Stordito dalla finta inattesa e fulminante Ambrogio non può che cercare di fermarmi mollandomi un calcione sulla gamba d’appoggio. Che sia fallo non c’è dubbio, che sia intenzionale anche, ma l’espressione contrita e depressa dell’amico a fine partita, costretto a ricorrere a mezzi del genere, data la mia nota generosità, muove a un eccentrico tentativo di consolazione. Il cervello del compagno funziona certamente meglio dei suoi piedi e nella “pizza” post-calcetto, in un tavolo isolato, provo a portare il discorso su un piano astratto e dissennato: la sua scomposta zampata – osservo – c’è stata, il mio dolore allo stinco e la caduta a terra anche, ma non si può forse dubitare della connessione fra i due, in fondo la ragione della sua contrizione?
Sulla relazione “causa/effetto”, così inizia la nostra chiacchierata, la filosofia discetta da sempre, anche escogitando i più astrusi interrogativi: la zampata (c) causa la dolorosa lesione dello stinco (e) ecc., ma cosa sono c ed e, eventi o fatti (e che differenza c’è fra i due)? c ed e sono fatti o eventi singoli o un processo? Che ne è delle cause probabili? I fattori causali sono discreti o continui? Sono cause anche le astensioni (il mancato intervento del governo ha causato migliaia e migliaia di disoccupati)? Quella di causa è una relazione transitiva o intransitiva, se x causa y e y causa z, x causa z? Ecc.
Con Ambrogio saltiamo a piè pari l’intera massa di questioni concentrandoci su una sola, quella che più direttamente riguarda il suo misfatto: ma la relazione causale – ci chiediamo – esiste o meno? Tanto reale e concreto quanto il calcione e la metamorfosi del mio stinco c’è anche il rapporto causale fra i due? Voglio dire: c’è in realtà, indipendentemente dal fatto che noi se ne sia o meno consapevoli, indipendentemente dall’essere umano e dalla sua attività mentale? Se c’è, se non è una proiezione o una costruzione della mente umana, dichiarandosi insomma realisti, la causalità dovrebbe appartenere all’inventario ontologico del mondo, tanto concreta quanto le stelle, gli atomi, e l’intenzione di Ambrogio che avrebbe prodotto le dolorose conseguenze.
Sposando la concezione realista, apparentemente propria del senso comune (e soprattutto della scienza), e ammettendo in generale che esistano relazioni (c’è chi ne dubita) della causalità dovremmo averne in qualche modo esperienza. Dovrei essere in grado di accertare in qualche modo che il movimento di una palla produce, pone in essere, crea – tutti sinonimi di “causa” – il movimento della seconda. Certo, la scienza, la fisica in particolare, insegnerà poi che gli autentici fattori causali sono ben altri dal calcione e lo stinco macroscopici, ma senza la notizia iniziale che il rapporto sussiste, senza verifiche punto-di-partenza, come supporre poi che la relazione abita le entità del mondo che inferiamo e che direttamente non osserviamo? Come non pensare che la causalità sia il frutto di una qualche immaginazione o della nostra struttura mentale; magari utile ma pur sempre immaginaria?
Al liceo abbiamo imparato che un famoso pensatore anarchico, verso la metà del 700, mette in dubbio che tale esperienza originaria, a base di tutto il sapere che ne segue, semplicemente ci sia. Nella storia della filosofia David Hume (ma il suo dubbio l’avevano già proposto gli scettici) si presenta come irriverente monello che in un’intera popolazione di bambini, in festa ogni anno per l’imminente arrivo di Babbo Natale, un bel giorno prende la parola e dice: no!, Babbo Natale non esiste, spiegando anche perché crediamo esista. Come spesso accade in casi del genere si accendono animose proteste, ma poi, piano piano, prima alcuni e poi molti, cominciano a dubitare ci sia. Anche se qualcuno continua a dire di vederlo l’incanto è sospeso.
Hume osserva che, certamente, in una palla da biliardo che colpisce una seconda, si vede sempre anzitutto la prima che si muove verso la seconda, poi che le due palle si toccano, e infine che la seconda si muove. Ma ciò significa che l’esperienza testimonia la successione di un certo tipo di fenomeni, la loro contiguità e la loro regolarità, e che non c’è altro. Hume era sicuro che il mondo sarebbe andato avanti così e che, avesse mai assistito, nello stesso tipo di situazione, alla seconda palla che resta ferma colpita nella prima, anche lui avrebbe cominciato a credere nei fantasmi o in forze occulte (pur sempre causali). Ciò non toglie che la ragione di tanto stupore sia murata a suo avviso nella nostra testa, nell’abitudine a un mondo che invariabilmente si comporta, che si è sinora comportato, così. La realtà, quella mostrata dall’esperienza, anche se la seconda palla, a parità di condizioni, non si muovesse, cosa che non è mai accaduta, non offrirebbe alcuna ragione di perplessità. Come dire: proprio perché un cemento che leghi i fenomeni non c’è, non è manifesto, se a un tipo di regolarità ne subentrasse un’altra, o se il corso regolare sparisse del tutto, non ci sarebbe appunto bisogno di alcuna spiegazione del cambiamento. Se la regolarità del mondo non suppone altro, anche l’eventuale irregolarità andrebbe accettata come dono del fato. Hume non immaginava certo che cervelli tanto eccentrici quanto il suo avrebbero poi messo in questione anche l’esperienza della “successione” (la percezione del tempo) e della “contiguità” (la percezione di eventi discreti), che lui accetta, ciò non toglie che meriti un posto d’eccellenza fra coloro che, dopo generazioni su generazioni, mette in discussione qualcosa prima considerato del tutto ovvio.
Di primo acchito sembra che, se ha ragione lo scozzese, dato che le mere intenzioni non costituiscono reato, il calcione voluto da Ambrogio non sia imputabile. La botta allo stinco è ahimè seguita, ma non si può certo dire che sa stato lui a produrmela. Poi però vien da pensare che giuridicamente non cambia nulla: poiché le intenzioni, come il resto del mondo, non causano mai, nel giudicare volontarietà e imputabilità ci si dovrà obtorto collo accontentare solo della regolarità degli eventi. Ve li immaginate due calciatori che si scambiano calci, pugni e spintoni facendo seguire ad ogni azione la scusante che è stato il mondo a tramutare l’intenzione in fatto?
A Hume sono state e vengono rivolte varie obiezioni. Tanto per cominciare quella per cui l’esperienza testimonia – s’insiste! – la relazione causale. Qui siamo al muro contro muro dove a uno che vede replica un altro che non vede. Ma in che senso, ci si può domandare, uno non vede? E se poi vede perché mente? Quante volte la negazione dell’ovvio ritira l’ovvio dalla circolazione? Il busillis che ci caccia in testa l’apostasia humeana potrebbe assumere la forma di una sincera domanda da rivolgere a se stessi: cosa propriamente e specificamente vediamo o tocchiamo o esperiamo quando assistiamo a una relazione causale?
Fra le tante obiezioni all’eresia humeana scegliamone quindi due o tre più argomentate. Supponiamo che mi venga consentito di rompere con un pallone dell’Inter un vetro che ho di fronte, anzi, che con lo stesso pallone tirato alla stessa velocità, con uguale resistenza dell’aria, possa rompere 10 o 1000 vetri dello stesso spessore e materiale. Poi ripeto la stessa operazione con un pallone del Milan, poi della Roma ecc., tutti di peso e dimensioni identiche a quello dell’Inter ma di colori differenti, finche non mi stanco. Sembra evidente che il colore dei palloni, per quanta fede si possa avere nella forza di una squadra, è del tutto indifferente alla rottura del vetro; questa dipende, almeno macroscopicamente, dal peso e dalla velocità della palla, dallo spessore del vetro, dalla resistenza dell’aria ecc. Come negare quindi l’esistenza di nessi causali? A questa obiezione probabilmente Hume non avrebbe battuto ciglio. Se ha ragione lui la conclusione non segue, e non segue a nessun livello, sia quello degli oggetti tridimensionali sia quello delle particelle elementari. Per quanti esperimenti con palloni di colore differente vengano fatti la risposta che l’esperienza testimonia è la seguente: l’altro ieri i vetri sono stati rotti con il pallone dell’Inter, ieri con quello del Milan, oggi con quello della Roma e così via. Per poter distinguere fattori determinanti da fattori superflui dovrei poter dire che, usando il pallone dell’Inter, anche “se avessi usato quello del Milan”, il vetro si sarebbe ugualmente rotto. Il che fra l’altro suggerisce che senso comune e scienza non si limitano affatto ad osservare il mondo. Senza viaggi mentali nel possibile, e le distinzioni che i viaggi permettono, la regolarità si ferma alla laconica esperienza di Hume, alle serie regolari. Ma una volta cassata la relazione causale è proprio il periodo ipotetico a essere arbitrario. Se e solo se alcuni fattori si mostrano causalmente determinanti e altri superflui, i primi giustificano i periodi ipotetici. È quantomeno razionale supporre, se i nessi causali appaiono e supponendo che siano necessari e sufficienti, che se fatti o eventi causalmente determinanti non ci fossero stati il vetro non si sarebbe rotto e che se ci fossero si romperebbero, cosa che non avviene per i colori. Ma per Hume nessi causali non se ne vedono.
In realtà alcuni filosofi, convinti come Hume dell’imperscrutabilità della relazione causale, ritengono che si possa fare a meno della fantomatica colla metafisica, mantenendo l’idea che la sequenza regolare avviene solo con determinati fattori e non con altri, salvando così tutto quello che la vecchia causalità ci diceva del mondo e con essa la capacità del senso comune e della scienza di “agganciare” e spiegare la realtà: si tratterebbe di una sorta di succedaneo della causalità che di questa mantiene le qualità abbandonando le finzioni. Come dire: di un lompo dal sapore indistinguibile dal caviale. Se la supposta relazione causale – questo il ragionamento – rivela che “se è vero che c”, allora “è vero che e” (e che “se fosse vero che c non c’è” allora “sarebbe vero che e non sarebbe” ecc.), basta affermare la verità di tali condizionali – chiamati “controfattuali” o “condizionali congiuntivi” – senza per questo dover mantenere anche la relazione causale. Suppongo insomma verità virtuali assieme a quelle attuali abbandonando i nessi fra i loro referenti. Alla riduzione della causalità a condizionali congiuntivi vengono mosse varie obiezioni, immaginando casi in cui non funzionerebbe, ma l’impressione che giri in circolo è quella sopra detta. Se il calcione di Ambrogio causa l’ecchimosi è lecito pensare che, a parità di condizioni, se non me lo avesse dato lo avrei dribblato e che se me lo desse rovinerei a terra, come è in effetti avvenuto. Ma se la relazione causale non c’è, su quale base affermo verità possibili, da cosa parto per giustificarle? Cosa garantisce il viaggio nella realtà virtuale? Sembra proprio che la riduzione della causalità a controfattuali parta dal possibile per approdare al reale. Un carro che tira i buoi.
Un’altra obiezione mette invece davvero in crisi, ma indirettamente, il dubbio di Hume. Siamo partiti dall’idea realista che l’esperienza possa rivelare un mondo che esiste indipendentemente da noi. Hume credeva che noi avessimo esperienza delle nostre sensazioni (“impressioni”) non del mondo, ma quando fa decadere la causa a regolarità empirica non può fare a meno del mondo. Se il mondo produce, causa, in me le sensazioni e queste vengono attribuite a oggetti o a eventi, allora posso affermare che determinate successioni di fenomeni si presentano di fatto in modo regolare. Ma se il mondo non mi modifica producendo le sensazioni (che attribuisco a lui), non ho neppure esperienza di regolarità. Basta che nel vedere le due palle da biliardo mi avvicini o allontani o mi sposti anche di poco che le immagini che osservo non siano affatto le stesse e non formino alcuna regolarità, mentre tutta la diatriba humeana parte appunto dalle regolarità fenomeniche. Hume quindi, suo malgrado, non descrive “sensazioni” bensì “fenomeni oggettivi” e per descrivere questi occorre che le immagini che abbiamo siano di oggetti del mondo, quindi che questi producano quantomeno in noi le sensazioni che lo riguardano. Se il mondo testimonia solo serie regolari senza supporre la sua causalità non arriviamo neppure a tale testimonianza. Fra l’altro è proprio a partire dall’impatto del mondo visibile che possiamo inferire il mondo invisibile e le strane entità della scienza.
Un’ultima replica. Il proditorio calcio di Ambrogio ha avuto l’effetto che ha avuto. È pur vero che spesso compiamo azioni senza che la realtà cambi di un et. Se intendo alzarmi e qualcuno mi prega di rimanere seduto, invito che accolgo, faccio qualcosa senza causare nulla. Anche le astensioni come le azioni positive ubbidiscono a imperativi. Ma in tutte le azioni che non sono astensioni, e senza le quali anche quest’ultime non ci sarebbero note, se la mia azione non possiede un volume, se non provoca qualcosa nel mondo, essa, sembra, non c’è. L’intenzione di andare al mare questa estate sarebbe un’azione come l’andarci. Come dire: se un’intenzione in azione non provoca nulla, come distinguere l’azione effettiva dal semplice progetto di agire in futuro? Se entrambe sono episodi mentali che non hanno alcun effetto, come distinguo un’azione (positiva), qualcosa che faccio, da qualcosa che non faccio? Certo, sinora, di solito, all’intenzione in azione corrisponde un qualche mutamento del mondo, anche nei tentativi che vanno a vuoto, ma senza colla causale e condizionali controfattuali, tale corrispondenza non riguarda il mio agire effettivo, non lo spiega e rende possibile; fra l’altro la concordanza ha tutta l’aria di un mistero.
Pizza e birre sono finite e Ambrogio, sin qui partecipe, riassume l’esito delle elucubrazioni. Se quanto detto sin qui ha un qualche senso ne viene che: a) il concetto di causa dovrebbe derivare da una certa esperienza che ne abbiamo. Se non dipende in qualche modo solo e soltanto dalla mente (cosa che sia quest’ultima!), come relazione reale, primitiva e irriducibile, la causalità, non può essere inferita o derivata da altro. E d’altro canto che se ne abbia esperienza si può dubitare. Lo stesso fatto che per alcuni l’esperienza ci sia, per altri no, depone a sfavore della sua evidenza – forse è anche problematico capire cosa significhi averne “evidenza”. Eppure b) non solo senza causalità sembra che sapere comune e scienza vadano a farsi benedire – sia nel senso in cui quest’ultima ambisce alla conoscenza del mondo sia perché diventa un salto nel buio il passaggio dal visibile all’invisibile -, ma neppure potremmo accontentarci di descrivere le benedette “regolarità”. Regolarità senza le quali la conoscenza equivale a un pugno di mosche (immaginarie). Immagini pure di sapori, colori e odori battezzate dalla mia mente, chissà perché, “pizza al prosciutto” – propriamente, non ho neppure “tagliato” e “mangiato” la pizza: l’idea di pizza non produce sapori e quella di coltello non taglia. Quindi? Qual è il risultato della chiacchierata? (E che ne è del mio calcione? Ma questo Ambrogio non lo dice). Strologamenti del genere son solo degni di un Azzeccagarbugli di quarta serie.
Concordo. Il discorso dovrebbe andare avanti e dissolvere i trucchi casuidici e legulei sin qui disseminati. Per dissolverli, ad ogni modo, occorre un leguleio più preciso e acribico dell’Azzeccagarbugli. Il fatto è che la pancia è piena, io sono stanco, Ambrogio si è distratto ma non pentito e soprattutto lo stinco duole. Meglio rimandare il prosieguo della disputa ad altra occasione. Magari alla prossima partita. Possibilmente priva della ferale zampata.
L'autore
- Luigi Cimmino insegna Gnoseologia delle Scienze Umane, Filosofia della Mente e Paradigmi Etici all'università di Perugia. Monografie recenti: Tempo ed esperienza. Intenzionalità, azione, filosofie del tempo, Aguaplano, Perugia 2020; Introduzione all'epistemologia della mente, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012. In uscita, per la fine del 2023, Paradigmi etici, Aguaplano.
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