Valério Romão (1974) è poeta, traduttore e scrittore. Ha pubblicato i romanzi Autismo (2012) e Quello che è successo a Joana (Roma, Caravan edizioni, 2017, traduzione di Vincenzo Barca) che, nelle intenzioni dell’autore, dovrebbero far parte di una trilogia intitolata Paternidades falhadas (Paternità mancate), e le raccolte di racconti Facas (2013) e Da família (2014). Autismo è stato recentemente tradotto in francese.
“Joana aspetta da otto anni di diventare madre. Insieme al marito ha già cambiato tre volte il colore della stanza del bimbo. Quando una notte, al settimo mese di gravidanza, le si rompono le acque, corre in ospedale seguendo un piano che ha programmato sin nei minimi dettagli. La sala travaglio è una stanza delle torture dove le donne affrontano la ritmicità dei dolori nell’indifferenza professionale del personale sanitario. Ma le cose non vanno secondo le previsioni. Errore umano? Destino geneticamente determinato? Unica via di fuga per far fronte a un inaccettabile fallimento sarà scivolare in una follia straripante, in grado comunque di procurare a Joana un’inattesa forma di consolazione”.
Una delle cose che emergono di più nelle tue interviste, o nelle recensioni ai tuoi libri, è la dimensione dolorosa delle storie che racconti, un «espaço de tanta dor» che tu preferisci definire «cenas quotidianas normalmente mal iluminadas». Ti vorrei chiedere allora cosa ti porta a raccontare e descrivere quelle scene? Cos’è che ti ha spinto a scrivere i libri (due pubblicati, uno da scrivere) della trilogia paternidades falhadas (paternità mancate)? Libri in cui parli, nel caso di Autismo, di un bambino autistico, e, in Quello che è successo a Joana, di una nascita prematura, di un bambino nato morto.
Il dolore non è l’unica cosa che ricerco quando mi appassiono a un tema di cui ho voglia di scrivere. Allo stesso tempo cerco intensità, genuinità e un certo grado di penombra (nel senso che il tema che decido di affrontare non deve essere stato troppo trattato, per non contribuire a parlare di quel tema con ulteriore “rumore”). Poi, quando finalmente comincio a scrivere, cerco di essere il più onesto possibile nella descrizione di quell’esperienza.
A un certo punto della narrazione, quando il dramma di Joana si è già innescato e lei viene portata in sala parto, sballottata da una parte all’altra, c’è un passaggio in cui scrivi «reage Joana, faz-te à vidinha senão a vidinha faz-se a ti» («reagisci Joana, mangiati la vita se no la vita si mangia te»), e in quel momento, per un attimo, ho pensato che Joana potesse realmente affrontare il suo dolore in maniera lucida, coraggiosa, onesta, senza inganni, guardando in faccia la realtà, prendendo consapevolezza dell’incubo che stava vivendo. E invece, subito dopo, la ritroviamo a chiedere aiuto al soffitto, per essere liberata e per potersi difendere dalle infermiere che secondo lei vogliono portarle via il bimbo (morto). Alla fine del libro perciò mi sono chiesto se Joana fosse un personaggio che resiste, che in qualche modo combatte la sua sventura (in un modo che ha i sintomi della follia), o un personaggio che cede del tutto, che si arrende, di fronte al suo “inferno”.
È difficile immaginare il dolore di una madre che perde il figlio, anche se durante la gravidanza. Per Joana, che ha una personalità ossessivo-compulsiva e che incanala la sua ossessività nel sogno di diventare finalmente madre, è immaginabile che non possa sopravvivere, perlomeno incolume, alla tragedia di perdere un figlio, e doverlo, anche così, partorire. C’è un registro di ambiguità e di pazzia che attraversa tutto il testo e che fa sì che nulla sia completamente trasparente né totalmente razionale.
Ho percepito la narrazione come un lungo piano sequenza, sostenuto da uno stile torrenziale e continuo, fatto di lunghe cavalcate di pagine scandite solo da virgole, una scrittura cruda, dura, condensata. Se da una parte questo è proprio il tuo stile, dall’altra mi chiedo se tu non abbia fatto un lavoro stilistico in particolare per questo libro: per tenere alta la tensione, per non perdere l’attenzione del lettore, per creare suspense nei momenti più drammatici della narrazione.
Lo stile cambia a seconda del libro. In Quello che è successo a Joana ho scelto, come hai ben notato, di “filmare” un lungo piano sequenza, utilizzando meno punteggiatura “lunga” possibile (punti finali, esclamativi, ecc.) e privilegiando il flusso di coscienza, che mi sembrava la cosa più adatta a una storia che si svolge, più o meno, in sei ore. Ho anche pensato che iniziare direttamente con il ricovero in ospedale non funzionasse, e perciò ho voluto ricorrere alla tecnica MacGuffin, che è stata utile a dare anche una certa aura onirica e fantasmagorica a tutta la narrazione.
In alcune interviste hai parlato di echi di Antonio Lobo Antunes, di citare “spudoratamente” il Saramago di Tutti i nomi, di riferimenti che vengono soprattutto dalla filosofia; ma, mi viene da chiederti, ci sono altre opere (e non autori) che ti hanno ispirato nella scrittura di Quello che è successo a Joana? Film o libri che trattano gli stessi temi, o temi simili, in una maniera che hai apprezzato? Oppure, rigirando la domanda, film o libri che trattano gli stessi temi in una maniera che non hai apprezzato (troppo emotivi, artificiosi, disonesti) e che ti hanno spinto a scriverlo alla tua maniera?
C’è tanta “letteratura della disgrazia”, in varie forme. Ci sono molti libri, film e opere d’arte che, affrontando un tema complesso e doloroso, finiscono per sublimarlo a tal punto da svuotarlo di qualsiasi tipo di vitalità. Il risultato, a mio avviso, è meschino e codardo. Se parli con una persona che ha un melanoma grande come una gamba, non puoi non parlare del colore, dell’odore, dell’aspetto di quella persona, della sua malattia, di ciò che ti dice e di ciò che non ti dice. Se una persona ha il coraggio di condividere con te un’esperienza simile, devi avere a tua volta il coraggio e l’onestà di avvicinarti a quella persona il più possibile.
Che legame hanno, secondo te, disgrazia e povertà? Anche in Quello che è successo a Joana, Joana e Jorge sono due persone povere, persone che affrontano la vita dicendosi: « […] siamo poveri, ma qualcosa ci inventeremo».
Penso che la povertà abbia vari livelli. Se vissuta in armonia con l’ambiente circostante e con la comunità, allora non significa disgrazia. Ma la povertà vissuta nelle città, nei sobborghi, nelle grandi metropoli, è spaventosa. La vita nelle grandi città è terribile e il denaro, di fatto, è l’unico mezzo per usufruire di questa vita.
L’elemento olfattivo ritorna spesso nel testo, soprattutto questo «odore salmastro» (per esempio: «[…] sembrava che avessi fatto pipì a letto e aveva un odore strano, sa dottore, come… salmastro, completa il medico, no, non era esattamente salmastro, ma può essere, in fondo sono odori che possono avere una certa somiglianza», «[…] ma l’acqua non ha questo odore, pensa Joana, e mentre sottopone, con la punta delle dita, l’odore al giudizio del naso e alla memoria olfattiva, accade qualcosa, un’identificazione imprecisa […] si rende conto che è di sperma l’odore che occupa il suo letto», «[…] altre volte sono quelle macchie invisibili di acqua, quelle che odorano di mare, non so se le è capitato, sì, risponde Joana, ma odorano di sperma, non di mare, di sperma, hanno quasi lo stesso odore e possono confondere un naso non tanto esperto»), e mi sembra che in generale ci sia una grande attenzione per tutti quei dettagli realistici (sperma, sangue, merda, sudore) che rendono la nascita di un bambino non solo qualcosa di stilizzato, idealizzato, felice, ma anche traumatico, drammatico, doloroso, sporco, “puzzolente”.
La nascita di un bambino, la morte, la malattia non sono processi incontaminati, come la crescente igienizzazione della società vorrebbe farli apparire. Ci sono sangue, feci, urina, odori e tessuti che nessuno di noi vorrebbe sperimentare, ma dobbiamo sapere, se vogliamo comprendere alcune verità fondamentali della vita, che non esistono soltanto come li percepiamo tutti i giorni, ma anche nelle nascite, nelle morti, negli interventi chirurgici, ecc.
A proposito di “letteratura della disgrazia”, ti è capitato di leggere Vite che non sono la mia di Carrère? È un libro sulla vita e sulla morte, sulla povertà e sulla giustizia, sulla malattia e soprattutto sull’amore, è un libro dal quale non ci si può rifugiare nell’idea confortante che ciò che è scritto è finzione, perché è un libro di non-fiction, un libro in cui tutto è vero. Perciò ti chiedo, la letteratura non–fiction può essere il mezzo più efficace per raccontare qualcosa di doloroso e complicato?
No, non l’ho letto. Ma non-fiction o auto-fiction è un dilemma che non mi interessa. È il risultato ciò che mi interessa: se un’opera è in grado di trasmettere un’esperienza, se ha qualità letteraria, ecc.
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L'autore
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Paolo Valoppi, nato a Roma nel 1990, lavora come editor per Einaudi Stile Libero. Precedentemente ha lavorato come editor e redattore per Voland e 66thand2nd. Scrive per diverse riviste e suoi articoli sono apparsi su «minima&moralia», «Nazione Indiana», «Thetripmag», «pagina99». È tra i docenti della Scuola di scrittura Omero.
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