Memorie d'oltreoceano

Il precariato accademico negli Stati Uniti

“Se Lei avesse un dottorato in contabilità [Accounting], avrebbe più possibilità di trovare un lavoro permanente in accademia…”. Non è proprio quello che uno vorrebbe sentirsi dire dopo una laurea in lingue e un paio di Ph.D. in due diverse discipline delle Scienze Umanistiche (le cosiddette Humanities), di cui uno conseguito in un’università americana… Tuttavia è successo, ma quest’esperienza mi ha permesso di riflettere su quello che sta accadendo nell’università statunitense, soprattutto per quello che concerne il precariato, che ad oggi rappresenta più del 75% di un corpo docente che spesso sopravvive con stipendi sotto il livello di sussistenza e in molti casi senza assistenza sanitaria, un problema di non poco conto in un paese come gli Stati Uniti.

Per comprendere le proporzioni del problema del precariato accademico oltre oceano, si deve prima spiegare il processo della carriera universitaria partendo dalle posizioni permanenti full-time, coperte da docenti titolari di cattedra, stipendio e assicurazione sanitaria garantiti. A questo proposito, è opportuno innanzitutto chiarire che per la maggior parte di queste posizioni è richiesto il dottorato (Ph.D.), possibilmente ma non necessariamente conseguito in Nord America. Una volta ottenuto l’agognato quanto mai necessario titolo di studio, il candidato o la candidata va sul Job Market, il mercato del lavoro (una descrizione tanto umoristica quanto veritiera del processo di assunzione può essere letta qui). La posizione più ambita cui si fa domanda è generalmente quella da Assistant Professor (professore assistente, simile al ricercatore), definita anche Tenure-track (una specie di periodo di prova), che dura mediamente sei anni, anche se il numero di anni può variare da un’università all’altra oppure dall’aver già accumulato esperienza accademica altrove. In questi sei anni, l’Assistant Professor che aspira ad essere promosso Associate Professor (professore associato) deve essere valutato sulla base dei tre pilastri rispettivamente dell’insegnamento (>teaching), della produzione accademica (scholarship, per esempio pubblicazioni e conferenze; la quantità e la qualità delle pubblicazioni cambiano da un’università all’altra) e del “servizio” (service, ad esempio partecipazione a commissioni organizzative o al processo di assunzione di nuovi colleghi) reso all’università, che spesso non è retribuito né suggerito, quanto piuttosto richiesto. Se le valutazioni su questi tre fronti sono positive, in questi sei anni l’Assistant Professor viene rinnovato su base annuale, biennale o triennale, prima di giungere alla promozione vera e propria alla fine del periodo di prova, nella maggior parte dei casi molto impegnativo. Se poi è promosso come professore associato e ha quindi ricevuto la Tenure diventando così Tenured con un contratto a tempo indeterminato, lo stesso generalmente rimane in questa posizione finché non fa richiesta di diventare professore ordinario (Full Professor) sulla base dei meriti, oppure rimane nella posizione di associato fino alla pensione.

Oltre alle posizioni permanenti e come già anticipato, esiste anche la categoria dei precari non in Tenure-track, definita col termine generale di Contingent Faculty (circa il 75-80% del corpo docente). Tale categoria include sia i docenti part-time (gli Adjunct) che i docenti full-time non in Tenure-track, ovvero i lettori (Visiting Lecturer, Lecturer, Senior Lecturer e Lecturing Fellow) e i professori assistenti in visita (Visiting Assistant Professor). Poiché sussistono differenze anche sostanziali da uno stato all’altro e da un’università all’altra, regna ancora una gran confusione proprio su titoli, contratti e benefits (per esempio quelli pensionistici e sanitari), tanto da rendere difficile una generalizzazione che si adatti ad ogni realtà universitaria statunitense.

Com’è facile immaginare, negli Stati Uniti il problema del precariato in generale e degli Adjunct in particolare sta diventando un argomento alquanto dibattuto, soprattutto per il pesante impiego da parte di molte università di queste figure professionali, le quali spesso ricevono stipendi sotto il livello di sussistenza e rimangono senza garanzie su breve e lungo termine. La mobilitazione è ormai nazionale e coinvolge sindacati e associazioni di settore, mentre si stanno formando movimenti a sostegno di questa categoria professionale, come per esempio quello di Faculty Forward.

Per la loro funzione originaria, gli Adjunct, il cui termine ha purtroppo acquisito una valenza negativa, sono delle figure d’insegnanti che in teoria dovrebbero essere chiamate dalle università solo in caso di necessità effettiva e per un tempo limitato, mentre in realtà stanno sostituendo i Tenure-track. Inoltre, se il numero di corsi insegnati a semestre da Tenure-track, Tenured, e full-time Faculty non in Tenure-track può variare considerevolmente da un’università all’altra (generalmente si va da un corso a quattro a semestre, con lo stipendio annuale negoziato al momento del contratto), gli Adjunct insegnano da uno a cinque e più corsi a semestre, magari in molteplici istituti universitari, e questo per cercar di condurre un’esistenza dignitosa e pagare le bollette a fine mese (sulla situazione economica degli Adjunct, si vedano i dati pubblicati da Faculty Forward). Lo stipendio è calcolato per corso a semestre (che dura circa 15 settimane, anche se ci sono università che funzionano su tre trimestri di circa 10 settimane l’uno) e parte da circa 1.500 dollari, con una media di 2.500 dollari sempre a corso e sempre a semestre (per una panoramica degli stipendi divisi per istituti universitari, si vedano i dati sul Chronicle of Higher Education). Certamente ci sono anche università, specialmente private, che pagano stipendi ben più alti di quelli appena citati, ma queste rappresentano dei paradisi perduti in una realtà tutt’altro che rosea. In ogni caso, anche se gli Adjunct insegnano lo stesso numero di corsi – se non di più – di un professore a tempo pieno (sia in Tenure-track che non), questi sono comunque considerati e trattati a tempo parziale, con il numero di corsi loro assegnato ogni semestre che può variare considerevolmente, fino al mancato rinnovo del contratto per il semestre successivo. Per di più, i contratti sono molto spesso rinnovati agli Adjunct poco prima dell’inizio del semestre e questo dipende anche dall’attivazione o meno dei corsi loro assegnati o destinati a colleghi full-time, i quali devono comunque onorare il teaching load (il numero annuale di corsi che un docente a tempo pieno deve obbligatoriamente insegnare da contratto).

A questo punto sarà utile chiarire che l’attivazione di un corso è legata al numero minimo di studenti iscritti, il quale può variare considerevolmente da un’università all’altra: se non ci sono abbastanza studenti, il corso rischia di essere cancellato indipendentemente da chi lo insegna. Questa situazione rende la posizione finanziaria degli Adjunct ancora più precaria in quanto, nella maggioranza dei casi, l’università non si assume rischi economici: se un corso non attrae abbastanza studenti e quindi non produce reddito (gli studenti pagano le tasse universitarie in base al numero di corsi che frequentano), il corso è passibile di chiusura immediata. Se il corso era stato assegnato a un Adjunct, lo stesso non riceve il contratto per quel corso, ma se il corso doveva essere insegnato da un Tenure-track o Tenured Faculty, spesso tale docente viene spostato su un altro corso precedentemente assegnato ad un Adjunct, che è dunque costretto a cedere il posto con conseguente recessione del contratto. Poiché il corpo docente è in continua evoluzione, si può facilmente evincere come la continuità didattica risenta di questa situazione, con gli studenti che spesso rischiano di perdere punti di riferimento importanti sia a livello formativo che personale.

Poiché molti amministratori ritengono che le posizioni precarie offrano una maggiore flessibilità e un risparmio ingente sugli stipendi degli insegnanti, negli ultimi quaranta anni si è registrato un pericoloso incremento delle posizioni precarie a scapito di quelle permanenti. Al momento pare difficile avere la stima esatta dei precari proprio perché fonti diverse offrono dati leggermente divergenti, anche se si può facilmente sostenere che oggi i precari universitari rappresentano tra il 75% e l’80% dell’intero corpo docente. Stando ai numeri appena pubblicati sul bollettino della National Education Association (NEA), attualmente più del 75% dei docenti universitari americani insegnano senza contratti Tenure-track (“NEA Higher Education Advocate”, Vol. 3, n. 4, Sett. 2015, p. 3). Inoltre, secondo i dati del Chronicle of Higher Education, tra il 1975 e il 2011 si è registrato un aumento del 27% dell’impiego degli Adjunct contro una diminuzione del 27% dei Tenured Faculty (professori associati e ordinari). Secondo questi dati, se i Tenured Faculty rappresentano il 21% della forza lavoro e i Tenure-track Faculty il 9%, si ha la conferma di come l’università statunitense si appoggi soprattutto ai Contingent Faculty (secondo questi dati, il 70% del totale). Tra l’altro, di questo 70%, il 19% sono docenti full-time non in Tenure-track (Visiting Assistant Professor, Visiting Lecturer, Lecturer, Senior Lecturer e Lecturing Fellow) e il 51% sono docenti part-time (gli Adjunct in senso proprio). Infine, i dati che emergono dalla relazione annuale dell’American Association of University Professors (AAUP) sullo stato economico della professione per l’anno accademico 2014-2015 lamenta un ulteriore incremento delle posizioni precarie a scapito di quelle permanenti e proprio negli ultimissimi anni: “in 1975, full-time tenured and tenure-track faculty composed 45.10 percent of the total instructional faculty. Today, only 20.35 percent of instructional faculty are full time and tenure track”. Anche se questi dati denunciano un’ulteriore diminuzione del 10% di Tenured e Tenure-track rispetto al 2011 (i Contingent Faculty sarebbero circa l’80% del corpo docente), quello che ci preme evidenziare e ribadire è l’allarmante andamento delle assunzioni, con la tendenza ad assumere sempre più precari, sia full-time che soprattutto part-time, a scapito delle posizioni Tenure-track.

Da questi dati è chiaro che, con il considerevole aumento del numero dei precari in ambito accademico e la progressiva diminuzione delle posizioni permanenti, aumenta l’età dei professori associati e ordinari, come d’altronde sta accadendo in Italia. Stefano Paleari, Rettore dell’Università degli Studi di Bergamo e presidente della Conferenza dei Rettori delle Università italiane (CRUI), che si è espresso sulla fuga dei cervelli italiani, sui fondi dedicati alla ricerca e sulla situazione accademica italiana in generale, è stato molto chiaro: “In Italia perdiamo ricercatori a causa dei tagli che sono cominciati nel 2008: oggi i ricercatori che hanno una età tra i 31 e i 35 anni sono un quarto di quelli che c’erano allora, non abbiamo che 8 professori ordinari sotto i 40 anni. Ormai i docenti ordinari sono in media più vecchi dei rettori. Con questi numeri non solo non riusciamo ad essere attrattivi per ricercatori e prof ma neppure potremo mai rilanciare il nostro sistema universitario” (Corriere della Sera).

Se in Italia l’università versa in difficili condizioni, non si deve dunque pensare che negli Stati Uniti questa goda di ottima salute come in passato, specialmente per quanto riguarda le Scienze Umanistiche, dove le posizioni Tenure-track sembra stiano diminuendo ancora più vertiginosamente e a favore di discipline più “lucrose” come per esempio quelle economiche. Proprio in questi giorni mi sono sentita ripetere da un amministratore che con un Ph.D. (il terzo!) in Business Administration avrei le porte aperte per un’assunzione permanente. Scherzando, ho risposto che i soldi preferisco spenderli piuttosto che insegnare agli studenti come contarli… Questo solo per reiterare che non vendo l’anima al diavolo. Nemmeno per una posizione Tenure-track.

Ringraziamenti: Questo contributo non sarebbe stato possibile senza i preziosi suggerimenti di Tania Convertini, Matteo Gilebbi e Diana Silverman, a cui vanno i miei più sentiti ringraziamenti.

Creative Commons License
This work is licensed under a Creative Commons Attribution-ShareAlike 3.0 Unported License

L'autore

Chiara De Santi
Chiara De Santi
Chiara De Santi è Assistant Professor in Lingue Moderne presso Farmingdale State College, SUNY. Precedentemente, come lettrice, ha insegnato una varietà di corsi di lingua, cultura, letteratura e cinema italiani, e discipline cinematografiche presso l’Università Statale di New York a Fredonia.  Ha un Ph.D. in italianistica dell’Università del Wisconsin-Madison, e un Ph.D. in storia e un Masters di Ricerca dell’Istituto Universitario Europeo. Si è laureata in Lingue e Letterature Straniere presso l’Università degli Studi di Firenze, specializzandosi in russo, francese e storia. I suoi interessi di ricerca includono il cinema italiano, italo-americano e hollywoodiano; la cultura, la gastronomia e la storia italiane; la letteratura italiana moderna e contemporanea; l’italiano come L2.