Enrico Testa nasce nel 1956 a Genova presso la cui Università degli Studi è attualmente professore ordinario di Storia della lingua italiana. Per la Bianca di Einaudi sono uscite cinque sue raccolte di poesia: In controtempo (1994); La sostituzione (2001); Pasqua di Neve (2008); Ablativo (2013), che ha vinto il Premio Viareggio-Rèpaci; e Cairn (2018). Per la stessa collana ha curato nel 2005 l’antologia di poesia Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000. Molto importante anche la sua produzione saggistica, tra la quale ricordiamo: Il libro di poesia. Tipologie e analisi macrotestuali (Il Melangolo, 1983); Lo stile semplice. Discorso e romanzo (Einaudi, 1997); Eroi e figuranti. Il personaggio nel romanzo (Einaudi, 2009).
In Ablativo la figura animale vale per l’io poetante come transitiva «allegoria scaltra» che legge una situazione umana («i cigni feroci disdegnano/ le umili flottiglie delle anatre in fila»; «Un condominio d’uccelli/ in perpetuo movimento/ su cui domina il nobile/ palazzo ligneo della gru»); ma occorre anche come presenza intransitiva ed asimbolica che attesti invece la pura contiguità di ambienti (il porcospino ucciso dalla falciatrice nella traduzione da Larkin) e di codici («il merlo becchetta sul marmo/ la R di FIRPO»). Dove situerebbe la sua lettura dell’animale in uno spettro che, semplificando, abbia ad un estremo la transitività della capra sabiana ed all’altro l’autosufficienza muta della lumaca di Giampiero Neri?
È un’illusione, fondata sul presunto dominio della specie umana sulle altre specie viventi, pensare al mondo animale come ad una realtà passibile di un’univoca lettura. Nonostante tutte le conoscenze scientifiche che noi abbiamo degli animali, essi continuano ad essere a noi misteriosi e sfuggenti e inassimilabili ad un’unica immagine che tutti li comprenda. E allora sono stati volta a volta interpretati in modi talmente diversi da dar origine a visioni opposte: semplice materia, presenza fraterna, figura della minaccia, regione muta, colonia d’addomesticare, altro segnato da un’alterità assoluta, messaggio dell’assente, allusione dall’aldilà. Sarà per questo motivo che non riesco a collocare la lettura degli animali presenti nella mia poesia in una casella precisa. Ora mi appaiono, o mi si presentano, in un modo e ora in un altro. Registro solo la loro variabilità sui miei organi sensibili e mentali; do conto della contraddittorietà dell’univoco. D’altronde mi pare di intuire che la mia scrittura in versi sia una sola somma di elementi in contrasto e in divenire e che non possa avere altra mira se non quella di annotare e tenere a mente i percorsi del mutamento e dell’instabilità (compresa quella dell’io) senza mai presumere d’individuarne una qualche legge.
Le «briciole dimenticate sul pavimento» si cumulano nella sua ultima raccolta in un Cairn tumulare «segnavia e segnavita»: ma la trazzera dei morti è «scivolosa e nera», umida, lutulenta di una fanghiglia frammista di residui organici e parole prelatine. «Nel pantano più umano dell’umano» i morti di fango non si limitano a comunicare attraverso l’erba – come in Seifert ed Ungaretti – ma fanno anche attrito e massa lubrica, costituiscono l’ichetisfera gassosa che pesa sul totale Gewicht der Welt. L’ablativo di allontanamento è ora anche ablativo di abbondanza: cosa ci può dire su questa ritrovata presenza fermentante dei morti e sul nesso ambivalente che essa istituisce colla materia simbolica del fango?
Forse quanto più ci si allontana da sé tanto più ci si ritrova in compagnia (anche se è una compagnia assai stramba); e forse la condizione del difetto dell’io agisce – come spazio aperto e luogo d’entrata – da premessa al sentimento di una più abbondante materia. Sono due aspetti apparentemente ancipiti ma in realtà – proprio nel caso dell’ablativo – compresenti e legati l’uno all’altro. Credo che la rappresentazione o, più umilmente, il tentativo di mettere in versi un qualche rapporto con gli scomparsi debba transitare, ricorrendo per chiarezza a due tipi di tecnica pittorica, non tanto attraverso la modalità lieve dell’acquarello (che pure è stata una modalità efficacissima a tale scopo e che invidio) ma attraverso quello del coagulo dei colori e di altri molteplici materiali sulla tela; e sul testo. Almeno è questa – fatta a posteriori e col senno di poi – la mia opinione di oggi. Legata ad una non so quanto fondata convinzione. Siamo abituati a pensare ai morti affidandoci ai domini del secco (le ossa, la polvere, la cenere) o dell’immobilità (il marmo, la tomba) o dell’aria (ora il cielo ora un improvviso soffio gelido ora il vento che passa) o semplicemente del nulla (lo zero, l’oblio: come si può ricordarli tutti? Sono, anche a restar all’esperienza di una singola persona, non numerabili: una legione). A me pare invece che vivano – anche se il verbo è scioccamente contraddittorio – un’altra condizione: dinamica, inquieta, lievitante, enzimatica. Se io faccio certe cose, commetto certe azioni, opero solo obbedendo al principio di realtà, alle logiche o ai bisogni dei viventi? Certe mosse, benefiche o a me dannose, non possono essere lette come dettate – pur senza pensare d’essere comandati a distanza – dall’imitazione del gesto di un morto indimenticato? dall’impulso che nasce nel ritrovare in qualcuno o qualcosa un qualcuno o qualcosa che è stato? o dalla lezione che ho imparato, o frainteso, vedendo morire? o dal trauma che ho patito e continuo a patire? insomma, dall’immanente agitarsi in me dei morti? Si dirà che questi non sono discorsi da persona normale. È vero, ma forse – pur senza legare, secondo un antico stereotipo, tale fatto alla scrittura in versi – non sono una persona ‘normale’. Non nei luoghi ‘giusti’ ma dislocata e dove non so. Per usare due preposizioni: più tra che, stabilmente, in. Ed è qui che entra in scena il figurante del fango e il suo nesso ambivalente con gli scomparsi: il fango è per lo più percepito come sgradevole, uno scarto della terra, uno stato intermedio tra il solido e il liquido e quindi vischioso e sfuggente. Ma può anche arricchirla, la terra, ed essere fermentante di vita nel momento stesso però in cui rimane sdrucciolevole e infido. Vi si può crescere o scivolar dentro sino ad annegare. Ponendo così possibilità e rischi analoghi a quelli della presenza dei morti.
Nella quarta di copertina di Cairn si punta l’attenzione sulla nuova tonalità d’invettiva della raccolta: «Il poeta dei versi sommessi ha questa volta perso la pazienza». Questo suggerimento rischia però di tradursi nel riconoscimento di una frattura nel suo percorso, quando invece anche la requisitoria giovenaliana nasce conseguentemente dalla medesima constatazione di un’assenza nelle cose come sono, le quali «portano in sé/ ancor più piccoli semi di vuoto». «Rischio la vita per i morti./ Rischio la morte per i vivi»: il gesto è simmetrico; e credo che nella sua poesia l’erezione di Steinmänner ai morti non possa non coincidere con lo smantellamento degli istituti dei vivi. Che ne pensa?
Un tipo di scrittura letteraria che dà per ovvie e ‘naturali’ le condizioni e gli statuti del mondo (anche quelli quotidiani, molto concreti e materiali e lasciando perdere ontologia e metafisica) è – credo – in buona sostanza inutile: un artificio cosmetico o un piacevole passatempo o un mezzo, come tanti altri, per provare a far soldi e a ‘farsi un nome’. Come mi appaiono inutili le due più ricorrenti posizioni sul rapporto poesia/realtà. Sintetizzabili nelle formule opposte «la poesia salverà il mondo» e «tutto è inutile, anche scrivere» e, quindi, il massimo del ‘fare’ ottativo e il massimo del ‘non fare’ nichilistico (pure ipocrita nel momento in cui si scrive), esse sono, entrambe, false: la poesia non ha mai salvato nessuno e intonare il De profundis – un arnese talmente vecchio da essere rugginoso – è un esercizio prognostico che, considerata l’incertezza del futuro, cade nella fallacia interpretativa. C’è però un gesto che si sottrae a questa dicotomia: la critica, ora sommessa ora iraconda, delle modalità imposte al nostro stare al mondo: non nascondersi né l’inefficacia pragmatica della poesia né l’assenza di senso o gli interessi strumentali di chi ci vuole tutti seguaci di una paradossale ‘servitù volontaria’. Non penso che, in proposito, Cairn con la sezione Album di Capaneo, segni una rottura rispetto ai libri precedenti, in cui – anche se in maniera meno diretta – erano presenti testi non pacifici e spinti dal pathos implicito nella rivolta del ‘mite’. Nel segno, certo, del ricordo dei morti e del loro immolarsi per darci un futuro (come in Ancienne cousine, ad esempio) ma anche di un sentimento di reverenza nei confronti dei viventi quotidianamente offesi. Più che due toni in contrasto, un movimento unitario, differente solo nel ritmo e nella scansione (più ‘lento’ quando ci si volge al passato e ‘accelerato’ invece quando si punta al presente).
Al Testa saggista che si è occupato de Il libro di poesia vorrei chiedere questo: il lettore di poesia contemporanea si imbatte spesso in misure minime (penso a mosse come «again again again/ fallo di nuovo» della Cavalli) che, se pure funzionali alla struttura del libro nelle generali intenzioni dell’autore, non possono non suggerire al lettore, almeno a tutta prima, un qualche senso di straniamento. Aforisma od epigramma che sia, il corpuscolo testuale galleggiante nel bianco della pagina ricorda innanzitutto al lettore che sta leggendo un libro di poesia, anzi di poesia contemporanea. In questo senso crede che tali forme-gesto possano essere lette in sé come shifters che importano violentemente nel macrotesto l’istanza stessa della lettura?
Le poesie brevi o brevissime, schegge testuali, epigrammi o aforismi, sono, quando cadono come momenti eccezionali nella struttura del libro, uno dei pochi modi rimasti – nel tracollo degli antichi schemi di riconoscibilità del ‘poetico’ – per dar segno di quest’ultimo; e per ‘far prendere aria’ alla casa della scrittura, per sottrarsi a quell’affollarsi di oggetti, particolari, figure o, in altre esperienze più liriche, di affanni del cuore che spesso satura i testi circostanti. Declinando in altro modo la sua osservazione, queste misure minime mi sembrano, nel succedersi di testi più o meno lunghi spesso di tono prosastico (come avviene in gran parte della poesia italiana d’oggi) e nel loro ron-ron discorsivo, come dei picchi della voce che sfruttano il silenzio suggerito dal bianco della pagina su cui aggallano. Con il fine di rivolgere un appello al lettore: un richiamo che la parola indirizza sia al suo genere d’appartenenza che al lettore, avvertendo il secondo del primo. È, quindi, un gesto che, al di là del tema trattato, finisce per essere sempre al quadrato o, come si diceva un tempo, metatestuale.
L’introduzione alla sua preziosa antologia Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000 si chiude con queste parole: «Va infine ricordato, pur nella sua evidenza, che anche questa antologia, come ogni altra, è soltanto un campionario e l’espressione di un’opinione. Nient’altro». A riguardo occorre ricordare però che, a differenza della sua, molte altre importanti antologie propendono invece per la parcellizzazione delle curatele: la rosa degli autori viene certo scelta da tutti, ma i cappelli introduttivi vengono spartiti in base alle inclinazioni ed agli studi dei singoli. In quest’ultima prospettiva non le sembra che l’antologia perda proprio la sua utilità specifica, ovvero la serialità panoramica di giudizi riconducibile ad un solo curatore che propone un solo percorso di lettura?
Le antologie che coinvolgono più collaboratori nascono probabilmente dalla volontà di offrire un quadro il più possibile ampio della poesia contemporanea e, insieme, dalla percezione che la materia poetica è oggi talmente variegata, corpuscolare, plurima e confusa – anche per i suoi canali di diffusione – da risultare guizzante come un’anguilla difficile da afferrare. Non so se queste antologie siano più o meno utili di quelle che hanno un solo responsabile. Quest’ultime però – riuscite o meno – almeno una qualità ce l’hanno: l’omogeneità dello stile nei giudizi da cui può più facilmente scaturire l’esercizio del confronto o della dialettica tra poeti diversi (che è poi un compito essenziale, anche se spesso dimenticato, della critica). Da parte mia, sono troppo idiosincratico per partecipare a iniziative simili. Anche se consapevole dell’importanza della collaborazione reciproca, mi sento a disagio se mi tocca procedere in gruppo. Quando sento ripetere in tutte le solfe la necessità di ‘fare squadra’ – espressione ormai entrata ovunque e anche nel burocratese universitario – avverto sempre di essere nel luogo, per me, sbagliato.
L'autore
- Filippo Andrea Rossi nasce a Terni nel 1995. Attualmente vive e studia a Perugia.
Ultimi articoli
- conversando con...10 Novembre 2018Filippo Andrea Rossi Intervista Enrico Testa
- conversando con...13 Ottobre 2018Filippo Andrea Rossi intervista Ernesto Livorni
- conversando con...1 Novembre 2017Filippo Andrea Rossi intervista Francesco Nappo
- scrivere nelle varie lingue d'Italia31 Ottobre 2017Filippo Andrea Rossi intervista Giuseppe Bellosi