Cosa significa per lei tradurre?
Per me tradurre rappresenta prima di tutto proporre al lettore italiano un’opera letteraria che io apprezzo. Infatti scelgo solo testi che mi piacciono; non so nemmeno immaginare di tradurre un’opera che non mi piace. Significa anche dare accesso a una cultura e una mentalità diversa da quella italiana. Io traduco dal giapponese, una cultura molto distante dalla nostra (sebbene presenti dei punti in comune), perciò la pratica della traduzione non ha solo un valore letterario, ma anche sociale.
Lei appunto traduce dal giapponese. Cosa implica la traduzione di una lingua con un sistema di scrittura diverso dal nostro? Quali elementi entrano in gioco in una cultura così distante dalla nostra?
La prima difficoltà è sicuramente la scrittura, ma è una difficoltà tecnica che con lo studio e altri strumenti come il dizionario si supera. La difficoltà maggiore del tradurre dal giapponese all’italiano, invece, è trasmettere tutta una serie di concetti, che partono proprio dalle circostanze fisiche. Per esempio le case tradizionali giapponesi sono diverse da quelle italiane, per quanto adesso molti vivano in appartamenti occidentali, restano abitudini legate alla struttura delle case antiche: tutto un insieme di vocaboli che dobbiamo far passare senza ricorrere alle note. Inoltre, con il passare del tempo sono entrati nel nostro vocabolario parole giapponesi come futon, per cui non abbiamo una traduzione, ma li abbiamo fatti semplicemente nostri.
Bisogna tradurre anche una mentalità diversa che si esprime con modalità diverse, perché anche se i sentimenti delle persone in tutto il mondo sono uguali vengono espressi in modo differente. Perciò per trasmettere al lettore quello che sentono i personaggi di una narrazione, a volte dobbiamo ricreare la scrittura, non basta tradurre soltanto alla lettera per comprendere il senso. Faccio un esempio: i giapponesi sono persone molto calme che non utilizzano insulti o simili e una parola un pochettino più dura che in italiano non avrebbe quasi rilevanza in un contrasto tra due giapponesi diventa una forma di maleducazione e aggressività. Questo dobbiamo renderlo in italiano creando un termine molto più forte altrimenti non passa il significato.
Quindi gli ostacoli nel tradurre il giapponese sono di carattere culturale non linguistico?
Sì esatto. Infatti, e credo che altri traduttori del giapponese sarebbero d’accordo con me, per tradurre questa lingua bisogna aver vissuto in Giappone per un certo tempo, e aver avuto dimestichezza con la quotidianità giapponese altrimenti ci sono delle cose che non si capiscono. Bisogna creare l’occasione per conoscerle.
Qual è stato il suo percorso che l’ha condotta in Giappone?
Io ho avuto un percorso tra virgolette anomalo. Non ho studiato il giapponese, ma scienze dell’educazione a Ginevra, dove ho conosciuto il mio ex marito, di nazionalità giapponese. Insieme a lui siamo andati a Parigi, dove ho terminato gli studi, ho iniziato a lavorare e lì ci siamo sposati. In viaggio di nozze siamo andati a conoscere la sua famiglia che mi ha accolta come una figlia, un atteggiamento abbastanza eccezionale nei confronti di una straniera. Tale è stata la mia frustrazione di non poter comunicare – visto che i giapponesi parlano poco inglese, lo parlano poco adesso figuriamoci negli anni settanta – che ho comprato alcuni testi e quando siamo tornati a Parigi mi sono messa a studiarlo per conto mio. Dopo tre anni ci siamo trasferiti in Giappone. Io avevo una piccola base di conoscenza teorica e i primi mesi siamo rimasti dai suoi genitori, così parlando con loro a poco a poco sono riuscita a sostenere una conversazione più complessa. Così è iniziato il mio percorso. Miglioravo sempre di più, per quanto rimanesse un giapponese limitato alla conversazione quotidiana, non lo leggevo e per molte cose mi affidavo a mio marito. Dopo il divorzio, dovevo riuscire a migliorare e così mi sono rimessa a studiare, fino a quando non sono riuscita a leggere bene. Poi mi è venuta voglia di tradurre, in sintonia con la mia grande passione per la letteratura. I primi anni, infatti, leggevo opere giapponesi in traduzione inglese, visto che in Italia all’epoca si traduceva molto poco dal giapponese, così ho deciso di tradurre un libro che mi aveva consigliato una mia amica, L’uomo scatola di Abe Kobo. Mi sono lanciata in questa avventura, pur non conoscendo nessuno nel mondo editoriale: così è stato pubblicata la mia prima traduzione nel 1991 per Einaudi.
Lei ha detto che un’opera deve essere adattata anche agli schemi culturali di chi legge. Ma quanto si perde per lei rispetto al testo originale?
Un po’ si perde, però l’importante è che permanga l’essenziale. Frost ha scritto «Poetry is what gets lost in translation», io non penso che sia così, anzi il compito del traduttore è proprio quello di fare in modo che la poesia non si perda. Questo a costo anche di fare una traduzione infedele nel senso di allontanarsi dall’originale, ma per rimanere fedeli allo spirito. A me è capitato di inventare una parola che non c’era nel testo altrimenti non sarei riuscita a comunicare lo stesso grado di intimità di un dialogo, proprio perché l’italiano ha meno parole del giapponese. Ad esempio in L’incolore Tazaki Tzukuru e i suoi anni di pellegrinaggio di Murakami, nel dialogo tra due amici, uno ritorna a una forma del pronome “tu” estremamente confidenziale nella frase: «io non ce l’ho mai avuta con te». Come la rendevo in italiano questa forma di confidenza? Ho deciso di tradurre «io non ce l’ho mai avuta con te, scemo», per denotare il senso della ritrovata familiarità, ma soprattutto per rispettare la poeticità di quel momento. È un mio dovere nei confronti del lettore di non privarlo di questa emozione.
Quindi il traduttore ha un ruolo fondamentale nel trasportare l’opera. Un ruolo interpretativo che esplica attraverso la traduzione.
Io penso proprio di sì. Infatti non succederà mai che delle macchine possano tradurre un testo conservando l’emozione.
Le propongo una riflessione di Ceserani in Raccontare il postmoderno: «come spiegare il fatto che l’Italia è, forse, il paese che si è tuffato nella nuova realtà dell’epoca postmoderna con la più grande leggerezza, direi, sprezzatura, seconda solo al Giappone? (Peraltro, ho aggiunto, il Giappone è per suo conto un fenomeno miracoloso: si è tuffato nella postmodernità senza fare neppure esperienza della modernità)». Che ne pensa?
Secondo me è parzialmente vero. Il postmoderno implica un’anima ironica che è meno visibile in Giappone, i giapponesi hanno poca autoironia, mentre noi italiani siamo maestri in questo, mi riferisco alla letteratura ovviamente. Murakami ad esempio non lo è: ha una forte verve citazionistica, ma gli manca la vena autoironica.
Murakami potrebbe essere accostato ai grandi narratori americani come De Lillo o Philip Roth, autori a cui sta stretta la categoria di postmoderno. Però di lui mi ha colpito particolarmente quanto conosca la cultura europea, anche se per motivi personali, e di conseguenza quanto noi conosciamo poco il Giappone soprattutto a livello letterario. E credo che questo porti a una visione stereotipata del Giappone. Come viene vista questa cosa in Giappone?
Il Giappone ha sempre importato dall’estero molta parte della sua cultura, prima dalla Cina e poi dagli Stati Uniti. Da quando si è aperto all’Occidente è stato un continuo importare tecnologia e cultura, perché ne erano assetati. Per quanto… anche loro hanno degli stereotipi, ad esempio tutti erano convinti che io sapessi cantare bene, mentre sono stonata come una campana. Ma sono luoghi comuni abbastanza innocui. Invece, quelli degli occidentali nei confronti del Giappone sono molto più profondi e persistenti, e forse è questo che spinge alcuni critici ad interpretare alcuni fenomeni alla stregua di quelli occidentali. Adesso però si inizia ad intravedere un orizzonte diverso, spero grazie anche a noi traduttori e a chi scrive dei libri sul Giappone. Insomma, la cultura si inizia a conoscere un po’ meglio.
Mi viene in mente, a proposito di stereotipi, Memorie di una Geisha, in cui tra gli attori principali solo uno è di nazionalità giapponese (Ken Watanabe, che tra l’altro è famoso negli Stati Uniti), il resto del cast è cinese o di altre nazionalità. Questo per rimarcare il grande stereotipo che per noi “occidentali” gli “orientali sono tutti uguali”.
Certo. Per non parlare dell’Ultimo samurai che narra una realtà storica alterata, presentano le cose all’inverso di come sono andate, così il pubblico viene fuorviato da queste storie.
La letteratura sta iniziando adesso ad essere conosciuta. Però c’è un’altra subcultura, apprezzata e molto famosa, che è quella dei manga e degli anime. E diversamente dai film sul Giappone che in qualche modo sono stati occidentalizzati, in questo caso è avvenuto un fenomeno opposto. Tanti ragazzi hanno imparato schemi di comportamento e valori giapponesi, rimanendo fedeli al prodotto: ad esempio leggono i manga da destra verso sinistra. Senza contare che ognuno di noi ha avuto un cartone giapponese che ha segnato la sua infanzia: un fenomeno generazionale ed esteso.
Questo è vero, infatti ultimamente si tende a rivalutare il genere manga, che presenta non pochi capolavori. Non si può nemmeno parlare di subcultura, perché è un fenomeno importante che ha influenzato gli italiani e il resto del mondo. Non è un fenomeno secondario. Inoltre, ha anche influenzato alcuni scrittori giapponesi, ha permesso di conoscere il Giappone in maniera più autentica e visto che sono ambientati proprio nella quotidianità ha permesso di far conoscere meglio la cultura e il sistema di vita giapponese. Io li conosco grazie ai miei nipoti che li leggevano, quindi non direttamente, ma tante persone che hanno iniziato a studiare la letteratura e la lingua giapponese sono partiti dai manga.
Addirittura nel caso dei alcuni manga/anime abbiamo avuto un rapporto inverso: ovvero noi ci siamo conosciuti attraverso storie scritte da giapponesi. Faccio l’esempio di Lady Oscar, ambientato durante la Rivoluzione francese.
C’è Lady Oscar, ma c’è anche Lupin III. Studiare come i giapponesi vedono gli occidentali permette di abbattere molte barriere culturali e sociali. Crea anche in noi una certa autoironia, porta a una relatività dello sguardo. I manga più di tutti hanno avuto un ruolo ponte nel collegare la cultura occidentale con quella giapponese.
Riguardo invece ai media: la “loro traduzione” secondo lei è corretta?
Sono sempre un po’ esagerati. I media, soprattutto quelli televisivi, mettono in evidenza ogni aspetto sensazionale. Come quando erano partiti i “capsule hotel”, sembrava che tutti gli hotel in Giappone fossero così, mentre invece erano delle strutture per ospitare gli ubriachi che avevano perso l’ultimo treno e che altrimenti avrebbero passato la notte sul marciapiede (di sabato sera ce ne sono tantissimi). Di recente è uscita la notizia che le persone anziane commettono piccoli furti per finire in carcere così da non rimanere soli. Ora sembra che in Giappone tutti gli anziani siano abbandonati, ma non è così, soprattutto rispetto agli anziani in Italia; ritengo invece che è piuttosto da noi che si è perso il rispetto per la vecchiaia. C’è questa tendenza a enfatizzare tutti gli aspetti più grotteschi, con lo scopo di impressionare e solo d’impressionare.
Le questioni legate alla Corea del Nord hanno permesso una distensione tra Giappone e Stati Uniti, come la vede?
Allora, i giapponesi sono terrorizzati, visto che ce li hanno di fianco. È una situazione che si è procrastinata nel tempo. Hanno paura che gli Stati Uniti li lascino da parte, vogliono, oltre alla riconciliazione, questo ombrello protettivo statunitense. Infatti il ministro Abe sta sfruttando questa paura per rimilitarizzare il Giappone e dare una svolta alla politica in senso nazionalista. La situazione con la Corea del Nord è sentita come una grave e concreta minaccia, d’altronde due missili sono caduti nel mar del Giappone e l’atteggiamento degli Stati Uniti non li aiuta, visto che non vogliono essere coinvolti personalmente.
E i rapporti con la Corea del Sud?
I rapporti con la Corea del Sud non sono mai stati buoni. I giapponesi si sono comportati in modo infame: sono stati responsabili dell’invasione precedente alla Prima guerra mondiale, della deportazione forzata in Giappone di molti coreani e delle cosiddette “comfort women” (schiave sessuali per i soldati). E non hanno mai davvero chiesto scusa, non hanno mai davvero mostrato pentimento. Ma la rivalità tra Corea e Giappone risale a prima, a quando Gengis Khan tentò di conquistare il Giappone passando dalla Corea, ma fu rimandato indietro. Da quel momento i rapporti non si sono mai appianati, tanto che negli anni venti il primo obiettivo dell’ondata di nazionalismo del Governo giapponese prevedeva di invadere la Corea… e ne hanno fatte di tutti i colori.
L’ultimo film di Park Chan-wook parla appunto del periodo d’occupazione giapponese in Corea: non ne esce un’immagine positiva. Come in La battaglia di Hacksaw Ridge di Mel Gibson, cambia l’ambientazione, siamo durante la Seconda guerra mondiale, ma l’immagine è più o meno quella: di militarismo e aggressività. O ancora in Silence di Scorsese. Insomma cambiano i periodi ma la visione dello stato giapponese è la stessa.
Non mi stupisce, perché si sono comportati molto male, anche peggio dei francesi ed inglesi nel sud-est asiatico. A proposito di Silence, non l’ho visto, ma ho saputo che subito dopo l’uscita del film è stata ristampata la vecchia edizione tradotta dall’inglese, una cosa che non si fa più. Evidentemente l’editore doveva essere veloce per fini commerciali.
Il film inoltre presenta un altro aspetto molto importante del Giappone: è uno dei pochissimi stati che ha resistito all’evangelizzazione, rispetto a Cina e Corea. Questo forse è uno dei fattori che rendono il Giappone così distante da noi, ma anche così attraente.
Sì, è rimasto refrattario. Infatti, i governanti per evitare questa influenza hanno chiuso il paese al resto del mondo, e i pochi cristiani che erano stati convertiti sono stati obbligati ad abiurare o sono stati perseguitati. Quindi, la mancata evangelizzazione è stata imposta dall’alto, non è stata una cosa spontanea della popolazione; non sappiamo fino a che punto il cristianesimo si sarebbe diffuso in Giappone. Questo poi è singolare visto che in Giappone hanno una grandissima tolleranza religiosa, per loro una religione non esclude l’altra: l’antico shintoismo ha accolto il buddismo e probabilmente avrebbe accolto anche il cristianesimo se non fosse stato bloccato dal potere centrale. Lo shintoismo, infatti, riesce a vivere a contatto con altre religioni, anche modificandosi, e così continua traslatamente e pacificamente. Ad esempio per la nascita e il matrimonio si utilizza il rito shintoista, mentre per la morte e altri riti funebri il rito buddista: una fusione molto interessante. Bisogna considerare che dietro la chiusura all’epoca del Governo, probabilmente c’erano anche motivi economici e politici: gli occidentali mandavano avanti i gesuiti, e poi arrivavano le armate.
Torniamo a parlare di traduzione. Qual è l’autore che preferisce tradurre?
Murakami Haruki, che ha uno stile molto chiaro e incisivo. Mi piace anche molto Natsume Soseki; essendo un classico moderno è molto più difficile e impegnativo, eppure la sua scrittura è così bella che tradurla è una gioia.
Mantiene rapporti con gli autori quando li traduce?
No. Ad esempio con Murakami se ho difficoltà mando un’email al suo assistente, però la risposta è sempre molto vaga, mi lascia ampio spazio di manovra. Ora sto traducendo il suo ultimo libro che uscirà a novembre, però è capitato che io traducessi opere pubblicate anni prima e capisco che lui non si ricordi bene cosa avesse voluto dire o a quale musica si riferisse. Però, un episodio molto bello con Murakami è accaduto l’anno scorso in occasione della mia vittoria del premio internazionale di traduzione dal giapponese, il premio Noma. Murakami ha mandato un messaggio che è stato letto durante la cerimonia di premiazione a Milano e pubblicato sul “Corriere della sera”. Il premio infatti, per quanto sia un tributo a tutta la carriera di un traduttore, si assegna per un’opera specifica, nel mio caso per L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio di Murakami appunto. È stato davvero un bel momento.
Ci può dare qualche anticipazione sull’ultimo romanzo di Murakami?
L’ultima opera che deve uscire si intitola L’assassinio del Commendatore, con riferimento al Don Giovanni di Mozart e tutto parte dalla scena iniziale, in cui muore il Commendatore. Un libro molto lungo e molto bello.
Lei è anche scrittrice. Come si lega il Giappone, il lavoro da traduttrice e il lavoro da scrittrice?
Il mio primo libro è un saggio sul Giappone e le donne (Nel Giappone delle donne). Il secondo, Leggero il passo sui tatami, riguarda alcune vicende capitate a me personalmente, che illustrano però aspetti della società e della mentalità giapponese. Il terzo invece, Mia amata Yuriko, parla di una donna che ho conosciuto, che ha avuto una storia al contempo bella e tragica. In tutti c’è il Giappone, ma sono poco influenzati dalla traduzione; certo conoscendo i giapponesi e sapendo come parlano e si comportano, faccio parlare e muovere i miei personaggi basandomi sulla mia esperienza di traduttrice. Però la scrittura è una cosa che nasce e si lega profondamente a me, ovviamente la traduzione costituisce un aiuto perché è un bell’esercizio.
Prima lei citava il rapporto giovani-adulti. Ritengo che nel versante pop sia un tema centrale artisticamente, penso a Battle Royale o a Suicide club, ma anche a Norwegian Wood sempre di Murakami, in cui si rappresenta il ’68 giapponese.
Il ’68 è stato un periodo importante, anche se non come in Europa. La società giapponese è confuciana, basata sul rispetto dei giovani verso gli anziani, anche in senso gerarchico, ed è stato proprio questo pilastro culturale ad essere contestato.
Il ’68 ha permesso lo scardinamento della gerarchia sociale?
Ha per lo meno avviato una riflessione pubblica. Poi la sfera privata è un’altra cosa. A livello di norme sociali è vero che è in atto da tempo una trasformazione, però poi le abitudini tra le mura domestiche restano. Mi sembra che gli anziani siano comunque amati e rispettati, anche se meno mitizzati, meno ascoltati di un tempo. In ogni caso nel complesso si sente meno l’obbligo dell’obbedienza agli anziani.
Anche in questo senso credo vada letta la decisione dell’imperatore di togliersi la carica divina.
Sì c’è uno scardinamento di questi capisaldi che avevano retto la società giapponese e causato irrigidimento nel Giappone; probabilmente questa rigidità è stata avversata dai giovani, soprattutto dopo l’avvento della globalizzazione, che ha permesso di mettere in discussione in maniera positiva l’autorità. Ciò che più di ogni cosa ha contribuito a questo è stata la crisi. Il Giappone è una società molto solida, protettiva e costrittiva, e con la crisi molte persone che confidavano nella protezione si sono ritrovate invece abbandonate. Un ulteriore motivo per mettere in discussione i fondamenti dell’autorità, contribuendo inoltre a un ritorno al privato e alla famiglia positivo, rinunciando all’esigenza di consacrare anima e corpo alla sfera pubblica e al lavoro.
Una domanda sull’ambiente. Quest’anno mi è capitato di vedere il documentario, presentato al Festival di Venezia, sulla vita del compositore Sakamoto, malato di tumore, impegnato nella sensibilizzazione sul disastro di Fukushima e il nucleare. Viene presentato quindi un grande ossimoro: un popolo che ha subito un terribile bombardamento nucleare nel ’45, ha al momento attive circa 15 centrali nucleari.
Assolutamente, tra l’altro vicino al mare. Il Governo giapponese inoltre nega il disastro, invece c’è stato e le conseguenze sono sempre lì. Anche tutta la politica di Abe che ha enfatizzato il pericolo della Corea del Nord, per quanto avrà avuto le sue ragioni, ha avuto anche l’obiettivo di far allontanare l’attenzione dai problemi del nucleare. Anzi ha permesso l’apertura di altre centrali, eppure il pericolo rimane. Il problema è che vengono azzerati i dati. Per esempio i dati ufficiali riportano che i valori del celsio non superano la soglia consentita…certo… hanno aumentato artificialmente i limiti. A seconda delle esigenze creano i limiti, ma è tutto falso. In Italia io conosco un’associazione, l’Orto dei sogni, con sede a Milano, che permette ai bambini di Fukushima di passare un periodo al mare per rigenerarsi, così dopo mesi passati nel nostro paese i livelli del sangue ritornano nella norma. Tutto questo lo fanno di nascosto, perché in Giappone tutto è volto a mascherare il problema (come ad esempio il gran parlare sulle Olimpiadi). Il periodo che questi bambini vengono a trascorrere in Italia ufficialmente è classificato come vacanza studio, ma in realtà sono aiutati a superare delle difficoltà fisiche.
Però la popolazione civile ha reagito, protestando contro il nucleare.
Certo, e anche queste proteste sono state una novità. Coloro che non credono ai dati del Governo provano a resistere purtroppo con pochi risultati, così a poco a poco le cose si stemperano e tra dieci anni non se ne parlerà più.
Le proteste forse non resteranno nella storia, ma penso di sì per Fukushima, il disastro, lo shock e i problemi ambientali.
Può darsi visto che lo shock c’è stato, però bisogna tener conto anche che la gente deve sopravvivere e tende ad allontanare i problemi. Come sono stati discriminati i sopravvissuti di Nagasaki e Hiroshima, così lo sono anche quelli di Fukushima. È il motivo per cui ho scritto il mio terzo libro, Mia amata Yuriko. La protagonista è una donna vittima delle radiazione di Hiroshima. Ora molti sopravvissuti alla tragedia di Fukushima conoscono la sua stessa sofferenza. Purtroppo la gente non impara mai niente e le persone continuano a comportarsi nello stesso modo, quindi può darsi che fra un decennio nessuno ricordi più niente… da parte del Governo si va in questa direzione.
Mentre qual è stato il ruolo degli intellettuali?
Gli intellettuali hanno reagito, hanno scritto molto, hanno protestato insieme ai manifestanti per le vie di Tokyo armati di megafono per stoppare il nucleare. Io e altri traduttori, a titolo libero, abbiamo tradotto Scrivere per Fukushima, una serie di racconti e riflessioni scritti da diversi autori in seguito allo tsunami. Alcuni si sono esposti anche nel versante cinematografico, come Sono Sion nel film The land of hope, in cui il regista immagina un’altra Fukushima e le conseguenze sugli abitanti. Gli artisti, quindi, hanno reagito forte e continuano a farlo, per fortuna.
L'autore
- Giulia Falistocco è dottoranda presso l’Università degli studi di Perugia. Si occupa di romanzo storico italiano, con particolare attenzione all’opera di Vincenzo Consolo, Elsa Morante e Tomasi di Lampedusa, e di serialità televisiva. Ha pubblicato articoli usciti in rivista e in volume; ha inoltre partecipato a convegni internazionali. Dal 2016 è redattrice de La Letteratura e noi.
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