Stefano Dal Bianco (Padova 1961) insegna «Poetica e Stilistica» all’Università di Siena. Libri di poesia: La bella mano (Crocetti 1991), Stanze del gusto cattivo (in Primo quaderno italiano, Guerini e associati 1991), Ritorno a Planaval (Mondadori 2001; LietoColle 20182), Prove di libertà (Mondadori 2012). Dal 1986 al 1989, con M. Benedetti e F. Marchiori, ha diretto la rivista «Scarto minimo». Dal 1992 al 1994 è stato nella redazione di «Poesia». Come studioso e critico militante si è occupato prevalentemente della metrica di Petrarca, Ariosto, Andrea Zanzotto e di poesia del Novecento. Di Zanzotto ha curato il Meridiano Mondadori nel 1999 (con G.M. Villalta) e l’Oscar Tutte le poesie (2011).
Lei ha parlato del silenzio in poesia e di fatica: la mia idea di questo silenzio in poesia è appunto legato al concetto di fatica. La scrittura deve comportare fatica per portare un raffinamento. Questi silenzi possono essere i silenzi che si creano nella lettura, che servono per metabolizzare un concetto denso. Creare questo effetto vuol dire creare, in qualche modo, poesia?
Diciamo di sì. Il mio amico Fernando Marchiori un po’ di anni fa ha scritto un libro in cui parlava anche di questo [Negli occhi delle bestie, Carocci, 2010]. Il tema era quello dello sguardo animale, e prendeva l’avvio da una figura che,se ricordo bene, viene da Proust: è l’atto di fermarsi, nel leggere, e sollevare gli occhi, di guardare nel nulla, in un altrove rispetto al libro che si ha sotto; e lì succede una serie di cose – probabilmente è in quel momento che interiorizzi il senso profondo della lettura, che è fatto di vuoto. Effettivamente credo che l’azione della poesia sulle persone avvenga in un modo simile, nel momento in cui ti fermi e pensi alle cose tue o non pensi a nulla. In quel momento ti arriva qualcosa dentro. Non so se questo abbia a che fare con la fatica, che è un tema più generale e coinvolge tutto, non solo la scrittura. Ciò che ci costituisce davvero, ciò che davvero abbiamo interiorizzato, è soltanto ciò per cui abbiamo impiegato della fatica. Le cose che non abbiamo fatto fatica a raggiungere non restano.
Oggi parlava delle parole e delle cose. Immagino si rifaccia alla chiusura di Ritorno a Planaval, al testo sui sassi.
Sì, anche.
Questa enfasi sulla comunicabilità, trovo che sia necessaria, forse la cosa più necessaria nella poesia di oggi. Cercare una comunicabilità, semplicemente avere la generosità e l’interesse che una persona capisca.
Sì, ma è un discorso a doppio taglio, che andrebbe ripensato in qualche misura, perché la comunicazione in poesia non è mai facile da definire. C’è stato un momento, intorno agli anni ’80, fine anni ’80 e primi anni ’90, in cui il rapporto lettore-scrittore dal punto di vista della poesia era quasi annullato, molto più che adesso. Perché adesso c’è la rete, non si capisce più niente. Allora la questione era proprio quella di reinventarsi un lettore che non c’era più. Fare finta che ci fosse, e parlare a qualcuno. Quindi più che un discorso sulla chiarezza e sulla comunicazione, che può diventare pericoloso, perché si va a parare sui significati, sui contenuti, e quindi si va a perseguire un abbassamento invece che un innalzamento dell’“essere”; più che di quello, secondo me bisognerebbe semplicemente tenere conto del fattore “lettore”: averlo davanti mentre si scrive, parlare a qualcuno. Poi magari parlare in modo criptico, volendo. Però che qualcosa passi.
La poesia si crea anche creando uno spazio criptico che renda difficile la lettura, crei una pausa nel lettore. In quel momento il lettore può riempire questo spazio con il proprio pensiero.
Quello che per anni ho cercato di fare è stato far finta di parlar chiaro e far passare queste altre cose dentro la lingua, e quindi proprio all’insaputa del lettore. Questo ha dato adito a un sacco di fraintendimenti, decisamente. Per colpa mia, ovviamente.
Le hanno detto che era troppo chiaro, troppo piano?
Sì, o che non dicevo niente… Se quello che conta è uno spazio fra vocali e chi legge non lo percepisce… non ci posso fare nulla. Oppure, tantissimi lettori si sono entusiasmati perché si sono riconosciuti in quello che veniva detto e vi hanno trovato un’immediatezza che in realtà non c’è, o almeno non c’è in quel modo, non c’è in quella forma. E quindi fraintendimenti vari, anche in positivo. C’è stata molta gente entusiasta di Ritorno a Planaval, che appunto è un libro molto empatico da questo punto di vista. Poi di sottobanco facevo mille altre cose, ma quelle non son passate, se non presso qualcuno. Quindi quando è arrivato Prove di libertà undici anni dopo (Mondadori 2012) c’è stato un po’ di spiazzamento. Ma lo sapevo, in qualche misura l’ho fatto apposta.
C’è stata da Ritorno a Planaval a Prove di Libertà la progressione dalla forma al senso?
Sì, c’è stata parecchio, anche se alle questioni di forma non si può abdicare perché si tratta della tua voce, e non la puoi scegliere. Puoi tentare di buttarla via, ma rientra dalla finestra. Ciò che accade è che la voce si raffina, senza che nemmeno tu lo voglia, e quello che costruisci formalmente diventa sempre meno percepibile da chi legge, se non per qualcuno, appunto. Non è un problema solo mio, è tipico della maturità di molti poeti. Chissà, per esempio,che cosa ha combinato Montale, in vecchiaia, in quei versi che sembrano così buttati via.
Nel viaggio è un bagaglio che non si perde. Non c’è bisogno di perdere una cosa [la forma] per arrivare a un’altra [il senso].
Lo sforzo è sempre quello di non averla, la forma, uno stile determinato. Però ti resta dentro. La questione dello stile sta tutta lì: quando hai buttato via tutto, quello che ti resta è la tua voce, e quella lì viene fuori per forza, non c’è niente da fare.
Parlava di concentrazione e distrazione: penso che parlasse della poesia Il vetrino, in Ritorno a Planaval, almeno in parte…
Sì, il vetrino è un esempio forse.
Un oggetto assume in sé qualcosa di straordinario, che non ha e che nessuno vede. Come quell’immagine della madre di Roland Barthes [La chambre claire, Gallimard 1980, pp. 99-100], una cosa che posso raccontare, ma non vedrete mai. Però in quanto io la vedo, quella cosa esiste, esclusivamente tramite il mio filtro, il poeta in questo caso è fondamentale, è creatore – veramente – di senso, non è solo un interprete speciale della realtà.
Zanzotto [Autoritratto, 1977], rifacendosi in parte a Rilke, parlava appunto di una crescita della realtà e di una lode della realtà. La poesia è una lode alla realtà, ma contemporaneamente diceva, con un giochino di parole di cui lui era un maestro, è anche un collaudo della realtà. E questa è un’immagine molto bella: mettere alla prova. Che però ha a che fare con una crescita. Certo senza quella componente la poesia non c’è. Questa storia del vetrino è un esempio di concentrazione, sì, di attenzione diciamo. Quella poesia potrebbe essere vissuta più come un fattore di concentrazione che di distrazione effettivamente, anche se il tutto si svolge come una lotta contro la distrazione. Quindi è la distrazione in realtà il tema. Forse.
Tutte le volte che se n’è dimenticato sono poi state concentrate. Ha talmente fatto parte del paesaggio della sua vita quotidiana…
È una vittoria, è una piccola vittoria. Quella poesia, credo che sia quasi famosa, perché sembra un proclama di poetica, o così è stata letta. Non so, un po’ mi infastidisce ormai. Perché in effetti c’è stato un passaggio ai contenuti che non so ancora giustificare. Oppure lo so, ma il passaggio è nei testi. A un certo punto mi sono stancato delle illuminazioni momentanee che mi potevano venire e mi sono bloccato per qualche anno. Quando ho cercato di scrivere qualcosa ho cercato di comunicare cose sostanzialmente non mie con le quali io mi stavo misurando. Nel senso che se uno va a vedere gli esempi di arte antica fino a una certa altezza storica, se si considerano, per esempio, le piramidi d’Egitto, se si considera, forse, un Giotto, se si considera una Divina Commedia, si capisce che dentro c’è la Tradizione con la “T” maiuscola e che l’arte originariamente doveva servire a conservare un sapere. Semplicemente conservare un sapere a cui si aggiungeva, certo, il genio individuale, che interpretava questo sapere in una certa forma, magari metaforica, in qualche modo non immediatamente evidente, e quello era un modo di conservare un messaggio, che è sempre quello, che sta alla base e che precede la nascita di tutte le religioni storiche. È ciò che Elémire Zolla, tra gli altri, chiamava appunto la Tradizione.
È sempre una lotta contro il tempo, anche la metrica. Una lotta contro la disgregazione, contro la mutevolezza inevitabile.
Sì, decisamente. Infatti, il discorso su lirica e società di Adorno va sempre bene. Nel senso che la poesia è comunque contro la società, non c’è niente da fare. Se vuoi salvare qualcosa devi andare contro l’andazzo storico, contro la disgregazione che c’è. E probabilmente c’è da che mondo e mondo.
L'autore
- Dottore di ricerca in Filologia Romanza all’Università di Roma Sapienza e all’École Pratique des Hautes Études di Parigi, sono attualmente WIRL-COFUND Fellow presso l’Università di Warwick. Mi interesso di letteratura medievale e contemporanea italiana, francese e occitana e del rapporto tra poesia e musica.