Poeta, scrittore e performer, Lello Voce è uno dei pionieri europei dello “spoken word” e della “spoken music” ed ha introdotto in Italia il Poetry slam. È stato il primo EmCee al mondo a concepire e condurre uno Slam internazionale (Big Torino, 2002).
Ha pubblicato svariati libri e Cd di poesia, con artisti come P. Fresu, F. Nemola, A. Salis, M.P. De Vito, M.Gross, S. Merlino, tra cui Farfalle da combattimento (Bompiani, 1999), Fast Blood (2003 – Premio Delfini di poesia, con le illustrazioni di Sandro Chia), L’esercizio della lingua (Le Lettere, 2010), Piccola cucina cannibale (Squilibri], con F. Nemola e C. Calia), prima esperienza italiana di poetry comics, per la quale è stato insignito del Premio Napoli 2012. Il suo ultimo libro-CD, sempre con Frank Nemola e con la partecipazione di Paolo Fresu, è Il fiore inverso (Squilibri editore, 2016), a cui è stato conferito il Premio Nazionale “Elio Pagliarani” di Poesia (2016).
È stato autore, con Nanni Balestrini e Paolo Fabbri, del programma televisivo L’ombelico del mondo (Rai EDU), 20 puntate dedicate alla poesia e alle arti.
I suoi romanzi sono ora riuniti ne Il Cristo elettrico (No reply, 2006, e-book Terra Ferma, 2014). Suoi testi sono tradotti in inglese, francese, spagnolo, catalano, galego, portoghese, tedesco, giapponese, cinese, greco, arabo.
È uno dei membri fondatori e fa parte del Comitato Esecutivo del World Poetry Movement (Festival Internacional de Poesia, Medellin, 2011). Dal 2017 è il Chief Editor, di Canzoniere, collana di libri/CD dedicati alla poesia con musica e ai Poetry comix, presso l’editore Squilibri.
Ha tenuto rubriche (TAZ, Net&Blog) sulla pagina cultura dell’Unità per svariati anni, interessandosi di cultura, poesia, società e nuove tecnologie. Attualmente ha un blog su Ilfattoquotidiano.it e uno su Satisfiction.me.
Ha diretto svariati festival internazionali di poesia tra cui romapoesia e Absolute Poetry e ha partecipato a reading e tenuto concerti di poesia in molte parti d’Europa e del mondo.
Da anni si interessa di rapporti tra oralità e scrittura e delle conseguenze antropologiche delle società a forte medializzazione con saggi e interventi su riviste e quotidiani.
Ulteriori informazioni sono reperibili nel suo sito: www.lellovoce.it.
Un caleidoscopio di poesia, musica, illustrazione, riflessione saggistica, in cui la somma delle parti compone un risultato tanto imprevedibile quanto olistico rispetto alle componenti di partenza: questo mi è venuto in mente leggendo e ascoltando le uscite di “Canzoniere”, la collana che curi per la casa editrice Squilibri. Sapresti dirmi di più sulla raison d’être che ha condotto a un’operazionevitale, interartistica e fuori dagli schemi come questa?
La poesia è un’arte amichevole ed è l’unica arte ad aver cambiato, nel tempo, il suo medium di trasmissione: dall’oralità alla scrittura (ed oggi, con buona pace degli accademici, torna a farsi oralità). Questo ne fa un’arte ‘liquida’, capace di mescolarsi e dialogare, disponibile al cortocircuito con l’altro da sé. Con la musica poi il rapporto è primigenio e ‘radicale’: la poesia nasce musica. Oggi, a mio modesto avviso, quest’essere pluriverso della poesia è la sua caratteristica più vitale e decisiva, quella che, per una volta ancora, la farà sopravvivere al mutamento. Il salto di paradigma, il ribaltamento tra oralità e scrittura nelle culture contemporanee è evidente e irrespingibile. La poesia mi pare la più attrezzata a interpretarlo a fondo, testimonia, con i suoi mutamenti, il mutamento strutturale a cui stiamo assistendo. Canzoniere nasce per questo, per essere la prima collana di poesia che si dà quest’orizzonte, quello del dialogo della poesia con le altre arti, siano sonora, come anch’essa basilarmente è, o visive, come i Comics. Con Gabriele Frasca (che con me e con Claudio Calia e Frank Nemola dirige la collana) abbiamo recentemente pubblicato uno scritto piuttosto denso, Avviso ai naviganti, pubblicato su Alfabeta2 e che affronta proprio queste tematiche, è, se vuoi, l’impianto teorico (e di poetica) che sta dietro alla decisione di dare vita a Canzoniere. E a quello rimanderei per un approfondimento di questi temi, che sono complessi ma decisivi.
Nel tuo Il fiore inverso ti ricolleghi fin dal titolo ad Ar resplan la flors enversa di Raimbaut d’Aurenga e scorrendo il libro si incontrano interlocutori in versi come Arnaut Daniel e forme trobadoriche di tradizione “alta” – highbrow, come dicono gli americani – che spaziano dalla (pseudo)sestina, all’ottava caudata, al lai. Tutto questo viene mescolato, anzi “mixato” più propriamente, a stili musicali diversi come il free-jazz, il rap, addirittura degli echi di salsa. Come ti è venuto in mente di fondere forme poetiche e musicali in modo così iperbolico?
Mescolare, provocare corti circuiti, terremoti formali, scarti è la cosa che faccio con più gusto. Da sempre. Mi affascina, ancora a 60 anni, giocare al Piccolo chimico o all’apprendista stregone. La poesia è rischio, diceva Augusto De Campos. La poesia è assumersi insomma una responsabilità. Non c’è arte alcuna nell’epigonismo (e la maggior parte della poesia italiana highbrow, per dirla con te, è sconsolatamente epigonica). È affascinante far cozzare le forme, farle dialogare tra loro, cercare nel vortice che si crea il profilo di qualcosa di nuovo, che prima non c’era. Né si è trattato di semplice giustapposizione, di collage. Ad esempio un brano come quello che dà nome al libro (e al disco) Il fiore inverso musicalmente ha alla sua base la struttura armonica di una Canso provenzale ma totalmente stravolta dai suoni tecno, o la Milonga mutante, che pure sta lì, letterariamente nega la tematica classica delle milonghe (quella d’amore), mentre musicalmente il suo ritmo è disturbato continuamente da uno spostamento delle percussioni che trasforma i ¾ del tango in qualcosa di sonoramente assai inquietante ad un orecchio allenato a cogliere le dinamiche sonore. Scegliere di partire dal caos è l’unico modo che conosco per iniziare a parlare un linguaggio nuovo. Viene prima il dialogo, solo dopo le lingue. Almeno per me è così.
Giro a te una domanda “faziosa” ricevuta nel mondo dell’accademia italiana fin da quando ho iniziato a muovere le mie prime ricerche sulle intersezioni tra musica e letteratura, argomentata da molti critici e scrittori – anche con una certa acredine e invidia, probabilmente – dopo il Nobel a Bob Dylan: il testo per musica non è poesia e non potrà mai esserlo, ogni esperimento moderno in tal senso è solo qualcosa di “pop” da confinare al massimo nei Cultural Studies. Io credo – non in assoluto, ma in alcuni casi certamente – che non sia affatto così e che anche questa tua collana spezzi una lancia a favore della tesi contraria. Che idea ti sei fatto tu sulla questione?
L’accademia italiana è molto brava a delegittimare tutto ciò che non comprende, per cui non ha strumenti d’analisi. L’accademia italiana, quand’anche, sa solo di letteratura e la poesia è nata millenni prima di qualsiasi letteratura. Che facciano filologia o cultural studies, semiologia o investano tutto sull’interpretazione psicanalitica o strutturalista o formalista o il diavolo sa che cosa i nostri critici, nella maggior parte dei casi, identificano la poesia con la carta e con il libro, cioè con la letteratura. È qui che sta il problema: che la poesia non è letteratura, ha un aspetto letterario (ma lo hanno anche le canzoni e sin le canzonette, i testi di sociologia, quelli di critica, i saggi medico-scientifici e le istruzioni per l’uso della lavatrice: tutta letteratura), ma non si esaurisce in essa. La poesia è un atto linguistico e comunicativo basilarmente sonoro. Anche se la si legge ‘a mente’ va eseguita. Altrimenti non funziona. È fatta di parole, certamente, ma anche di pause, di accenti di velocità di esecuzione, di tonalità e volumi. La poesia, insomma, ha una parte analfabeta, che rimane del tutto estranea ai nostri accademici coevi. Ce ne fosse qualcuno che avesse ancora la competenza che aveva il Carducci dei generi ‘misti’, musicali e poetici. L’arte, tutte le arti, anche la poesia, stanno lì a ricordarci che è più importante la vita. E la vita è dinamica, non segno. E la poesia è viva. Dylan può piacere o no, ma è indiscutibile che le sue canzoni (ed i testi, letterari, delle sue canzoni) hanno cambiato un’epoca. Hanno lasciato un segno ben più evidente dei nostri poeti neo-orfici o di qualsiasi altro facitore di versi, compreso Quasimodo, o raccontatore di storielle tipo Baricco, per esempio. Peraltro il Nobel si assegna (quando lo si fa, per quest’anno saltiamo un giro) alla letteratura, mica alla poesia. Dire che quella che fa Dylan non è poesia, oltre ad essere un truismo, è un’argomentazione senza senso. E quando siè assegnato ad autori di teatro allora? E se la poesia non ha nulla o poco a che fare con la letteratura, perché premiare un poeta? Insomma, ciò che sconvolge l’accademia italiana è ciò che vede come ignoto – hic sunt leones… e poetry slam e Dylan e stand up poetry e poesia con musica. Orrore! – .Ma quando mai un’accademia si è assunta il rischio di mettersi in discussione, quando mai si è assunta la responsabilità di cambiare le cose? Le cose le cambiano i poeti, gli scrittori, gli artisti, mica i critici… E per fortuna.
Trovo coraggiosa ed estremamente significativa la volontà di dare a questi tuoi esperimenti poetici una dimensione live, portandoli “dal vivo” in tutt’Italia al fine di renderli effettivamente vivi tra la gente, recuperando anche la dimensione itinerante e performativa che storicamente la poesia ha sempre avuto – checché ne dicano quei letterati e critici che «fiutano a nari tese», per dirla con Maria Corti – a partire dall’antica Grecia e arrivando fino alla tradizione canterina rinascimentale. Che valenza ha per te questo aspetto e che relazione si è instaurata, nella tua esperienza, con il pubblico? (Ricordiamo con l’occasione che il 10 Maggio sei stato con Kento, Miro Sassolini, Frank Nemola e molti altri al Teatro di Tor Bella Monaca a Roma).
La poesia esiste soltanto quando la si esegue. I poeti sono vivi, non sono i loro libri, ma i loro corpi e la loro capacità di dar fiato alle loro parole. Non mi piace quando mi definiscono un ‘poeta performativo’. Cos’altro può essere un poeta, o comunque, che c’è di strano, di ‘non poetico’ in un poeta che attribuisce all’esecuzione dal vivo dei propri testi un valore fondamentale? D’altra parte sul palco di questo e quel festival salgono tutti, anzi i più lesti e i più presenti sono proprio quelli pronti a giurare che la vera poesia sta soltanto nel silenzio dei libri. E non mancano, da un po’ di tempo, di inzeppare i loro eventi di musicisti che fanno siparietti, magari colti (viole, violini e viole d’amore) ma sempre siparietti. Cosa ci fanno, lassù, se la vera poesia è soltanto nel silenzio della letteratura? I piazzisti dei propri volumi? Advertsing? Io quando salgo su un palco, provo, per quello che son capace, di fare poesia e di farla attraverso il mio corpo e il mio respiro. E la gente che mi sta davanti è parte integrante di quell’atto di poesia. Ne è autrice con me, per questo non c’è una performance uguale ad un’altra. Salgo sul palco per respirare insieme. Per dire insieme. Per dare vita, insieme, a quello che io penso che la poesia sia.
Oltre al progetto con la mia band, ho la fortuna di suonare con Carlo e Paolo Verdone, in cui ho sempre trovato un animo anche letterario molto sensibile, che in qualche modo “trascende” il medium poetico aprendolo ad altre forme d’arte, come esortava Pasolini. Perciò da musicista e “musicatore” (visto che ultimamente mi si chiede sempre più di musicare componimenti), devo farti quest’ultima domanda: com’è stato collaborare con musicisti del calibro di Paolo Fresu e Frank Nemola e soprattutto qual è stato, nel caso di questo esperimento, il loro particolare approccio alla musicazione sub specie poetica?
La poesia sarebbe un’arte solitaria, dicono. Collaborare con artisti della levatura di Paolo Fresu o Frank Nemola è stata ed è un’esperienza unica, indimenticabile, entusiasmante. E questo lo devo insieme alla loro assoluta, totale competenza e alla enorme umiltà. Lavorare con la poesia significa per loro lavorare per la poesia. Per signora tengo l’orazione, diceva Monteverdi. Ecco, proprio così. A dare i tempi, i ritmi, gli accenti, le melodia dev’essere sempre la poesia. Alla musica sta il compito di interpretare quella parte analfabeta dei versi di cui parlavo prima: espanderla, trasformarla, farla levitare intorno al suono delle parole. Chiedere a artisti dell’importanza di Fresu e Nemola di fare questo lavoro, lasciando che sia la poesia, le sue parole, a stare in proscenio è chiedere loro un atto di amicizia e di umiltà. Che non è mai mancato. Alle musiche lavoriamo assieme, nascono dopo lunghe discussioni sui significati e sulle forme dei testi e soprattutto dopo una prima incisione a voce nuda, con il solo ausilio del clic metronomico. Quelle sono le fondamenta. Cioè la poesia. Tutto il resto viene dopo, viene con e per la poesia. È, in se stessa, poesia. Proprio perché è musica.
L'autore
- Nato a Roma e laureatosi in Italianistica all’Università di Roma Tre con una tesi su P. P. Pasolini, Giulio Carlo Pantalei è oggi dottorando in Lettere nella stessa Università e Visiting PhD presso la University of Cambridge. Cantautore e musicista, oltre che ricercatore, è fondatore della band “Panta” e ha collaborato con artisti nazionali e internazionali tra cui Paolo e Carlo Verdone, Calexico + Iron & Wine, David Lynch Foundation, Capovilla, Canali e l’ong ONE di Bono Vox. La sua tesi, svolta tra Roma e Oxford, riguardo il rapporto tra la Letteratura Italiana e la musica angloamericana è stata pubblicata nel 2016 da Arcana col titolo di Poesia in forma di Rock, oggi alla seconda edizione.
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