Libro Futuro

Editoria e digitale. Una riflessione sulle nuove tecniche di riproducibilità del prodotto artistico

Colgo volentieri lo spunto offerto dall’articolo di Alessandro Magno “I lettori di Ebook, in Italia e nel mondo” per una riflessione sulla supposta crisi nelle vendite di libri attribuibile alla pirateria.

Come già accaduto a suo tempo con quello musicale, si tende a dare la colpa della crisi del mercato editoriale allo scaricamento illegale dei testi. In realtà, trovo un po’ noioso questo piangersi addosso per non ricercare i reali motivi del calo di vendite; come avveniva per il cinema prima e poi per la musica, una flessione negativa si era cominciata a registrare già anteriormente alla diffusione della rete e dell’elettronica applicata alla riproducibilità artistica. Non me ne vogliano gli editori, siano essi musicali, cinematografici o librari: non voglio dimostrare niente, tanto meno giustificare comportamenti illegali; vorrei solo aggiungere una voce a questo dibattito a distanza che trovo molto interessante. Anzi tenterò un esperimento, probabilmente nemmeno tanto originale: supportare questo mio articolo unicamente con dati da fonti assolutamente affidabili e autorevoli, ma interamente reperiti in rete, in modo che sia immediatamente possibile al lettore – o all’editore – averne riscontro e consultarli in tempo reale durante la lettura.

Per avere un’idea del fenomeno, diamo un’occhiata anzitutto ai dati. Partendo da quelli di vendita e di lettura dei libri.

Nel 2014, oltre 23 milioni 750 mila persone maggiori di 6 anni, cito dati ISTAT, dichiarano di aver letto nell’ultimo anno almeno un libro per motivi che non fossero scolastici o professionali; si tratta del 41,4% della popolazione. L’anno prima erano stati 24 milioni, il 43% della popolazione, sempre secondo l’ISTAT. Ma nel 2012 erano il 46%, per cui in due anni una persona su venti ha smesso di leggere. Volendo sdrammatizzare, potremmo divertirci ad affermare con un paradosso che se tale indice di tendenza -quasi il 5% in meno in due anni- rimanesse invariato, nel 2021 più nessuno leggerebbe un libro in Italia. Solo sedici anni per azzerare non solo il mercato, ma la cultura, la lettura come diletto.

Ciononostante, continuano a crescere i titoli pubblicati e anche il numero di copie stampate, come evidenziato da un preoccupante rapporto Nielsen, il che inevitabilmente si tradurrà in un maggior reso e maggiori costi da ammortizzare. I titoli pubblicati sono infatti aumentati del 6,3% nel 2013 (fonte ISTAT), mentre nel 2014 le copie in commercio hanno avuto un ulteriore incremento, rispetto all’anno precedente, del 6,1% (fonte AIE); così come si è accresciuto, nel 2013, del 2,5% il numero di copie stampate, a fronte della consistente diminuzione del numero dei lettori che abbiamo visto.

Se il mercato accusa un 5% circa di calo dei lettori, si aggira intorno ai cinque milioni il numero di quanti dichiarano di aver letto o scaricato libri dalla rete (fonte ISTAT). Un numero leggermente maggiore di quanti hanno smesso di leggere. Ma attenzione: questo 8,7% che scarica libri anzitutto rientra nella percentuale di coloro che comunque sia leggono; inoltre, non sono tutti pirati: molti di loro hanno scaricato libri liberi dal diritto d’autore, dunque messi gratuitamente a disposizione dei lettori dai maggiori distributori di letteratura in rete o da piattaforme che vogliono favorire la diffusione della letteratura digitalizzando testi o, infine, dagli stessi autori che hanno scelto la strada del “copyleft”, che vedremo nel dettaglio più avanti. Senza contare che sempre più editori mettono gratuitamente a disposizione di chi compra il cartaceo anche la versione digitale, spesso in più formati, del testo che si è acquistato, scelta che mi sembra molto saggia e lungimirante.

Il dato che mi sembra emergere chiaramente è che sempre più persone smettono di leggere e che la crisi del settore resterebbe comunque grave anche se si eliminasse la pirateria, che non toglie lettori in quanto incide in maniera davvero irrisoria sul mercato.

D’altronde, se nel caso del libro, quella del digitale è una realtà tutto sommato nuova, così non è per la musica; l’acquisto, ma soprattutto lo scambio di musica in formato elettronico è ormai quasi preistoria: nel 1999 nasceva Napster, la prima piattaforma per la condivisione di musica in rete, e l’industria musicale le si scagliava contro accusandola di distruggere il mercato della vendita di dischi esattamente come sta facendo oggi, a quindici di distanza, il mercato editoriale contro lo scambio o la condivisione di libri in rete. Quindici anni: sembra passato un secolo e invece si tratta solo di tre lustri. Comunque sia, di fatto dopo solo due anni le grandi etichette musicali ottennero che il giudice ordinasse la chiusura di Napster, che si è oggi trasformato in uno strumento di diffusione musicale a pagamento. Da allora, il mondo della condivisione della musica in rete ha conosciuto diverse fasi, le più importanti sono state eMule, nato nel 2002 in seguito alla chiusura di Napster, oggi diventato una sorta di deposito per appassionati dove è possibile trovare materiale raro; mentre attualmente gli utenti della rete preferiscono il sistema di condivisione dei torrent, attraverso altri software, quali BitTorrent, μTorrent e Vuze, che non sono tuttavia esattamente la stessa cosa.

Vanno fatte alcune precisazioni. Anzitutto una curiosità: eMule, che come tutti gli altri programmi o protocolli citati è offerto gratuitamente, è il quarto applicativo più scaricato, attualmente siamo intorno ai 700 milioni di trasferimenti. Poi, va detto che, a differenza di Napster, eMule e più in generale il sistema dei Torrent consentono di acquisire non solo musica, ma qualunque genere di documenti digitali, come film, software, libri, etc. Tutto ciò che può essere trasformato in codice binario è scaricabile tramite detti applicativi. Ciononostante, per quasi quindici anni sono stati usati soprattutto per scaricare musica. Contro eMule l’industria musicale ha scatenato la stessa furibonda battaglia legale che aveva portato alla chiusura di Napster, non riuscendo tuttavia questa volta a vincere, a causa della natura intrinseca del Torrent, che non analizzeremo in quanto non significativa per il discorso che stiamo portando avanti. Ciò che ci interessa è che sia eMule, sia soprattutto la condivisione dei Torrent sono proseguiti in questi anni consentendo di scaricare liberamente, in maniera quasi sempre illegale, musica e ultimamente anche film.

L’industria musicale accusava perciò la rete di danneggiare pesantemente il mercato musicale, di impoverire i cantanti in quanto il conseguente calo delle vendite portava le case discografiche a non produrre altri dischi e quindi i beniamini del pubblico non sapevano con chi pubblicare i propri lavori. Questo lamento è andato avanti per oltre un decennio, in quanto era più semplice accusare la pirateria di distruggere il mercato che non cercare idee nuove che dessero nuova linfa alla produzione musicale. Ma la pirateria esiste da sempre, da molto prima di Napster, perfino prima della nascita del digitale: chi, della mia generazione, non ha mai acquistato le famose cassette pirata? Ricordo che quasi nessuno dei nastri in circolazione degli Squallor era originale, ma il gruppo ha continuato a incidere senza crisi e senza mai avventarsi contro la pirateria. Ancora, scagli la prima pietra chi non si è mai fatto prestare un disco, un vecchio LP, dall’amico per riversarlo su nastro. O in seguito all’avvento del CD non ne ha fatto copie con il proprio PC. Niente di nuovo quindi, sono solo cambiati i supporti e le tecnologie.

Ma tutto questo, ancora una volta, è irrilevante se guardiamo i dati, sorprendenti se avessimo dato retta a quanto da decenni affermano le grandi etichette discografiche.

Come illustrato da Giulia Pompili in un articolo sul Foglio, i dati hanno confermato quanto era in realtà prevedibile: la musica digitale è il vero cuore che pompa i guadagni dell’industria discografica; quell’industria che nel corso degli anni Duemila non aveva fatto altro che ripeterci che se in vent’anni i profitti si erano dimezzati era colpa del digitale e colpa della pirateria. In realtà, come si evince dall’articolo, sembra che, esattamente al contrario, sia proprio la rete che, seppur lentamente, stia riportando in crescita le vendite nel settore musicale.

Già un anno prima, d’altronde, un’inchiesta dell’Unione Europea aveva evidenziato dati simili. Come riportato dal Corriere della Sera, la pirateria non danneggia il mercato musicale in quanto chi scarica illegalmente comunque non comprerebbe musica. I due autori della ricerca europea, Luis Aguiar e Bertin Martens, sottolineano come non sia evidenziabile nessun effetto negativo sulle vendite in seguito all’utilizzo della musica cosiddetta liquida. Anzi, ben al contrario, l’utilizzo dell’ascolto in linea sembra avere addirittura un effetto stimolante sulle vendite di musica.

Dunque sta accadendo esattamente il contrario di quanto paventato dall’industria musicale: Internet e la musica digitale hanno ridato ossigeno a un mercato che stava soffocando. Come dicevamo, sono semplicemente cambiate le abitudini dei consumatori e il mercato ha tardato ad accorgersene e ad adattarsi ai nuovi modi di fruizione, pagandone un conto salato. Chi ascoltava musica non voleva più comprare un intero disco, magari a scatola chiusa. Voleva poter scegliere, selezionare. Le radio, sempre più ingessate, non erano ormai di nessun aiuto. Inizialmente, con l’avvento delle prime radio private, negli anni ’70, si era avuta la possibilità di ascoltare musica di tutti i generi, anche quella che non veniva trasmessa dai grandi canali generalisti, e sopratutto non ci si limitava all’ascolto delle solite due o tre tracce ma era spesso possibile poter sentire l’intero LP. La situazione muta radicalmente tra la fine del secolo scorso e gli inizi del nuovo e delle cosiddette radio libere non rimane traccia, vengono tutte assorbite in un modo o nell’altro nel gorgo della musica commerciale, togliendo agli ascoltatori una effettiva libertà di scelta. Libertà che viene nuovamente offerta dalla rete e dal digitale. I canali che offrono gratuitamente o a tariffe estremamente ridotte l’ascolto di musica interamente selezionata o indirizzata dall’utente gli consentono di ascoltare un disco prima di acquistarlo, in modo di accertarsi della qualità dello stesso e della rispondenza ai propri gusti. Paradossalmente, lo stesso sembra avvenire perfino con la pirateria: il prodotto musicale viene acquistato dopo un ascolto previo. Per cui la musica in rete ha dato un deciso impulso positivo alle vendite di musica.

Naturalmente, in un primo momento, come da copione, l’industria musicale si è scagliata contro tale studio; in particolare l’IFPI, l’International Federation of the Phonografic Industry, l’organizzazione che rappresenta gli interessi dell’industria discografica a livello mondiale, ha accusato lo studio dell’Unione Europea di essere fuorviante nelle sue conclusioni in quanto contenente errori significativi.

A distanza di due anni, la posizione dell’IFPI è cambiata: l’organizzazione, nel suo ultimo rapporto, appena pubblicato, riconosce che la musica digitale, e in particolare lo streaming, stanno dando un apporto fondamentale al superamento della crisi delle vendite. Nel 2014 per la prima volta il fatturato globale dell’industria discografica cresce del 6,9%, raggiungendo i 6,85 miliardi di dollari. Ma soprattutto, tale crescita si deve ai canali digitali che hanno raggiunto, nelle vendite, le percentuali del formato fisico: in pratica abbiamo un 46% di fatturato proveniente dal digitale, un 46% proveniente dal fisico e il restante 8% da diritti di riproduzione. Lo stesso Edgar Berger, Amministratore Delegato della Sony Music Entertainment, uno dei colossi dell’industria musicale, ha affermato che “L’industria della musica sta affrontando contemporaneamente tre transizioni: dal fisico al digitale, dal PC al mobile e dal download allo streaming. In questo contesto, credo che il nostro settore stia sostenendo bene questa fase: con il modello dell’abbonamento a pagamento stiamo costruendo un business destinato a durare”.

In pratica, se naturalmente l’industria discografica non può ammettere che la pirateria, rendendo il fruitore di musica più consapevole (scarico, ascolto, compro) aiuti le vendite, riconosce comunque che non crea una reale perdita per il mercato discografico in quanto chi scarica musica illegalmente non comprerebbe comunque quel prodotto; non c’è dunque una reale perdita di fatturato.

Assisteremo da qui a dieci anni a un analogo cambio di opinione da parte dell’industria editoriale? I primi esperimenti ci sono già stati. Parlando di best seller, il campione di vendite Stephen King ha in almeno un paio di occasioni tentato la via del digitale assoluto, con The plant, rimasto in pratica incompiuto senza che se ne sia mai saputo realmente il perché, e con Riding the bullet, che nonostante le numerose protezioni digitali, è rimasto vittima di pirati informatici; i quali tuttavia non ci hanno lucrato sopra, ma lo hanno distribuito gratuitamente in rete, nonostante il contenutissimo prezzo di vendita di due dollari e cinquanta centesimi. Ma se il campione di incassi King si fa presto scoraggiare, esistono esempi qui da noi in Italia che dimostrano che la distribuzione in rete, anche quella gratuita, non danneggia le vendite, anzi al contrario.

Accennavo prima al copyleft, o “permesso d’autore”, in opposizione al copyright, il diritto d’autore riconosciuto a livello internazionale. In Italia esiste un interessante progetto di copyleft legato a uno degli esperimenti più affascinanti che un gruppo di autori abbia mai tentato, non solo a livello nazionale. Mi riferisco al collettivo che va sotto il nome di Wu Ming e al loro progetto raccolto sotto il titolo di Wu Ming Foundation. Si tratta di una sorta di atelier di scrittori, la definizione è assolutamente riduttiva, il cui numero varia negli anni, ma che firmano i loro lavori a più mani, senza che sia possibile attribuire a nessuno di loro in particolare un determinato brano dei loro lavori. Un vero e proprio esperimento di lavoro in comune, che ha riscosso un notevole successo anche all’estero, al punto che il quotidiano inglese The Independent così chiudeva la sua recensione a Manituana, uno dei loro lavori: “Come facciano questi cani sciolti italiani a ottenere narrativa di tale potenza e complessità da un lavoro collettivo resta un enigma, ma possano i loro tamburi suonare a lungo”. Non è mia intenzione indagare sul funzionamento del collettivo o approfondire cosa si nasconda realmente dietro Wu Ming; quello su cui voglio soffermarmi è l’uso che essi fanno del permesso d’autore. In tutti i loro libri, sul verso del frontespizio compare la dicitura: “Si consentono riproduzione parziale o totale dell’opera e la sua diffusione per via telematica, purché non a scopi commerciali e a condizione che questa dicitura sia riprodotta”. Ed è effettivamente vero che tutti i loro titoli sono scaricabili gratuitamente dal loro sito. Questa possibilità di procurarsi gratuitamente i loro testi ha in qualche modo inciso negativamente sulle vendite? A giudicare dai numeri sembrerebbe proprio di no.

Ho recuperato i dati di vendita di un paio di titoli in cima alle classifiche di vendita in questi primi mesi del 2015. Nel momento in cui redigo quest’articolo, Storia di una ladra di libri di Markus Zusak, edito da Frassinelli e definito il libro d’oro del 2014 ha venduto 450.000 copie (fonte ANSA); al secondo posto sembra piazzarsi La piramide di fango di Andrea Camilleri, edito da Sellerio, con 200.000 copie vendute. Poco importa quanto siano cambiati nel frattempo i numeri, interessante è piuttosto confrontarli con i dati di vendita dei testi del colletivo Wu Ming. Il loro primo lavoro, dal sintetico titolo di Q, uscito nel 1999 a stampa e quasi immediatamente dopo, dal 2000, in e-book scaricabile gratuitamente, ha venduto 368.518 copie. Niente male per un volume che volendo si può acquisire legalmente gratis. Va un po’ meno bene per il titolo che citavamo prima, Manituana, uscito contemporaneamente in libreria e in versione e-book scaricabile gratis che comunque ha venduto 71.172 copie. Molto meglio sta andando il loro ultimo lavoro, L’armata dei Sonnambuli, uscito anch’esso contemporaneamente in libreria e in e-book gratuito l’8 aprile 2014. In poco più di un mese e mezzo, alla data del 31 maggio 2014, risultavano 46.387 copie vendute; quasi mille al giorno. Naturalmente, indipendentemente dalla possibilità o meno di scaricare gratuitamente i loro titoli, Wu Ming non è certo un nome che a livello di mercato possa gareggiare con Stephen King o Andrea Camilleri, per quanto possa piacere a chi scrive il loro lavoro. Eppure il volume di vendite che raggiungono è notevole, nonostante l’utilizzo da parte loro del permesso d’autore gratuito.

Tornando al mercato degli e-book, se è vero che le vendite, secondo l’Associazione Italiana Editori, sono aumentate del 25% nel 2014, la cifra non deve ingannare: rappresenta infatti solo il 3,4% del fatturato; una cifra certamente non significativa (fonte AIE), e che viene comunque conteggiata in quel 43% di lettori superstiti. Tuttavia, se lo sforzo degli editori in questa direzione è lodevole, con 53.739 titoli pubblicati nel 2014, il 31,7% i più rispetto al 2013, e 12.375 titoli pubblicati nel primo trimestre di quest’anno, un notevole 66,6% in più rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente, non riesce però a frenare la perdita di lettori, nonostante il mercato digitale in continua crescita con un libro stampato su quattro diffuso anche in formato e-book (fonte ISTAT).

Se il dato tendenziale del 2015 si mantenesse invariato, il numero di titoli in e-book ragionevolmente sarà più che raddoppiato quest’anno rispetto al precedente, a fronte però di una ridottissima percentuale di lettori di libri in formato elettronico. La colpa non può più essere attribuita al divario tecnologico, quasi tutti ormai possiedono un tablet o un lettore di libri elettronici. Allora perché si vendono pochi titoli in digitale?

Senz’altro, una delle ragioni è il prezzo: il costo del libro elettronico è appena inferiore al cartaceo e il lettore preferisce optare per quest’ultimo. Si tratta di un fenomeno strano, lavoro nel mondo dell’editoria da anni e ho sempre sentito gli editori lamentarsi che le spese maggiori sono quelle relative alla carta, alla distribuzione e alla stampa. Tutte voci azzerate nella vendita diretta del prodotto digitale. Un’analisi dei costi effettuata prendendo in considerazione pareri diversi, quello di Luisa Cappelli su Alfabeta2, di Giulio Mozzi su Absolute Poetry e di Brunoro su Editoria Digitale, per una visione a 360 gradi, rivela che rispetto al prezzo di copertina, i costi di stampa assorbono tra il 7% e l’11%, quelli di distribuzione tra il 15% e il 25% e lo sconto al libraio, ovvero la quota che si riserva la libreria, tra il 30% e il 45%. Un 7% va all’autore e la restante parte la intasca l’editore, che è la parte in causa che di norma si riserva la fetta di gran lunga maggiore, il vero beneficiato dal successo di vendite di un libro. Anche se, va detto, non è tutto guadagno: la casa editrice ha dei costi fissi che vanno dalla promozione agli affitti, alle bollette; questi vanno spalmati sui titoli venduti, erodendo il guadagno netto. Comunque sia, vendendo direttamente il formato elettronico dal proprio sito web una casa editrice potrebbe vendere la versione digitale a un prezzo tra il 52% e l’81% inferiore rispetto al cartaceo. Purtroppo, la maggior parte degli editori ancora non optano, scelta miope, per la vendita diretta, ma anche per il formato elettronico si affidano a grandi gruppi come Amazon; così che anche risparmiando sui costi di stampa, carta e di distribuzione, versano un importo altissimo al canale di vendita, vanificando una quota consistente dei risparmi ottenuti azzerando le altre voci di spesa.

Ma la navigazione sui siti di alcuni dei maggiori editori che offrono la vendita diretta rivela che il prezzo dell’elettronico non è quello che le percentuali di spesa che abbiamo visto ci farebbero supporre. Il risparmio offerto al lettore si aggira in media fra il 20% e il 30 %, mentre potrebbe superare il 50 % garantendo un guadagno invariato all’editore.

Ma abbassare i prezzi del digitale diminuirà la pirateria? Altra domanda, assisteremo per l’editoria a quanto abbiamo visto per la musica, con il digitale che dà impulso alle vendite e gli editori costretti a rivalutare la distribuzione elettronica in tutte le sue forme più o meno legali?

Difficile dirlo, anche perché diverso è il profilo del fruitore. Anzitutto, se chi scarica musica illegalmente non comprerebbe comunque il prodotto, chi scarica un libro è perché lo cerca, lo vuole leggere. Poi c’è il processo stesso di fruizione: un disco lo si ascolta più e più volte; un libro assai raramente lo si rilegge. Anche se molti di noi hanno gli scaffali di casa zeppi di libri, pochissimi di questi hanno conosciuto anche solo una seconda lettura.

Proprio la natura intrinseca di fruizione del prodotto stampato, la lettura unica, fa entrare in gioco un altro elemento. Prima della pirateria digitale, prima ancora dei CD e delle cassette a nastro su cui riversare musica, esisteva già un modo con cui procurarsi un libro senza pagarlo e tuttavia legalmente: si chiama biblioteca, si chiama prestito. La canzone ci piace averla per poterla riascoltare ogni volta che ne abbiamo voglia. Ma da sempre, da secoli, un tempo infinitamente più lungo e antico rispetto ai 15 anni di Napster, quando vogliamo leggere un libro gratuitamente andiamo a prenderlo in prestito in biblioteca o lo chiediamo all’amico che lo possiede. Una volta letto, lo restituiamo, sappiamo che difficilmente lo leggeremo ancora.

Nonostante la veneranda età, il prestito bibliotecario esiste ancora e sembra in discreta salute: i dati relativi alla II edizione dell’Indagine statistica sulle biblioteche di pubblica lettura degli enti territoriali, promossa dal Centro per il Libro e la Lettura e condotta dall’Associazione Italiana Biblioteche in collaborazione con l’Anci, le Regioni e le Province autonome, ci dice che l’indice di prestito nazionale per il 2013 è dello 0,9%; in pratica, le biblioteche ci hanno prestato quasi un libro a testa. In realtà solo gli utenti iscritti al prestito accedono al servizio, pertanto, se spalmiamo su di essi il numero di libri prestati, vediamo che ogni utente registrato ha preso in prestito in media 9 libri l’anno da una biblioteca; senza contare i volumi chiesti agli amici. Cifra decisamente considerevole. Dunque per un lettore attivo è probabilmente più semplice procurarsi il libro da un amico o dalla biblioteca che scaricarlo illegalmente dalla rete.

Il dato aumenta, ma non ho le cifre, se consideriamo che alcune biblioteche, poche ancora ma in aumento, stanno cominciando a prestare libri digitali. Io stesso sono iscritto a club di lettura di alcune biblioteche che prestano il testo in formato elettronico: in questo modo tutti possiamo partecipare alla discussione prendendo il libro in prestito senza il rischio che non sia disponibile perché in prestito ad altro utente; è il vantaggio del digitale, poter prestare contemporaneamente il volume a più lettori senza attendere che venga restituito.

Ma allora chi c’è in quel quasi 9% che ha dichiarato di aver scaricato un libro? Il dato è più consistente di quanto non immaginassi, ma se calcoliamo che fra libri gratuiti perché fuori diritti, promozioni gratuite, copyleft, libri scaricati perché si è acquistato il cartaceo e quant’altro, quale sarà verosimilmente la percentuale di pirateria? Un 2%? Dai certi non ne abbiamo, ma pure ammettendo che si tratti di un terzo, arriviamo al 3%; ovvero poco più di un milione: basta a dire che sia colpa loro la crisi del settore? E che eliminando la pirateria, si sanerebbe miracolosamente il fatturato degli editori? E siamo sicuri che, come avviene con la musica, letti e apprezzati i primi capitoli, alcuni di quei lettori non comprerebbero poi il libro?

Sia chiaro, lo ripeto, che la mia non è in nessun modo un apologia della pirateria; anzi, chi scarica illegalmente materiale di qualsivoglia natura coperto dal diritto d’autore deve essere cosciente che sta commettendo un illecito penalmente perseguibile.

Tuttavia, come insegna l’esperienza dell’industria discografica, prendersela con il digitale e con la rete non è certo la strada che porterà il mercato editoriale a risolvere la crisi che sembra soffrire.

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L'autore

Attilio Castellucci
Attilio Castellucci
Attilio Castellucci è laureato in Filologia Romanza presso la Sapienza, Università di Roma, materia nella quale ottiene anche il Dottorato di Ricerca. In seguito si trasferisce per cinque anni a Santiago de Compostela, dove lavorerà presso il centro di ricerche umanistiche “Ramón Piñeiro”. Attualmente lavora come tecnologo all'Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, dove si occupa di comunicazione e realizza documentari; in passato ha esercitato anche con la qualifica di direttore di biblioteca. Per svagarsi, insegna alla Sapienza, Università di Roma, dove impartisce Lingua e Letteratura Galega ma, all'occorrenza, anche Filologia Romanza e Lingua Spagnola; materia, quest'ultima, che ha insegnato anche presso l'Università degli studi della Basilicata. Quando può, si dedica alla traduzione, con un discreto numero di titoli tradotti al suo attivo, soprattutto dal galego e dallo spagnolo, ma senza disdegnare altre lingue, quali il francese e l’inglese. È responsabile dell'accordo tra la Xunta de Galicia e la Sapienza, Università di Roma: dal 1999 dirige il CEG di Roma, il Centro di Studi Galeghi. Dal 2019 al 2022 ha fatto parte del Consiglio direttivo dell’AIEG, l’associazione internazionale di studi galeghi; attualmente, nella stessa associazione, fa parte del Consiglio Scientifico.