e viene classificato come un romanzo di interesse prettamente accademico o un campus novel.
Considerato un perdente, sperduto, che rifiuta di lottare per la patria, con un fallimento matrimoniale alle spalle, mortificato per anni per la sua incapacità di interagire, Stoner è un professore d’inglese giunto nell’autunno della sua vita, in quell’età virile in cui vede il sole volgere all’occaso e a poco a poco viene inghiottito dalla notte buia. Il fuoco, che fu suo nutrimento, lentamente perde vigore estinguendosi fra le ceneri della sua gioventù. Una vita consumata in un groviglio di desideri, impedimenti e compromessi, che potrebbe somigliare a quella di ognuno di noi. Eppure Williams, scrittore insignito nel 1950 del titolo Master of Arts all’università di Denver, ambisce a sconcertare proprio nella languida ordinarietà del soggetto, oggetto, della propria vita. Una vita penosa, ma degna di essere vissuta. Anzi, proprio nel momento della dipartita, lo scrittore enfatizza il bisogno di «amare impetuosamente, sentire forsennatamente»: non c’è altra via, né altra vita.
È, dunque, questa, la saggia lezione di Stoner, l’ardito John Williams che si cala nei panni dell’umile William Stoner? Ciò che rende una vita degna di essere vissuta è il coraggio, la pazienza e l’umiltà eroica che la qualifica tra i comuni mortali. È tutta qui la vita, riassunta nella prima pagina del romanzo di un uomo che vive appassionatamente e banalmente si dissolve nell’ordine universale.
«La saggezza di Stoner» afferma Barbara Carnevali nel volume collettaneo da lei curato (Fazi Editore, 2016) «non conosce Dio ma nasce dalla conoscenza dei limiti del proprio sapere. È una morale dell’immanenza che trova il suo fondamento normativo nell’idea di natura, presupponendo una continuità immediata tra la fisica e l’etica». Stoner, infatti, si eleva dalla cura della terra alla cura dell’anima, contemplate entrambe come scienze del còlere. Attraverso questa ascesa Stoner comunica un’idea di cultura come «una natura in forma riflessiva».
Quarantun anni dopo l’uscita del libro nel 1965, il riscatto glorioso: Stoner pietrifica il pubblico quando critici e scrittori sanciscono all’unisono la saggezza e la maestria. Grazie alla nuova edizione nella collana dei classici della New York Review of Books nel 2006 e alla traduzione francese curata da Anna Gavalda nel 2011, Stoner diventa un vero e proprio bestseller. Il nome dell’eroe di Williams non allude a un tossico in stile anni Sessanta (“stoner”, in inglese, è termine popolare per “drogato”), ma la radice stone allude al habitus inibito e represso di un umile asceso socialmente grazie agli studi. Da uomo modesto, mediocre – Uomo Qualunque – Stoner viene elevato a «essere umano di grande nobiltà», un classicista, filologo e ricercatore universitario dalla veste plumbea e malinconica. McEwan loda una «prosa limpida come il vetro», Kreider il suo linguaggio «austero, asciutto, preciso», Wells la sua lingua «chiara, priva di pretenziosità e di orpelli».
Il personaggio acquista man mano complessità e profondità grazie alla sua opacità: egli si staglia nella luce della sua «religione» dell’arte. La mediocrità di Stoner, eroe o antieroe immerso nel suo mondo universitario, rappresenterebbe la continua lotta tra l’accademia e il mondo esterno, innescando una dura guerra psicologica, peggiore di quella al fronte. Può essere letto come elogio della lentezza, incarnando quella resistenza umana, passiva ma efficace, alla negatività della vita; un omaggio alla bellezza, un’arte della gioia incentrata sull’accettazione della contingenza.
Riflettete Gorgo per il tramite della saggezza e avrete l’immagine di Medusa, custode dei visionari. Stoner, opera-riflesso, insegna a guardarsi in faccia e far vedere agli altri le melanconie di uno studente che diventa professore nella sua stessa università. Il titolo già svela lo stato catatonico, to stone to death. Senza cadere nello svenevole, il silenzioso Williams anticipa tutto a pagina 20, quando il professor Archer Sloane ripete in aula i versi del sonetto 73 di Shakespeare, con un tono più piatto, il suo tono di sempre.
Questo che tu vedi, che fa il tuo amore più forte,
a degnamente amare chi presto ti verrà meno.
Stoner trattiene il fiato, la sua anima fuoriesce dal suo corpo e, mentre la luce entra di taglio dalle finestre, lo sguardo si posa sui volti dei compagni che parevano illuminarsi dall’interno, stagliandosi nel buio. Mentre lo sguardo del giovane studente diventa vitreo, il ritmo del cuore del lettore diventa quello piatto dell’elettrocardiogramma. Shakespeare ci parla attraverso tre secoli di storia e, mentre noi perdiamo il filo del discorso, scorrendo le pagine del romanzo, non ci accorgiamo che l’ora di lezione del professor Sloane è finita.
«Le parole sono pietre», direbbe Carlo Levi. Un richiamo a cercare cose semplici e modeste con amore, verso tutto quanto è acutamente umano, vale a dire nobile. «L’essenziale è l’amore per la cosa stessa» ribadisce Williams. «Credo che a questo si riduca quello che cercavo di cogliere in Stoner. Devi continuare a crederci. La cosa importante è far sì che la tradizione vada avanti, perché la tradizione è civiltà». L’amore di un filologo per il lavoro ben fatto e per la parola letteraria è la vera chiave del libro. L’istintivo Stoner è essenzialmente un uomo innamorato, che sa cogliere la grazia in un breve periodo della sua vita trascorso per sussulti e strappi. Lo fa con implacabile chiarezza nello stile, una mesta pacatezza dei toni e un tocco vellutato che accarezza anche i cuori meno sensibili.
«Aprì gli occhi. Era buio. Poi vide il cielo all’esterno, il nero-blu profondo dello spazio e il bagliore sottile della luna attraverso una nuvola […] Cosa ti aspettavi? pensò».
È sempre straziante e doloroso leggere le ultime pagine di Stoner, brividi attraversano le dita e percorrono la pelle e le ossa. È un fremito di vita, di carne che vibra e riesce a percepire il peso delicato della luce e dell’ombra sul viso. Come quel giorno nell’aula di Sloane, quando gli sembrava di essere fuori dal tempo e gli pareva di vederselo scorrere davanti come un diorama deformato.
Come il tramonto di Edward Hopper dai colori caldi con la torretta di controllo svettante nel sole ma inaccessibile. Il suo segreto è illuminato ma non svelato. Hopper dipinge un’ora eterna, metafisica, l’ora dell’eternità, direbbe Mendel’štam. L’heure exquise di Verlaine, in cui un senso di riconciliazione sembra avvolgere tutte le cose e il riposo della natura assume la cadenza del riposo eterno. Natura che trionfa e risorge ogni giorno. Stoner, invece, svanisce tra le tenebre, diventando ombra di quella vita che tutto sconfina in pace, ma resuscita ogni volta che il lettore si diletta a rileggere le pagine del libro.
Riprendiamo di nuovo, allora, il capolavoro di John Williams in mano: vale la pena emozionarsi con un romanzo che toglie il respiro.
L'autore
- Ermira Shurdha è nata in Albania nel 1981. Si è trasferita nel 1993 in Italia appena adolescente. Oggi vive con la sua famiglia in Abruzzo, regione eletta per crescere le sue due figlie. Dopo una formazione scientifica si è dedicata alla sua vera passione, le lingue straniere, laureandosi all’Università degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti - Pescara con una tesi sull’opera teatrale di Antonio Buero Vallejo. Nel 2017 ha conseguito una laurea magistrale con una tesi dal titolo “Últimas tardes con Teresa, més que una història”, romanzo eversivo ambientato nella Barcellona degli anni cinquanta di Juan Marsé, Premio Cervantes nel 2008 e prolifico scrittore di testi in castigliano. Ha analizzato l’opera data alle stampe nel 1965, all’interno del contesto storico - culturale catalano, con particolare attenzione al linguaggio musicale e cinematografico, associazioni con la poetica neorealista felliniana, accordando la critica in lingua spagnola, catalana e inglese alla cronaca degli amanti in sottofondo. Sempre attratta dalle tendenze creative del mondo della moda, attualmente gestisce una boutique di abbigliamento fondata nel 1991 a Giulianova.
Ultimi articoli
- In primo piano7 Settembre 2023Sonny Rollins e Lucille Pearson: due vite dentro un archivio
- a proposito di...17 Aprile 2023La poesia del jazz. Dialogo con Attilio Berni
- In primo piano4 Aprile 2023“La forma detenuta”, distillato d’azzurro
- avvenimenti23 Febbraio 2023L’albanese, lingua madre ospite del SalTo 2023