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A proposito de L’illettore di Hermann Burger

Un esercizio di stile, uno dei più complessi realizzati da Hermann Burger: questo è L’illettore, romanzo del 1986, pubblicato in Italia dai tipi dell’Orma nell’aprile del 2017 nella pregevole traduzione di Anna Ruchat ˗ scrittrice e poetessa (si segnala, a tal proposito, la raccolta Geografia senza fiume edita da Campanotto) ˗ che ha già fatto conoscere al lettore italiano opere di autori noti come Thomas Bernhard, Friedrich Dürrenmatt, Elfriede Jelinek e meno noti come la persiana (ma che scrive in tedesco) Sudabeh Mohafez e Mariella Mehr, di etnia Jenisch.

Hermann Burger, figlio di un assicuratore e di un’insegnante, ha studiato prima Architettura e poi Letteratura e Storia dell’Arte a Zurigo (la sua tesi di dottorato è incentrata sull’opera di Paul Celan), tutta la sua esistenza è stata accompagnata da forti crisi depressive e nel 1989 si è tolto la vita ingerendo una dose massiccia di barbiturici. L’illettore presenta i motivi ricorrenti dell’opera di Burger ˗ il male di vivere, la ricerca della solitudine, il suicidio che appare sempre sullo sfondo come unica soluzione ˗ e permette anche di individuare con una certa sicurezza quelli che sono sempre stati i suoi modelli: le pagine dell’illettore, infatti, sono infarcite di richiami ˗ più o meno espliciti ˗ a Thomas Bernhard e Franz Kafka, e omaggiano di tanto in tanto i connazionali Jeremias Gotthelf, Conrad Ferdinand Meyer e Gottfried Keller. Il romanzo, inoltre, si presenta in una forma epistolare di tipo monologico simile al Werther.

Il protagonista di Burger soffre di Leselosigkeit (“condizione di illettura” potrebbe essere tradotto, con un termine di lacaniana memoria), “il morbus lexis mi ha brutalmente strappato alla mia vita di libero lettore, e per una durata che ora appare imprevedibile mi ha gettato sul fondo” (p. 57), è uno sforzo impossibile per la sua mente e per il suo corpo quello della lettura, al punto che è la governante a dovergli declamare le missive che gli invia la “Signora e sovrana di Blankenburg” (p. 7). A noi lettori è dato conoscere, per la forma epistolare monologica del romanzo, solo il contenuto delle lettere del protagonista; le sue parole, tuttavia, sono anche indizi per ricostruire parzialmente quanto racchiuso nelle righe inviategli dalla contessa. Lui vive in una pressoché totale solitudine, in un bugigattolo senza libri ˗ ma questo non gli impedisce di arricchire le sue lettere con citazioni e riferimenti eruditi ˗, lei è la Signora di un’enorme biblioteca che, nel corso del romanzo, passa da 20000 a 50000 volumi. Nel mezzo c’è questa impossibilità di dedicarsi alla lettura che, per stessa ammissione del protagonista, altro non è che una forma alternativa di morte. È così che si può ritenere quest’opera un completamento del secondo romanzo di Burger, Die künstliche Mutter del 1982 (non disponibile in italiano), incentrato sull’impossibilità di scrivere, e che ˗ come nota Peter von Matt in La Svizzera degli scrittori (Dadò editore) ˗ era stato portato a termine in maniera troppo frettolosa. Non riuscire a leggere o scrivere equivale alla morte apparente, o forse ˗ è meglio dire ˗ a uno stato comatoso, se si considera la possibilità di un risveglio che l’autore lascia intravedere. Si può guarire da questo stato vegetativo persistente ˗ è paradossale, ma in Burger il paradosso non deve stupirci ˗ attraverso i libri; nello scantinato dove abita, a Schruns-Grächen ˗ luogo fittizio collocato, come si specifica nelle prime pagine, in Austrizzera (Grächen è effettivamente una località nel cantone svizzero Wallis, mentre Schruns si trova nell’austriaco Vorarlberg) ˗ al protagonista giungono i consigli della Signora di Blankenburg, che ha come modello di vita i princìpi dello Stechlin di Fontane e di Tarda Estate di Stifter, e del suo dottore, che è anche ‘medico curante’ dei libri del castello. Il processo di guarigione inizia con l’invio dei 33 volumi del dizionario dei Grimm, accompagnati da un tomo in cui il protagonista potrà annotare le proprie parole. Il resto è un gioco erudito per studiosi di letteratura e bibliofili, pungolati “dalle sottane oscillanti della letteratura mondiale” (p. 7), gioco che non ha certo agevolato il lavoro della traduttrice, la cui versione risulta comunque scorrevole e di ottima fattura, al di là della condivisibile riserva espressa da Emanuele Trevi (cfr. la sua recensione nel Manifesto del 30 aprile) secondo cui il toponimo Blankenburg sarebbe dovuto rimanere anche in italiano; oltre al nome del luogo si perde, inoltre, la probabile allusione a Christian Friedrich von Blanckenburg, autore della prima teoria del romanzo in ambito germanofono, pubblicata proprio nel 1774, lo stesso anno del Werther. Si potrebbe ancora obiettare che il sottotitolo “una confessione” appare distante dal rendere quello “Zustandsbericht” dell’originale, più simile a un referto medico. Ma si sa, come diceva Borges, l’originale è infedele alla traduzione.

L'autore

Maurizio Basili
Maurizio Basili
Maurizio Basili è nato a Roma nel 1980. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Letterature Comparate presso l'Università degli studi di Cassino e ora è docente a contratto presso vari atenei italiani; si occupa principalmente di Letteratura Svizzera. Ha pubblicato una storia della letteratura svizzera dal 1945 ai giorni nostri, una monografia sullo scrittore svizzero Thomas Hürlimann e saggi su altri autori come, ad esempio, Robert Walser. Inoltre la sua raccolta di poesie Le occasioni v'hanno create ha ottenuto il Premio "Città di Penne-Fondazione Piazzolla" come "miglior opera prima" nel 2010.