(foto di Dino Ignani)
Questa intervista nasce a margine della conferenza “Il ritorno della voce: la poesia oltre la letteratura” tenuta da Gabriele Frasca presso la sede della Dante Alighieri, che si trova all’interno dell’Università di Liegi (si ringrazia Paola Moreno per l’ospitalità).
Gabriele Frasca, poeta, narratore, saggista, traduttore, attualmente insegna letterature comparate nel Dipartimento di Scienze della Comunicazione dell’Università di Salerno. Il suo interesse per i media va dalla saggistica alla poesia; mette l’accento sulla comunicazione, sul supporto della letteratura, del testo scritto ma anche sullo scambio tra produttore e consumatore, tra artista e pubblico, attraverso appunto l’oralità. Dunque un’attenzione alla performance, all’incontro con il pubblico. Pubblica poesie dal 1984, tra i titoli delle raccolte: RIME, LAME, RAME, LIME, allitterazioni, coppie minime… sembra quasi uno scioglilingua. Ha scritto anche per il teatro, TELE, un titolo che allude all’arte figurativa a cui Frasca è sensibile; alcune sue opere sono corredate da apparati iconografici. Frasca infatti collabora con differenti artisti e i musicisti non sono in questo senso secondi ai disegnatori. Inoltre ha lavorato per la radio, dirigendo trasmissioni RAI.
Sulla dimensione del suono e della voce (ha parlato di poesia come luogo di resistenza della cultura orale, con riferimenti, citazioni e recitazioni da Dante a Verga) gli ho lasciato la parola, ricordando che si è laureato in Storia della lingua italiana, causa ed effetto del suo approccio artistico (oltre che tecnico) alla lingua, cosa che nella sede della Dante Alighieri è particolarmente pertinente.
Frasca dice cose che non tutti (sanno e) dicono; veicola il suo bagaglio culturale da un punto di vista anticonformista e assertivo. Dunque una voce fuori dal coro, colta e convincente. È un trasgressivo affabile che ti porta nel suo mondo con simpatia fornendoti senza paternalismo e con chiarezza tutti i mezzi necessari per seguirlo.
La poesia italiana contemporanea in Europa. I confini nazionali sono sicuramente troppo stretti, anche se la poesia si fa con la lingua e tu scrivi in italiano, ma sei anche traduttore…
La poesia si fa col metro, che di suo è una macchina memoriale: addirittura la prima, quella che si confonde col linguaggio stesso, e non dunque con questa o quella lingua. Sono nato nella città di Giambattista Vico, e sono anni che provo a sgrommare la patina normalizzante (anche crociana) dalle formidabili intuizioni di questo pensatore ancora così mal digerito, che pure ha vantato attraverso i secoli lettori d’eccezione. Negli ultimi cent’anni poi, il pensiero di Vico, oltre ad armare macchine narrative poderose come quella joyciana, è stato addirittura l’epicentro di autentici terremoti disciplinari, quali per esempio quelli di cui si sono resi responsabili prima il gesuita francese Marcel Jousse e poi lo studioso canadese Marshall McLuhan, con l’intento di scuotere i nostri pregiudizi dalle fondamenta. Purtroppo però è un dato di fatto: dopo gli eventi sismici, piuttosto che industriarsi coi nuovi più solidi ma costosi materiali, si abbandona solitamente il campo per erigere qualche prefabbricato nelle immediate vicinanze. Insomma: se una corporazione prospera di preconcetti, e la nostra lo fa senz’altro, poco ma sicuro non li abbandonerà mai, nemmeno di fronte all’evidenza, e pure a costo di rifugiarsi in luoghi sempre più ristretti e periferici.
D’altra parte che il linguaggio sia come aveva ben visto Vico un medium per conservare informazioni, dunque un mezzo per sottrarsi alle imperative necessità del “presente ricordato”, forma primigenia di “coscienza” variamente emersa nei vertebrati, piuttosto che uno stimolo e un veicolo per la concettualizzazione, è stato più volte ribadito nei suoi studi dall’immunologo e neuroscienziato americano Gerald M. Edelman. Provo a spiegarmi: se il linguaggio umano non è per nulla confrontabile con quello cosiddetto delle api, che è una perimetrazione simbolica dello spazio, se è dunque un modo per congiungere il passato (comunitario, adattativo) al futuro (apprensivo e individuale), allora non solo è un medium per la trasmissione del sapere (che consente di adattarsi all’ambiente adattato dalla comunità) ma deve possedere le sue regole d’installazione nella memoria, deve cioè consentire, nei termini di Edelman, i “rientri” fra le “mappature globali” neuronali e le “aree linguistiche” e “sensomotorie” del cervello.
La questione è fondamentale, perché se il linguaggio umano risulta, e non può che risultare, una programmazione complessa, a partire magari dalla metaforizzazione illimitata alla base di quelle che gli etnolinguisti come Giorgio Raimondo Cardona chiamavano “metafore di orientamento” (vale a dire la percezione del proprio essere immersi in uno spazio modificato dal “sé” percettivo, adattativo e apprensivo), l’informazione non genetica che è necessaria alla nostra specie per sopravvivere non può allora che utilizzare, al suo primo apparire si potrebbe dire, una macchina astratta sostanzialmente metrica, vale a dire un insieme di regole per la memorizzazione di enunciati che vanno detti sempre, anche a ogni successivo ribadimento, una volta per tutte, come la frase di un programma interiore per il posizionamento all’interno della comunità che gestisce l’informazione. Non si è troppo lontani dall’ipotesi azzardata per l’appunto da Vico di una lingua-canto, susseguita al parlar per “cenni” dei “mutoli”, prim’ancora che “le prime nazioni”, ancora in assenza dei “caratteri della Scrittura Volgare” (l’alfabeto), “parlassero frattanto in versi”, per agevolare “la memoria a conservare più facilmente le loro Storie Famigliari, e Civili”. “Parlassero in versi”, dice Vico, consapevole per l’appunto di quanto il linguaggio, per essere un parassita sociale che ci viene innestato, non può che essere tutt’uno con le sue regole d’installazione…
Di questo ci occupiamo quando parliamo di poesia, del medium originario che ci ha fatto uomini, non dei tormenti interiori dell’ultimo in ordine di tempo rappresentante della specie. Il che vuole anche dire che la macchina metrica, quale che essa sia, perché le forme metriche consolidate sono solo convenzioni successive, e quale che sia la lingua che l’incarna, spinge ancora tante persone ad accostarsi alla poesia nella consapevolezza che questa è tutt’uno con la sua informazione, dal momento che il linguaggio nasce per l’appunto per innestare l’individuo al suo gruppo sociale,e diventa uno strumento di comunicazione dopo millenni di evoluzione. Se insomma non usciamo una volta per tutte dal pregiudizio romantico che ne ha fatto la registrazione del brusio interiore di qualche disadattato, da contrapporre alla vita en plein air di quella grande macchina ideologica che è al contrario il romanzo borghese, condanniamo la poesia a quella vita residuale, sostanzialmente in vitro, con la quale affliggiamo i nostri già fin troppo intristiti studenti. Di quella roba informe che all’università chiamiamo poesia ne abbiamo fin troppa: non occorre che ad armare qualche tesi, e sfiata sùbito sul posto.
E invece, per capirci, la Commedia di Dante attira ancora come una calamita perché è una macchina poderosa, non per qualche bell’episodio riuscito, una manciata di versi proverbiali, momenti d’intensa ispirazione e altri invero dottrinari e per alcuni persino molesti. È talmente formidabile quel congegno, che coloro che nel mondo ancora si accostano alla nostra lingua, e non sono così pochi come siamo soliti lamentarci, se non lo fanno per canticchiare qualche aria di melodramma, o per godere pienamente del ricco passato delle nostre arti figurative, è per Dante che la studiano. E come non capirli? Si salta di un livello di mondo a innestarsi alla sua macchina metrica. Da noi, o abituati ad accapigliarci sulle singole lezioni della tradizione manoscritta o a romanzare la vita dello sventurato autore, continua a suscitare scarso interesse: ma la questione mediale in Dante, o meglio ancora comediale, è l’unica che dovrebbe essere affrontata una volta per tutte, se si vuole ridare senso alla parola “poesia”.
Quanto alla faccenda delle traduzioni, le mie sono quasi del tutto dedicate all’autore più dantesco dell’intero Novecento, Samuel Beckett, e quindi riguardano non solo la produzione in versi ma anche e soprattutto la prosa (piùo meno narrativa) e il teatro (e il cinema, la radio, la televisione…). Per me rivestono una particolare importanza perché sono l’anello che congiunge la mia attività di artista con quella di studioso. Non si può tradurre senza conoscere criticamente l’opera dell’autore prescelto, per come la penso io; né quest’ultima la si può studiare se prima non la si traduce, persino quando è scritta nella propria lingua. Per questo non amo altra forma di lavoro critico che non sia quello strettamente filologico, o l’altro che gli studiosi angloamericani sono soliti definire “close reading”. Una lettura gomito a gomito di un’opera è una traduzione; e viceversa. Lo so che adesso gli studi letterari sono diventati più effervescenti, se ne vanno a inseguire temi come fossero farfalle o a rivestire di una vernice attualizzante sistemi macrometaforici consolidati… ma è sempre rischioso aver “fame di vento”, come lamentava giustamente l’autore dell’Ecclesiaste, cui certo non difettava l’acidità di stomaco.
C’è un gruppo europeo di cui senti di fare parte?
No. Ho motivo di sentirmi vicino a tutti quei poeti nel mondo che si stanno ponendo la questione di sfondare il carcere tipografico che ha silenziato (ma mai del tutto) la poesia. L’età della carta inesorabilmente tramonta, ma tanti fortunatamente sono i poeti consapevoli del fatto che la poesia è di per se stessa un medium, e che dunque l’attuale crisi della letteratura semplicemente non la riguarda. Molti di questi poeti sono europei, altri no. Se dài un’occhiata al comitato scientifico che accompagna le uscite della collana che co-dirigo con Lello Voce, Frank Nemola e Claudio Calia, e dunque con un altro poeta, un musicista e un fumettista, e che abbiamo battezzato (com’è giusto che sia) “Canzoniere”, ti puoi fare un’idea di quanto sia radicato nel mondo il movimento di chi ha deciso di mettere fine a quella che lo stesso Leopardi nello Zibaldone chiamava la “funesta separazione della musica dalla poesia e della persona di musico da quella di poeta”. Lello ama molto citare questo passaggio, e ha ragione.
D’altra parte, come avrai capito dai nomi che costituiscono il direttorio di “Canzoniere”, gli stimoli maggiori che legano il mio fare poetico all’epoca che mi è toccata in sorte non possono giungere soltanto da altri poeti. L’autore vivente che seguo con maggiore passione, non credo che sia una sorpresa per nessuno, è Thomas Pynchon, che è un romanziere, ed è americano. E credo che la mia poesia debba più alla musica, che ascolto praticamente da sempre, o al cinema, o al fumetto, che alla lettura compulsiva delle opere dei colleghi. Alcune delle quali amo comunque molto. Ma anche in questo caso il panorama è più vasto della sola Europa attuale. Senza dimenticare che ci sono secoli dai quali si può attingere, perché non c’è artista che non si ritagli la propria genealogia in quella comunità di vivi e di morti che continua a renderci esseri umani: se mettessi in fila tutti i nomi degli autori di tradizione o meno ai quali sono stato accostato dai critici, ne verrebbe fuori un bel contingente fortunatamente sovranazionale; che diverrebbe addirittura un esercito multietnico se dovessi elencare io stesso tutti quelli ai quali credo di dovere qualcosa.
Qual è il ruolo del poeta nella società di oggi?
Ibridare i linguaggi e despecializzare i discorsi, al fine di ottenere nel soggetto alla poesia (che è naturalmente il soggetto della poesia) un rivolgimento individuale complessivo. Che poi era lo stesso obiettivo che si poneva Dante…
Di cosa vive un poeta oggi in Italia e in Europa?
Di quello di cui hanno sempre vissuto i poeti nei secoli dei secoli. Di altro. La poesia è sempre stata il rovescio del diritto d’autore, sin da quando quest’ultimo si è affermato nel XVIII secolo in Inghilterra, esattamente negli stessi anni in cui il termine “letteratura” cominciò a significare quello che ancora vuol dire oggi per noi, e nei quali fra l’altro si affermò al livello economico il sistema del credito. Le tre cose sono implicate vicendevolmente, e qualcosa questo dovrebbe pure insegnarci. Fra gli artisti al soldo delle classi dominanti dei millenni preletterari, quelli ostaggio della solerte borghesia degli ultimi scarsi tre secoli, e gli altri semplicemente legati alla loro piccola comunità d’appartenenza, di cui si facevano a volte cantori (e che un tempo chiamavamo “popolari”), fra tutti costoro insomma di tanto in tanto ha fatto capolino qualcuno che ha creduto di compiere una missione di liberazione, quale che fosse il suo mestiere, fabbro ferraio, segretario o “cavallaro” (per dirla col povero Ariosto). A noi da sempre interessano quelli, persino quando non vediamo l’ora di metter loro la museruola.
Come concili le tue attività creativa (o artistica) e scientifica (universitaria)?
All’università compio il mio lavoro, ed è quello che devo al sociale, per l’appunto; e faccio arte perché è la mia vocazione, e anche questa la devo al sociale, e forse persino di più, perché se fai arte, è inutile girarci intorno, lavori per la comunità, fai politica. Nel primo caso insegno, nel secondo consegno. Quanto all’attività scientifica, per me non differisce così tanto da quella creativa. Le ricerche bibliografiche che ho ritenuto necessarie per il romanzo Dai cancelli d’acciaio non sono state meno gravose di quelle di cui mi sono fatto carico per il saggio La letteratura nel reticolo mediale.
E come se non bastasse, quando scrivo un’opera scientifica so che sto usando la mia lingua, una lingua fatta di tanti registri, a cui devo del rispetto. Come lo devo ai miei lettori, che per essere in quel caso specifico innanzi tutto i miei studenti, sarebbe quanto meno singolare che ritenessi solo parzialmente alfabetizzati, come se non stessi per l’appunto insegnando all’Università ma a un corso di recupero comunque votato al fallimento. Va bene la parabola dell’agnello smarrito, ma io in questa coazione alla pastorizia ci vedo il dolo: l’intento cioè di uniformare sempre tutti in un gregge. Non penso che chi usa uno stile ritenuto a torto o a ragione “semplice”, dico nei nostri studi, lo faccia per venire incontro agli allievi impoveriti da un sociale che ha mozzato loro la lingua, e otturato le orecchie; credo piuttosto che renda a se stesso più facile la vita, con l’effetto di mettere a stento sui suoi piedi la solita paginetta equitonale che appesantisce le palpebre. Più si scrive piano, lineare, sequenziale, e più si mette a nanna chi invece dovrebbe sobbalzare più o meno a ogni frase. L’idea che s’impari di più durante il sonno, è roba da condizionamento automatico e collettivo, non da apprendimento individuale e dunque critico. Le competenze linguistiche dei nostri studenti non sono certo la rete o i social media ad atrofizzarle… ma esattamente i nostri saggi per eterni principianti. Quando torneremo a ricordarci che i nostri sono studi universitari sarà già troppo tardi.
Chi legge poesia? Per chi scrive un poeta oggi? A chi ti rivolgi quando “componi”, immagini un pubblico di ascoltatori? I singoli lettori?
“Voi che ascoltate in rime sparse il suono”… Immagino degli ascoltatori, ovvio, come tutti i poeti. Immagino cioè qualcuno che mi legga ad alta voce e si ascolti. Se dentro non c’è nulla che possa consuonare con quello che ho trovato, echeggerà a vuoto. Credo che sia sempre stato così, da quando il medium della cultura orale, la poesia, ha trovato la sua brava soluzione di compromesso con la cultura chirografica. La pagina, basta persino un colpo d’occhio a capirlo, non ha mai ingabbiato la poesia. E quanto più questa schizza fuori, “ditta dentro” e va significando.
Le manifestazioni pubbliche che raccolgono più poeti come sono vissute dai poeti stessi?
È un bel modo per conoscersi. Poi per frequentarsi. E infine per fare la conta d’ingressi e dipartite. Brrr.
Cosa ne pensi della forma metrica nella scrittura narrativa?
Le clausole versali nella grande prosa ci sono sempre, soprattutto se si tratta di quella pre-tipografica o di quella al contrario post-tipografica. Il famigerato cursus altro non è che il modo con cui la prosa fa la voce grossa per cercare di divenire memorabile come la poesia. Bandello magari potrebbe già essere letto submissa voce: di sicuro puoi tentarci, perché a quell’altezza la prosa si era già avviata verso il ron ron della sua lettura senza sbalzi, anche se la lettura comunitaria di un’opera, e dunque a pieni polmoni, resiste per lo meno fino al XVII secolo. Ma anche una volta passata sotto silenzio grazie alla rivoluzione tipografica, quella che Elizabeth Eisentein definiva “inavvertita” (e lo fu senz’altro, se pensi che riguardava solo la minoranza alfabetizzata), la prosa non finisce di congegnare ad arte il suo bisbiglio. Pensa a Flaubert, e a come si cantilena nelle sue pagine miracolosamente sospese la noia del mondo. Il nostro “homme-plume” questa cosa qui la chiamava procedere a colpi di “stiletto”. Si fa leggere nel silenzio interiore del lettore, una pagina di Flaubert, per dirgli che il cicaleccio che a malapena ascolta è fatto dello stesso bisbiglio dei suoi pensieri. Nessuno più del grande autore francese è riuscito a fare musica col silenzio operoso (e tante altre volte minaccioso) che la borghesia imponeva a se stessa. Perché Flaubert, come si evince dal suo epistolario, voleva in verità insegnare qualcosa, e lo stile è l’unica autentica tecnica d’insegnamento. Com’era solito ripetere Harald Weinrich: solo chi vuole mentire rifuggirà lo stile. Chi desidera ingannare vuole l’oblio non la memoria.
Ma se al contrario, per tornare alle fasi pre-tipografiche, leggi dentro di te il Decameron, poco ma sicuro che sarai costretta a ritornare più volte sullo stesso periodo per venirne a capo. Se lo esegui invece come Boccaccio s’immaginava dovesse avvenire la sua ricezione, cioè a voce alta, è ben difficile che malgrado la vertiginosa ipotassi ti smarrisca in una sola occasione, se non per qualche inevitabile scoglio lessicale.
Quanto alla prosa post-tipografica, che è quella che fa coraggiosamente i conti col ritorno della voce dovuto alla diffusione dei media elettrici, la questione diviene così radicale che non sono pochi gl’intenditori attuali di narrativa, in specie quella più spiccia, a trattarla come se fosse poesia. Appiccicandovi di fatto il cartiglio che, nella loro insaziabile fame di “fresh adventures” (avrebbe detto il reverendo Sterne), sono soliti riservare alla poesia: “Graecum est, non legitur”. E hanno ragione: roba come lo Ulysses o il Finnegans Wake, o l’intera opera in prosa di Beckett, e di Gadda, per non parlare di D’Arrigo o Arno Schmidt o Pizzuto, ma persino quella di Burgess, Nabokov e naturalmente Pynchon, mica si legge. Si esegue. Come si esegue per l’appunto la poesia, se non vuoi che si sfiati e non significhi nulla.
Del resto persino nella prosa narrativa pienamente tipografica i versi non mancano mai, perché ci sono dei luoghi del testo che devono, a partire dalle soglie, essere congegnati come memorabili. Pensa solo al novenario che apre I promessi sposi o al décasyllabe che chiude Madame Bovary, per rimanere dalla parte delle cime…
Nella tua interpretazione del ruolo di artista sei un “contaminatore”: scrivi poesie, ma anche narrativa e pubblichi libri illustrati (da altri), fai letture performative musicate (da altri). Come vivi il tuo rapporto con altri artisti?
Nel miglior modo possibile: col piacere di collaborare, e la gioia di disperdermi in una macchina. Siamo nati tutti, da un bel po’ di generazioni oramai, immersi nel cinema, che resta tuttora il procedimento artistico dominante, per quanto l’industria videoludica stia in realtà negli ultimi anni corrodendo il suo primato. E il cinema (come del resto lo stesso mondo videoludico) c’insegna quello che l’architettura, che Deleuze e Guattari volevano prima fra tutte le arti, non ha mai smesso di ricordarci: l’arte, la più sublime, quella comunitaria, non ha maestri, anche se il solito pregiudizio romantico non ha mai smesso di mettersene in cerca. L’arte, se è arte, ha maestranze. E se la prima e l’ultima delle arti in ordine di tempo ci ripetono questo, che poi è quello che la poesia, nel suo continuo passaggio di bocca in bocca, ha sempre praticato, bisognerà pure farsene una ragione. L’ho detto in precedenza e lo ribadisco: non esiste un soggetto della poesia ma i soggetti alla poesia. Come dimostra per l’appunto il tanto temuto “io lirico”, che è sempre stato sin da sùbito, persino nell’inno al copyright di Teognide, corale, e dunque al più un soggetto di prima persona plurale. Che cosa ci vedete di veramente soggettivo nell’io lirico per eccellenza, che è quello dei petrarchisti? Questo e non altro aveva intuito il giovanissimo Rimbaud con quel “je est un autre” che è divenuto poi solo un vacuo tormentone. L’io è sempre stato un altro in poesia, con l’unica eccezione del periodo romantico, in cui quello stesso pronome “povera cosa” (per dirla con Gadda) è diventato la più borghese delle rivendicazioni: quella del diritto di proprietà.
Una volta mi hai detto che sei severo con te stesso, concedimi: “un poeta austero”. D’altra parte sei una persona solare e hai un temperamento estroverso. Come concili queste due anime?
Sono severo con le mie opere per lo stesso motivo per cui sono gioviale con gli altri. Pretendo molto da quello che faccio, e lo sottopongo volentieri ad altre autorialità, preferibilmente altrettanto severe, per poter dare quanto più è possibile. Si è estroversi solo in virtù di un’introversione capillare, rigorosa al punto da poter persino divenire un piccolo tormento. Finanche i grandi comici, lo sappiamo, sono nella vita uomini austeri. E talvolta pagano un prezzo molto alto per la loro capacità di essere a tempo debito addirittura irrefrenabili. Pensa a Peter Sellers…
Il tuo linguaggio poetico, forbito e ostico (scusami gli aggettivi grossolani), seleziona un pubblico tanto colto quanto ristretto; è una scelta o un effetto, ovvero quanto cerchi di controllare l’esito e la “fortuna” della tua produzione artistica?
Non credo che il mio pubblico sia ristretto, anzi. Magari i cosiddetti critici di professione, quelli che vivacchiano ancora sulle pagine dei giornali, un po’ mi evitano, perché non possono leggermi in velocità, e finisce che faccio perdere loro del tempo. E come se non bastasse, la mia è una produzione complessiva che non consente facili scorciatoie, come quella per esempio di leggere solo la mia produzione poetica, magari saltellando qua e là come un’ape bottinatrice. La mia poesia, chi la conosce sul serio lo sa, dipende nel bene e nel male da tutto quello che faccio, dalla mia prosa narrativa come da quella scientifica, o dal mio fare musica, teatro, cinema. In molti, rendendosi conto di quanto siano intrecciate, preferiscono saltare a piè pari le mie opere; e fra questi, i più corretti evitano persino di nominarmi, preferendo negare la mia stessa esistenza. Ci sta: perché per come la vedo io, non c’è artista che non si prefigga di seminare discordia e portare la separazione. Se così non fosse, del resto, non farebbe altro che rispondere sempre e comunque con risposte già date. Quando insomma con la tua opera ti prefiggi di sollecitare una riformulazione complessiva di quel processo di ominazione mai ultimato che chiamiamo ancora arte, allora devi fartene una ragione: non puoi avere tutti al tuo fianco. I difensori del senso comune, quelli cioè che non fanno altro che procedere sempre nello stesso senso, a rischio letteralmente di non fare più senso, non potranno che vederti come un alieno. E il modo più facile per trarsi dagl’impicci è quello di darti per non avvenuto. Non è corretto, ma se non altro coloro che si comportano in questo modo almeno non parlano di quello che non capiscono.
I critici invece maggiormente in cattiva fede, e ce ne sono, pur avendo letto di un autore poco o niente, piuttosto che ammettere la loro ignoranza, preferiscono ripetere un po’ di luoghi comuni racimolati qua e là, come se per davvero avessero frequentato le opere dell’autore in questione e fossero oramai in grado di liquidarle con un paio di battute. Naturalmente di quelle che stroncano, perché i giudizi lusinghieri vanno sempre motivati; quelli ostili al contrario si ritiene per consuetudine che diano il meglio di sé in forma lapidaria. A molti miei colleghi so che in tali circostanze corre il sangue agli occhi. A me no: provo in realtà per questi critici per forza di cose malevoli molta tristezza, perché sono talmente trite le cose che ripetono che non ci casca più nessuno, e finiscono puntualmente col fare persino fra i sodali una figura barbina. I cani che la catena costringe a girare solo in tondo, latreranno pure di più degli altri, ma non per questo raggiungeranno mai la preda.
Insomma: non mi sono mai sentito in difetto di pubblico, anche perché lo vedo costantemente rinnovarsi, e soprattutto stratificarsi. E per un motivo molto semplice: il mio non è un pubblico “stagionale”, che dura il tempo concesso a un volume appena edito di restare sullo scaffale di una libreria. Un’opera che chiede al suo fruitore di compartecipare, vale a dire d’impegnarsi a comprendere non quello che è “ostico” ma quello che va per l’appunto compreso, persino a patto di penare un pelo, finisce inevitabilmente col fideizzare, da un lato, e dall’altro col restare disponibile sempre a chiunque. A chiunque abbia ancora voglia di mettersi in gioco, consentendo all’arte quello che da sempre si richiede alle cosiddette opere: vale a dire operare, talvolta persino a cuore aperto. Dai congegni estetici, quali che siano, io per esempio voglio sempre ottenere qualcosa, anche scornandomi (non amerei Pynchon altrimenti… ma nemmeno Dante); e credo che il mio pubblico in questo (e solo in questo) non sia per nulla diverso da me. Il che vuole anche dire, se la richiesta di arricchimento di cui parlo non è certo legata all’età o al sesso o all’etnia o alla classe sociale, che pure volendo non potrei fare l’identikit del mio lettore medio. Mi rendo conto che è un rischio: ma è anche un vantaggio. Magari è questo che mi aiuta a non ripetermi. Come chiunque produce arte, dipendo interamente dal mio pubblico. E se sono quello che sono, diciamo così, è perché il mio pubblico è quello che è: in fieri.
L'autore
- Ilaria de Seta si è formata all’Università di Napoli Federico II, ha perfezionato gli studi all’University College Cork e insegnato all’Université de Liège. Attualmente vive a Bruxelles, è Research Associate alla Katholieke Universteit Leuven e Freelance Editor presso la casa editrice Peter Lang. Ha dedicato numerosi studi alla rappresentazione dello spazio nella narrativa otto-novecenetesca e alla parabola intellettuale di Giuseppe Antonio Borgese. Ultimamente si sta concentrando sull'opera di Federigo Tozzi e sulla rappresentazione di medici e pazienti nella letteratura europea moderna e contemporanea.
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