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Vasi di fiamma e dee mascherate: la grande ceramica Jōmon da Tokyo a Parigi

Con il passare degli anni la fascinazione degli europei nei confronti della cultura giapponese non accenna a diminuire. Nell’immaginario occidentale, e l’Italia non fa eccezione, il Giappone rimane un paese simil-medievale, ricco di samurai e geisha, o è legato a ricordi adolescenziali di manga e anime. Eppure tanti aspetti del mondo giapponese, magari importanti e a volte splendidi, sono del tutto sconosciuti anche agli specialisti di culture asiatiche.

È il caso della straordinaria ceramica Jōmon, che prende il nome dalla tecnica della decorazione a corda impressa sui vasi (‘Jō’ 縄sta per corda, mentre ‘mon’ 文 significa ‘decorazione’), e che caratterizza il periodo neolitico dell’arcipelago giapponese (circa 11.000-400 anni a. C., secondo le scansioni cronologiche proposte dai curatori della mostra), prima della diffusione dell’agricoltura e della cultura del riso. L’arte ceramica Jōmon (Jōmon doki) è la più antica conosciuta, o quantomeno è la prima di ampia attestazione e dalle caratteristiche tipologiche ben definite, e per questo motivo negli ultimi decenni è stata riscoperta ed esaltata in Giappone anche come elemento di orgoglio nazionale. La mostra in corso presso il Museo Nazionale di Tokyo, “JOMON: 10,000 Years of Prehistoric Art in Japan”, fino al 2 settembre, raccoglie ben 207 manufatti provenienti da musei e collezioni provenienti da ogni parte dell’arcipelago giapponese, e celebra la bellezza di opere che lasciano a bocca aperta per qualità e fantasia di lavorazione.

A cominciare dai celebri vasi, soprattutto quelli della fase del Medio Jōmon (3.000-2.000 a. C.), la cui forma può ricordare grandi corone (e in tal caso sono detti ‘a corona’, in giaponese ‘ōkan-gata doki’), oppure delle lingue di fuoco (e in tal caso sono detti ‘fiammeggianti’ o ‘flamboyant’, in giapponese ‘kaen-doki’ o ‘kaengata doki’), e che presentano complessi motivi decorativi a corda di grande varietà diacronica e sincronica. Notevolissime, poi, le statuette di ceramica dogū rappresentanti rotonde dee femminili della fertilità (le cosiddette ‘Veneri dogū’), oppure creature mascherate o dalle esagerate caratteristiche facciali: divinità di religioni delle quali non sappiamo nulla. Ma la fantasia di questa arte non si ferma qui, e in mostra possiamo ammirare maschere e volti umani in ceramica, statuine di scimmie, cinghiali, pesci, conchiglie, funghi, folletti e creature immaginarie, ecc. Molti di questi temi (figure umane, maschere, alcuni animali) sono anche usati come elementi decorativi di vasi, mentre altri vasi prendono la forma di animali combinandosi con ulteriori elementi decorativi. Sono esposti anche oggetti in vimini, bronzo e in pietra, fra i quali, notevoli, oltre a punte di freccia e asce da caccia, le statuette umanoidi ganku.

Quello che rende speciale la mostra, oltre alla quantità e qualità dei manufatti esposti, è la presenza, per la prima volta assieme, delle 6 opere Jōmon ufficialmente classificate, per importanza archeologica del contesto di reperimento oltre che per bellezza assoluta, come ‘tesori nazionali’: il vaso a decorazione flamboyant del sito di Sasayama, Niigata (cat. 79), la ‘Venere dogū’ di Tanabatake, Nagano (cat. 80), la ‘Dea Jōmon’ di Nishinomae, Yamagata (cat. 81), la ‘Dea mascherata’ di Nakappara, Nagano (cat. 82), la statuina dogū dai palmi uniti di Kazahari 1, Aomori (cat. 83), la statuina dogū cava di Chobonaino, Hokkaido (cat. 84).

A questi ‘tesori nazionali’, ai quali è dedicata una sezione autonoma della mostra (The Zenith of Jōmon Art), si affiancano 63 opere classificate come ‘importanti proprietà culturali’, alcune delle quali sono messe a confronto, in una sezione separata, con ceramiche modellate nelle principali aree culturali del mondo ad altezze cronologiche equiparabili. L’intento comparativo, in sé interessante, si affianca a un intento celebrativo che mi pare discutibile, soprattutto perché i reperti di culture ‘altre’ qui esposti provengono da musei giapponesi, e non sono all’altezza dei pezzi migliori dei musei dei rispettivi paesi d’origine.

Le prime due sezioni della mostra sono quelle più informative sul piano storico e antropologico: la prima sezione, The Beauty of Everyday Tools, espone decorazioni del corpo e utensili di vita quotidiana, caccia e pesca, pur glissando completamente sugli aspetti etnologici ed etno-antropologici delle popolazioni di epoca Jōmon (piuttosto delicati da trattare dato che, contrariamente alle letture in chiave ‘nazionale’ dell’arte Jōmon, il popolo di Yamato si diffuse molti secoli dopo la fine del periodo Jōmon).La seconda sezione della mostra, A Surge of Creative Activity, illustra l’evoluzione della ceramica Jōmon: dalle decorazioni più bidimensionali dei vasi risalenti alle prime tre fasi, ovvero Incipiente (11.000-7.000 anni a. C.), Iniziale (7.000-4.000 a. C.), Primo Jōmon (4000-3000), che già vedono l’evoluzione della caratteristica decorazione a corda, all’invenzione durante il Medio Jōmon (3000-2000 a. C.), apice dell’arte ceramica, dei vasi a forma di corona e a fiamma, alle opere del Tardo Jōmon (2.000-1.000 a. C.) e del Jōmon Finale (1.000-400 a. C.), con decorazioni sia a corda sia elaborate a spatola o con altri strumenti.

La quinta sezione della mostra, Giving Form and Beauty to Prayer, approfondisce l’analisi dell’uso cerimoniale delle statuette dogū, mentre l’ultima sezione, Jōmon Beauty Rediscovered, è dedicata alla riscoperta in Giappone dell’arte e dell’estetica Jōmon, a partire da Okamoto Taro (1911-1996), con esposizione di moderne repliche di ceramiche Jōmon di Shimaoka Tatsuzo (1919-2007), che inventò anche uno ‘stile-Jōmon’ di decorazione a corda di vasi moderni. Nelle didascalie sono inoltre riportati apprezzamenti dell’estetica Jōmon da parte di artisti e intellettuali giapponesi del XX secolo.

Nel complesso, la qualità delle opere esposte non può non stupire e affascinare il visitatore curioso, ovvero il non specialista ‘ignorante entusiasta’ nel quale si identifica chi scrive, e al quale è rivolta questa recensione. A tal proposito, se qualche lettore della recensione, ‘ignorante entusiasta’ o meno, fosse interessato all’arte Jōmon ma per qualche motivo non trovasse modo di recarsi a Tokyo, segnalo che la mostra avrà una continuazione, pur in forma ridotta, presso la Maison de la culture du Japon à Paris (17 ottobre – 8 dicembre 2018), forse più comoda da raggiungere.

Prima di chiudere, tuttavia, non posso non menzionare quello che è a mio avviso il più grave problema della mostra di Tokyo, peraltro condiviso da tutti gli eventi ospitati dal Museo Nazionale: mi riferisco al catalogo unicamente in lingua giapponese, salve le poche pagine contenenti un nudo elenco delle opere esposte. Il catalogo (JOMON. 10,000 Years of Prehistoric Art in Japan, Tokyo, a c. TNM – NHK – Asahi Shinbun, Tokyo 2018, di 304 pp. a colori e bianco e nero) è ricco di immagini molto belle, con dettagli e comparazioni dei motivi decorativi a corda (in giapponese), articoli introduttivi e di approfondimento (in giapponese) e a pp. 237-281, in una sezione in bianco e nero, le didascalie e le spiegazioni che accompagnano le opere in mostra (in giapponese). Sarebbe bastato stampare anche in inglese questa ultima sezione, ovvero riprodurre in circa 40 pagine in bianco e nero quelle traduzioni già presenti in mostra e quindi già pagate al traduttore, per trasformare un souvenir pieno di belle immagini in un utile strumento di approfondimento e di studio su un argomento affascinante ma piuttosto trascurato dalla bibliografia occidentale.

Questa mancanza non sarebbe un dramma se nel book-shop, allestito specificamente per la mostra e per libri e oggetti relativi alla cultura Jōmon, fossero presenti libri o riviste in lingua inglese. Al contrario, inutilmente il visitatore straniero si aggirerà fra gadget e souvenir, quadernini, cartelline, figurine collezionabili, biscotti al burro, cioccolatini, e persino cuscini colorati a forma di vasi e statuette Jōmon: non troverà infatti nessun materiale informativo, didattico o scientifico, in una lingua che non sia il giapponese. Neanche fotocopie fatte a mano delle didascalie in mostra, delle quali peraltro è vietato prendere fotografie: tutte le informazioni in lingua inglese lette durante la visita non saranno più accessibili dopo la visita.

Non capisco come questa mancanza, che ribadisco è tipica di tutte le mostre tenute presso il Museo Nazionale di Tokyo (prima istituzione pubblica giapponese in ambito museale, assieme all’omologo Museo Nazionale di Kyoto), sia conforme all’intento di divulgazione culturale esplicitamente dichiarato dagli organizzatori della mostra nel messaggio di apertura (cfr. catalogo p. 290) e non infici almeno in parte la missione scientifica e divulgativa del Museo Nazionale di Tokyo. Mi auguro che di questo catalogo il côté parigino della mostra ci fornisca una versione francese o inglese, anche ridotta: pur di poter approfondire, con una bibliografia minimamente aggiornata, la conoscenza di un periodo artistico e culturale affascinante che meriterebbe molto più di un colpo d’occhio della durata di un paio d’ore.

Informazioni sulle mostre:

JOMON: 10,000 Years of Prehistoric Art in Japan

Tokyo National Museum (Ueno, Giappone)

Heiseikan Special Exhibition Galleries

3 luglio 2018 – 2 settembre 2018.

Organizzato da: Tokyo National Museum, NHK, NHK Promotions Inc., The Asahi Shimbun

link: https://www.tnm.jp/modules/r_free_page/index.php?id=1906&lang=en

 

Jōmon

Maison de la culture du Japon à Paris (Parigi, Francia)

17 ottobre – 8 dicembre 2018

link: https://japonismes.org/fr/officialprograms/「縄文」展

 

 

L'autore

Lorenzo Amato
Lorenzo Amato
Lorenzo Amato è professore di Letteratura italiana presso l'Università di Tokyo

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