Ornella Tajani è ricercatrice in Lingua e traduzione francese presso l’Università per stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di critica della traduzione del testo letterario. Ha tradotto e curato L’aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011, premio di traduzione Monselice “Leone Traverso” 2012), Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese, 2013), La Bounty a Pitcairn di Sébastien Laurier (Nutrimenti, 2018). Al momento sta lavorando alla traduzione delle opere complete di Rimbaud per Marsilio. Il suo lavoro Tradurre il pastiche è uscito per Mucchi nel 2018. tajani@unistrasi.it
Il suo saggio Tradurre il pastiche affronta contemporaneamente una doppia pratica di riscrittura: la traduzione e il pastiche appunto. Ma cosa si intende per pastiche? E quali sono gli esempi più rappresentativi?
Il pastiche è comunemente considerato un genere ibrido, che nell’arco dei decenni ha trovato diverse declinazioni: «singe du Beau» per Victor Hugo, «témoignage de fascination et de démystification» per Roland Barthes, «blank parody» per Friedric Jameson, nell’accezione postmoderna, diversa da quella classica. In effetti, per cogliere davvero l’essenza del pastiche, occorre pensarlo come una pratica, piuttosto che come un genere: una pratica imitativa. Laddove un genere è codificato da norme e definisce il prodotto di un’operazione, il concetto di pratica ha cardini meno rigidi e insiste sulle modalità del processo creativo, piuttosto che sul prodotto finale.
È in questa accezione che io interpreto il pastiche, seguendo principalmente le indicazioni del padre della transtestualità, Gérard Genette – dal quale non manco però di discostarmi – e di Paul Aron, importante studioso di pastiche. Per entrambi, il pastiche per eccellenza è quello dell’Affaire Lemoine di Proust – che difatti è il punto di partenza del mio lavoro -, ossia l’esempio dell’imitazione pura dello stile di un autore. Prima di scrivere la Recherche, Proust imita gli autori più amati, fra cui Balzac, Flaubert, Saint-Simon, per liberarsi dall’influenza del loro stile e trovare infine la propria, personalissima voce; in fondo, per lui il pastiche è una sorta di rimedio omeopatico.
In Francia la tradizione del pastiche è molto radicata e tuttora viva: se dal XVII secolo in poi il pastiche diventa un esercizio scolastico (l’imitazione dei grandi autori latini e greci), oggi numerosi sono i blog amatoriali in cui comuni lettori si dedicano alla pratica del pastiche, e non pochi sono i concorsi di scrittura mimetica periodicamente banditi. Dopo Proust, nel corso del Novecento la coppia di pasticheurs formata da Paul Reboux e Charles Müller contribuisce a rendere tale pratica popolare attraverso le varie raccolte A la manière de…, in cui i due imitano i grandi scrittori francesi. Va detto che Reboux si dedica perlopiù a composizioni dissacranti, laddove la pratica del pastiche classicamente inteso si avvicina più all’omaggio che alla presa in giro: è il caso dei testi che formano il corpus da me scelto, a partire da Proust e dal pastiche rimbaldiano Les Veilleurs di Robert Desnos. Più ambigui negli intenti, ma comunque più orientati verso un esercizio ammirativo, sono La Chasse spirituelle, altro celeberrimo pastiche rimbaldiano da me analizzato, presentato al pubblico come un inedito ritrovato nel 1949, e Vocalisations, il pastiche lipogrammatico di Georges Perec contenuto nel suo romanzo La Disparition.
Il pastiche e la traduzione hanno anche una funzione interpretativa. Ma sotto quale aspetto se ne differenziano?
Comincio con il dire che la definizione del pastiche come «pratica» mi ha permesso immediatamente di associare questo tipo di componimento alla traduzione, anch’essa intesa negli stessi termini da vari studiosi, fra cui Jean-René Ladmiral; come detto sopra, tale definizione consente di sottolineare l’importanza del processo dell’operazione, impossibile da imbrigliare in norme prestabilite. Corollario di tale impossibilità è la necessità di considerare ogni testo da tradurre nella sua specificità, in modo da trovare un approccio alla traduzione che sia adatto a quell’opera in particolare. È chiaro, dunque, che per far ciò il traduttore ha bisogno di entrare nel testo da tradurre, per comprenderlo profondamente, “dal di dentro”, e dunque necessariamente interpretarlo. La storia della traduzione è ricca di citazioni più o meno brillanti che sottolineano l’aspetto ermeneutico della traduzione: piuttosto che proporne qualcuna, preferisco fare un esempio concreto. Lo traggo dal volume Dire quasi la stessa cosa di Umberto Eco: «Call me Ishmael». Cosa racchiude lo straordinario incipit di Moby Dick? Questa frase significa forse «Chiamatemi Ismaele, sebbene in verità io mi chiami diversamente»? Oppure «Chiamatemi Ismaele, tanto poco conta ai fini della storia»? O ancora: «Chiamatemi per nome, fidatevi di me, consideratemi un amico»? A seconda di come interpreti l’incipit, il traduttore sceglierà la soluzione da adottare (se ne attestano almeno quattro differenti per l’incipit melvilliano in italiano), restituendone un senso diverso. Si vede così in che misura tradurre è interpretare.
Anche il pastiche è un esercizio ermeneutico: è un aspetto che tratto ampiamente nel mio volume. In questa sede basterà ricordare ciò che scriveva Proust in una lettera a Robert Dreyfus del 1908: per lui la ragione primaria alla base della composizione dei pastiches stava, da un lato, nella «paresse de faire de la critique littéraire»; dall’altro, nel piacere di dedicarsi a una «critique en action». Per imitare un autore, bisogna necessariamente studiarlo in modo approfondito, coglierne gli stilemi, i tic, le strutture sintattiche ricorrenti, le immagini preferite, in modo da poterli riprodurre e rendere riconoscibili al lettore, che fruirà con più o meno diletto del pastiche proprio sulla base del grado di riconoscibilità dell’autore pastiché.
Naturalmente pastiche e traduzione sono due pratiche di riscrittura ben distinte. Seguendo Genette, il pastiche è legato all’ipotesto originario da una relazione imitativa, mentre la traduzione intrattiene con il testo di partenza una relazione trasformativa – a partire dal passaggio da una lingua all’altra. Nell’ambito di questo studio, il mio obiettivo è stato però quello di sottolineare le affinità fra le due tipologie testuali – e l’esercizio ermeneutico ch’esse comportano –, piuttosto che metterne in rilievo le differenze. Evidenziare i punti di contatto è stata un’operazione propedeutica all’analisi del principale oggetto del saggio, ossia la traduzione del pastiche, che si rivela essere un connubio fra le due pratiche, una sorta di «trasformazione imitativa» – o di “traduzione al quadrato”, dal momento che il pastiche può già essere inteso come una forma di traduzione intralinguistica: una traduzione, cioè, nella “lingua” usata dall’autore imitato.
Che rapporto c’è tra il binomio autore-traduttore e quello autore primario-autore pastiche?
È chiaro che fra i due c’è una certa simmetria: potremmo dire che il traduttore sta all’autore come il pasticheur sta all’autore pastiché. Con Lawrence Venuti, sono pienamente convinta dell’autorialità «derivata e non auto-originante» rivestita dal traduttore di un testo, del suo ruolo di co-produttore in grado di esplorare, attraverso il proprio lavoro, «ce surplus de sens qui habite une œuvre», per riprendere le parole di Ladmiral. Si vede subito come tale forma di co-autorialità investa anche la relazione fra pasticheur e autore pastiché. Ciò che mi ha spinta a interrogarmi sulla traduzione del pastiche è stata anche questa affinità relazionale fra le varie figure chiamate in gioco; inoltre, laddove l’autore di pastiche, al momento della stesura, fa necessariamente della «critique en action», per riprendere l’espressione proustiana, il traduttore di pastiche si ritrova quasi inevitabilmente a fare della riflessione traduttologica, per via nei numerosi nodi che questa pratica lascia affiorare, e che ho provato a discutere in questo lavoro.
In che modo la «voce del traduttore» si pone di fronte a un testo pastiche e invece rispetto agli altri (cioè ai testi non-pastiche)?
La peculiarità della traduzione del pastiche sta nel fatto che il traduttore deve confrontarsi non solo con la voce dell’autore (il pasticheur), ma anche con quella dello scrittore pastiché – nonché con le eventuali, precedenti voci italiane di quest’ultimo. I pastiches proustiani in italiano da me analizzati, ad esempio, contengono la voce di Proust, quella di Balzac, la voce di Proust in italiano (cioè quelle di Ginzburg, Raboni, ecc.), le voci di Balzac in italiano, oltre alla voce propria di chi traduce. Come si pone il traduttore davanti alla scommessa di tradurre una tale polifonia? Gli tocca giocare, fare un po’ l’acrobata – e, così facendo, mettersi in mostra anche più di quanto faccia in altri tipi di testo; nel libro l’ho spiegato riallacciandomi agli studi di Theo Hermans. Va anche detto che il lettore di pastiche, per via della stessa natura mimetica del testo, è più portato a riflettere sulla “voce” che legge, essendo già consapevole che, all’interno di quel testo, si celano identità diverse; e dunque è spontaneamente più attento alla funzione della traduzione.
Chi traduce una scrittura mimetica può permettersi maggiori «infedeltà creative» (l’espressione è di Borges), détours intertestuali, esasperazioni dello stile, degli stilemi; pur rispettando sempre il contrat de pastiche, può, insomma, osare di più. Si traduce una riscrittura, non una scrittura; il traduttore finirà inevitabilmente per fare del pastiche a sua volta. Tenderei quindi a considerare la traduzione del pastiche come una di quelle «traduzioni estreme» di cui parla Franco Nasi in un suo lavoro del 2015, ossia quelle «traduzioni pericolose, nelle quali il traduttore deve non solo mettersi in gioco, come avviene sempre nelle traduzioni, ma scendere in campo facendosi notare assai più di quello che, per statuto e indole, vorrebbe».
Quali sono i problemi maggiori di tradurre il pastiche, soprattutto rispetto ai casi studio presenti nel volume? E quali sono gli strumenti linguistici e teorici del traduttore di pastiche?
Questo volume nasce da un’esperienza pratica di traduzione: quella che ha riguardato la versione in italiano, poi pubblicata sulla rivista “Testo a fronte”, di quel dialogo burlesco, travestimento pastiché di una poesia di Rimbaud, che va sotto il titolo «Une soirée mémorable», scritto da Jean Cocteau e Raymond Radiguet. In quella occasione si posero fin da subito alcune questioni: come consentire al lettore italiano il riconoscimento dell’ipotesto rimbaldiano? Sulla base di quale traduzione italiana della poesia di Rimbaud bisognava ricreare quel pastiche mai tradotto prima? E come regolarsi, invece, se la traduzione preesistente del vero componimento rimbaldiano non avesse consentito i giochi linguistici peculiari del testo di partenza?
Questi sono solo alcuni degli interrogativi che la traduzione di un pastiche può sollevare. Nel caso dei pastiche di Proust, ad esempio, è stato interessante porre in rilievo la questione della traduzione del balzaquème (cit. Genette), ossia di uno stilema tipico di Balzac; la traduzione del pastiche flaubertiano ha invece evidenziato la cura di Proust (e del suo traduttore Giuseppe Merlino) nell’attenzione volta a esasperare, ad esempio, il ritmo ternario e le strutture sintattiche preferite dall’autore. Come già detto, al traduttore di pastiche occorre conoscere approfonditamente sia il testo da tradurre, sia l’ipotesto di partenza, ai fini di trovare il giusto approccio al compito da svolgere, un approccio che, come per ogni tipo di traduzione, varia di opera in opera. Studi critici sul pastiche, sull’autore pasticheur e sull’autore pastiché, uniti a un confronto con le precedenti traduzioni dell’autore oggetto di imitazione: sono questi gli strumenti di cui si avvarrà il traduttore di pastiche.
Esiste “un angolo cieco” della traduzione?
Se per “angolo cieco” intendiamo difficoltà apparentemente insormontabili – e in un primo momento invisibili -, mi viene da rispondere che la via della traduzione è piena di angoli ciechi… Del resto, fra tutte le immagini possibili per rendere l’idea della traduzione, la mia preferita resta quella del percorso da compiere, dell’avvicinamento a una alterità. Mi è capitato in più di un’occasione di associare la riflessione traduttologica al campo della prossemica, quella parte della semiologia consacrata allo studio del significato assunto dalla distanza che l’individuo frappone tra sé e gli altri – e nel mio volume dimostro come anche la pratica del pastiche sia, in fondo, un esercizio di prossemica. Seguendo questa scia, si potrebbe concepire la traduzione come una poetica della distanza, dove per «poetica» intendo, sulla scorta della definizione di Luciano Anceschi, poi ripresa da Emilio Mattioli, la riflessione che i traduttori conducono sul loro fare traduzione, sulle modalità che adottano per adempiere il loro compito di mediatori, senza mai dimenticare che non esiste la traduzione perfetta o totale: la distanza fra il testo di partenza e quello d’arrivo c’è, è un fatto, la loro stessa terminologia lo indica, perché include l’idea di movimento; tale distanza va resa manifesta e non nascosta, come insegna Meschonnic. In fondo, la traduzione somiglia al processo di conoscenza dell’altro: l’alterità deve restare tale, utopico pensare di poter ridurre l’altro allo stesso. Questa però non vuol essere una conclusione negativa, al contrario: personalmente nutro completa fiducia nella possibilità e nella necessità della traduzione – intesa, appunto, come un esercizio della giusta distanza.
L'autore
- Giulia Falistocco è dottoranda presso l’Università degli studi di Perugia. Si occupa di romanzo storico italiano, con particolare attenzione all’opera di Vincenzo Consolo, Elsa Morante e Tomasi di Lampedusa, e di serialità televisiva. Ha pubblicato articoli usciti in rivista e in volume; ha inoltre partecipato a convegni internazionali. Dal 2016 è redattrice de La Letteratura e noi.
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