Gian Mario Villalta è nato a Visinale di Pasiano, in provincia di Pordenone, nel 1959, si è laureato in Lettere Moderne a Bologna e pubblica fin dai primi anni Ottanta. Dal 1984 insegna al Liceo Scientifico “Ettore Majorana” di Pordenone. Nel 2002 ha creato il festival del libro “Pordenone Legge”, che ogni settembre ospita poeti, scrittori, filosofi, artisti, giornalisti di fama mondiale. Il festival è oggi uno dei più prestigiosi in Italia.
Ha pubblicato numerose raccolte di poesia, sia in italiano sia in dialetto, e vari libri di narrativa, critica e saggistica. Il suo libro di poesie più recente è Telepatia (Lietocolle 2016). Fra la narrativa, si ricordano Satyricon 2.0 (Mondadori 2014), una riscrittura in chiave contemporanea del capolavoro di Petronio, e Scuola di felicità (Mondadori 2016), che segue le vicende di un insegnante e dei suoi alunni lungo un intero anno scolastico. Fra i saggi, Padroni a casa nostra (Mondadori 2009), un’analisi dei cambiamenti che hanno interessato il Nord-Est dell’Italia negli ultimi decenni, e Lo sguardo della poesia (Feltrinelli 2014), in cui illustra i “ferri del mestiere” necessari a un poeta.
“La tua poesia adotta sia l’italiano sia il dialetto. Operi diversamente quando scrivi nell’una e nell’altra lingua? Ci sono differenze fra i testi prodotti in italiano e in pordenonese? Quali credi siano i fattori che determinano la scelta di un idioma piuttosto che dell’altro?”
Scrivere nel dialetto della bassa pordenonese è stata un’avventura che ha avuto inizio quando già avevo scritto (e anche pubblicato) in italiano, ma soprattutto la mia intera “formazione poetica” era avvenuta all’interno della lingua italiana (con la passione per almeno un paio di lingue europee). Di più: gli studi che allora conducevo mi portavano a una riflessione linguistica vasta e multidisciplinare. Ne consegue che il mio primo scrivere in dialetto, all’interno di una cosciente diglossia, è nato dall’interrogazione sulla mia lingua prima o originaria (ho iniziato a parlare l’italiano con la scuola elementare), sul suo senso e sulla sua presenza. Fin dall’inizio, scrivere in dialetto è stato quindi un’altra cosa dallo scrivere in italiano. E poi è sempre stato così. D’altra parte se non si scrive per esercizio ma obbedendo a una necessità che nasce dalla vita e dai pensieri, è evidente che una differenza ci deve essere, non solo tematica, ma di tono, di sentire. Con il passare del tempo mi è capitato di scrivere meno in dialetto. D’altra parte, dagli esordi della seconda metà degli anni 80 ad oggi anche il dialetto non è più lo stesso, sotto ogni profilo: pratico, politico, estetico.
Tu sei, oltre che poeta, anche narratore, un accoppiamento che non è poi così frequente. Sei approdato prima alla poesia o alla narrativa, oppure le due sono nate insieme? Ci sono contiguità tra i due filoni, oppure essi esprimono istanze ed esigenze diverse?
Ho sempre scritto in prosa, brevi narrazioni, abbozzi di progetti più ambiziosi. Però ho iniziato a scrivere dei racconti con l’intenzione esplicita di farne un libro solo alla fine del secolo passato. Il primo romanzo è uscito nel 2004. Però devo dire che la poesia è stata la passione più forte e che mi ha attratto di più. Anche quella che mi lega con maggiore forza e continuità a molte persone che frequento e a molte altre che non ci sono più. Poesia e narrativa, come del resto narrativa e saggistica (anche se oggi queste ultime si vanno incontrando su un confine incerto) sono atteggiamenti fondamentali del prendere parola, molto diversi per la maggior parte delle loro caratteristiche, se pure vi sono abilità che possono essere mutuate da un genere all’altro.
L’attività di insegnante ti porta a contatto quotidiano con i giovani. Come reagiscono di fronte alla poesia, e in particolare di fronte ai classici? Quali mezzi usi per trasmettere loro i valori della poesia?
Trovo sempre attenzione e buona accoglienza. Leggo i testi degli autori, li rileggo. Lascio passare la passione, la convinzione che ritrovo ogni volta. E poi racconto quello che provo, le emozioni, e faccio dei ragionamenti, su quel testo e su altri che di possono e devono accostare per varie ragioni. Tutto è importante, vale la pena di conoscere tutto: biografia, politica, sociologia, filologia, tradizione del genere, evoluzione della lingua e degli stili – ma se tutto questo non diventa mai un legame di comprensione e coinvolgimento con le parole del poeta non serve a niente.
Una domanda inevitabile riguarda Pordenonelegge, diventato negli ultimi anni una delle manifestazioni più importanti a livello nazionale. Puoi tracciare un bilancio di quest’esperienza, soprattutto per quanto riguarda l’interesse e la ricettività del pubblico rispetto alla poesia
La scommessa iniziale, più di tre lustri fa, era quella di creare una manifestazione di qualche vero interesse intorno al mondo del libro, in un’area che non era di certo al centro delle vicende culturali italiane. Se qualcuno, allora, avesse mostrato che cosa sarebbe accaduto in seguito nella proverbiale “sfera di cristallo”, sarebbe stato l’indovino meno creduto di tutta la storia: Pordenone voleva dire profondo Nordest, schéi e “no vado a combater” (non mi interesso di cose che mi chiedono impegno). Ci abbiamo creduto, in un primo momento con pochi sostenitori e molti avversari. Abbiamo lavorato con tenacia. E i tempi sono cambiati, per il Nordest. Nel risvegliarsi di un’attenzione generale per la cultura, la poesia, pur facendo ancora la cenerentola, conosce un momento di buona accoglienza e di appeal. Molti i giovani che ricominciano a interessarsene, parecchi quelli che scrivono, anche molto bravi.
Tu sei fortemente radicato nel tuo territorio, che si trova al confine tra due regioni (Veneto e Friuli) dall’identità poetica piuttosto marcata; hai anche curato, insieme a Stefano Dal Bianco, il Meridiano dedicato ad Andrea Zanzotto. Allo stesso tempo, come evidenziato in “Padroni a casa nostra”, il Nord-Est è un territorio soggetto a marcati stereotipi. Puoi parlarci del rapporto con la tua terra?
Da giovane, agli inizi degli anni ’80, subito dopo laureato, volevo andarmene da Pordenone e da tutto quello che ci stava intorno. Invece sono dovuto restare. Questa permanenza forzata mi ha costretto però a comprendere e, soprattutto, a creare per me stesso una dimensione di vita accettabile rispetto alle aspirazioni letterarie che nutrivo in gioventù. Oggi il Veneto e il Friuli (con molte differenze) sono vittime di un equivoco: confondono i “valori”, di cui sentono il bisogno e che giustamente vanno a cercare nel passato, con le usanze e i prodotti gastronomici locali. Occorre una profonda revisione critica delle idee correnti, però, purtroppo, al fondo di tutto rimane un problema: questo grande laboratorio economico, culturale e politico (si veda pure la collocazione geografica) manca di luoghi (università, stampa, tv) per un’adeguata rappresentazione. C’è un fermento culturale vivissimo, un risveglio imprenditoriale notevole, esiti inaspettati della politica, però la ex-locomotiva d’Italia (oggi non ancora spenta) ha la stessa presenza e considerazione nel discorso pubblico della cultura di quanta ne ha la Basilicata. Però la prima cosa importante da seguire, al momento, è il risveglio dallo shock della crisi e la realizzazione – nel senso di comprendere che è la realtà – che un’epoca è finita e ne è già iniziata un’altra.
(in collaborazione con www.umbriapoesia.it)
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L'autore
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Sergio Pasquandrea è nato a San Severo (FG) nel 1975. Dai primi anni Novanta vive a Perugia, dove insegna Lettere in un liceo. Fra il 2010 e il 2019 ha pubblicato sette sillogi di poesia: tra le più recenti, Un posto per la buona stagione (Qudu, 2016), Topografia della solitudine (Pietre Vive, 2017), Approssimazioni e convergenze (Pietre Vive, 2017) e Sono un deserto (Lietocolle, 2019).
Collabora come giornalista e critico musicale con il bimestrale “Jazzit” e con i blog “Nazione Indiana”, “La poesia e lo spirito”, “Jazz nel pomeriggio”, “Words Social Forum”, “Artmaker”, “Carte Sensibili”. Ha pubblicato nel 2014 il volume di racconti Volevo essere Bill Evans (Fara) e nel 2015 il saggio Breve storia del pianoforte jazz. Un racconto in bianco e in nero (Arcana Editrice). In uscita, per EDT, il saggio Brad Mehldau. Ritratto di un pianista eclettico, scritto in collaborazione con Carlo Morena.
Nel 2007 ha conseguito un dottorato in Linguistica presso l'Università di Pisa; dal 2007 al 2010 ha lavorato come assegnista di ricerca presso l'Università per Stranieri di Perugia, dal 2010 al 2015 è stato cultore della materia in Sociolinguistica presso l'Università di Perugia.