Gianni Criveller risiede a Hong Kong da più di 20 anni, dove svolge attività di ricercatore e docente in campo storico, teologico e sinologico. Collabora con numerose istituzioni accademiche ed è membro del PIME (Pontificio Istituto Missioni Estere).
Hai scelto Matteo Ricci come uno dei tuoi autori significativi per questa rubrica di “Confessioni letterarie”. Pur trattandosi di una straordinaria figura (missionario, letterato, matematico, sinologo…), risulta ancora oggi pressoché sconosciuto ai più. Chi è per te Matteo Ricci e come lo hai scoperto?
Si è vero, Matteo Ricci è ancora quasi sconosciuto in Italia. Eppure Ricci non è sconosciuto nel mondo. In Cina, la più grande nazione del pianeta, è conosciuto dagli studenti, che lo ritrovano nei testi delle scuole superiori. A Pechino, nell’anno 2000, il “Monumento del Millennio” ha rappresentato i cento personaggi più importanti della storia della Cina. Per i cinesi è quasi la storia del mondo, essendo la Cina il “Paese di Mezzo” (così si chiama la Cina in cinese). Ricci vi è incluso ed è, insieme a Marco Polo, l’unico non cinese. Non è un riconoscimento da poco. Centinaia di studenti in Cina, Giappone, Corea, e in altri paesi scrivono tesi su Matteo Ricci, considerato un campione di dialogo culturale e scientifico e di incontro tra popoli. Con Ricci, in un senso molto importante, ha inizio la globalizzazione del sapere e della comunicazione. Dunque non è Ricci ad essere sconosciuto, sono gli italiani a non sapere chi è Ricci: un italiano, un uomo di religione, scienza e cultura tra i più conosciuti e apprezzati nel mondo!
Ricordo di aver sentito parlare di Ricci in una trasmissione televisiva di seconda serata agli inizi degli anni ottanta. Nel corso dei miei studi storici e teologici ho letto un paio di libri su di lui. L’interesse divenne sistematico da quando, nel maggio del 1989 (erano in corso le manifestazioni di Piazza Tiananmen, conclusesi con il massacro di più di mille cittadini di Pechino), mi venne comunicato che la Cina sarebbe stata la nazione della mia missione, dove avrei trascorso il resto della mia vita.
Nel 1996 consegnai la tesi di dottorato centrata sulla missione gesuitica in Cina del XVI e XVII secolo. Dedicai a Ricci solo un capitolo: l’oggetto principale delle mie ricerche era Giulio Aleni, un gesuita bresciano che seguì le orme e gli insegnamenti di Ricci. Mi sembrava che su Ricci c’erano già troppi libri, mentre Aleni, altrettanto importante, era davvero sconosciuto. Questo mio lavoro, tradotto in cinese e pubblicato in Cina nel 1999, mi aprì la porta del grande paese, nel quale fui invitato a tenere numerose conferenze nelle università di Pechino, Shanghai, Canton, Xian e altre città.
Ricordo che nel 2010 ci sono state alcune celebrazioni su Matteo Ricci, nelle quali sei stato coinvolto. A quell’anno infatti risalgono alcune delle tue pubblicazioni su di lui.
Nel 2010, per i quattrocento anni della morte di Ricci a Pechino, fui invitato a scrivere, insegnare e parlare su Ricci in numerose occasioni. Fui inoltre chiamato a dirigere la commissione storica per la sua beatificazione, costituitasi nella sua città natale, Macerata. Un lavoro immenso, che mi ha occupato tante energie: ho letto tutto quanto aveva scritto Ricci e, nei limiti del possibile, quanto avevano scritto su di lui, cercando di fornire delle risposte su alcune gravi questioni storiche. Dopo la sua morte infatti Ricci è stato per vari secoli emarginato dalla Chiesa, e il suo metodo condannato. L’approfondimento sul “caso Ricci” mi ha fatto entrare, mi pare, dentro la testa e il cuore del grande gesuita. L’ultimo mio studio è stato sulla malinconia di Matteo, un tema che nessuno aveva mai toccato. L’ho sentito ancora più vicino, come una persona con cui avrei potuto condividere riflessioni, come un fratello maggiore, o un amico, di cui avrei potuto anticipare pensieri, decisioni e sentimenti.
Sperimentando la fatica della vita missionaria, mentre tentava di raggiungere Pechino, la sua meta, Ricci confessava ai suoi amici: “non so che immaginazione mi viene alle volte, e non so come essa mi causi una certa sorte di melanconia”. Con una non comune spoliazione della retorica devozionale ed eroica, di cui spesso i religiosi si pavoneggiano anche oggi, Ricci riconosce candidamente di “essere molto carnale”; sentimenti di solitudine e di frustrazione; di soffrire la malinconia, ‘un’infermità dell’anima’, allo cui studio si prestano molto le lettere dei missionari. Ricci raggiunse Pechino nel 1601, dopo 18 anni di tentativi, di fatica, di delusioni e amarezze che avrebbero scoraggiato chiunque.
Mi sembra che Ricci sia diventato per te non solo un tema di interesse letterario, ma anche umano, come una specie di modello, di esempio.
Ricci non è imitabile, ma anch’io, come lui, ho fatto di Pechino la mia meta. Dopo tanti anni dedicati alla preparazione (anch’io diciotto, come Matteo), nel 2010 ho trovato la via giusta per stabilirmi finalmente Pechino, con un impiego presso una università, dove ho avuto la possibilità di aiutare studenti e studiosi cinesi nelle loro ricerche sul cristianesimo. Avevo ottenuto il permesso di lavoro e il necessario certificato di esperto straniero. Ricordo in particolare il giorno 8 giugno 2011, la data del mio venticinquesimo di ordinazione presbiterale. Ero a Pechino e sono andato a Messa nella cattedrale del nord, la chiesa fondata da Matteo Ricci, che sentivo come una sorta di guida e ispirazione. Mi sembrava di realizzare un sogno e una vocazione. Ma dopo poche settimane ho vissuto l’amarezza dell’improvvisa e brusca interruzione di questo promettente progetto. Nei giorni di delusione che sono seguiti al mio allontanamento da Pechino, ho pensato molto a Matteo, alle sue malinconie, alle tre espulsioni che lui stesso subì da altrettante città; ai sei mesi trascorsi agli arresti domiciliari prima di essere finalmente ammesso a Pechino; al sogno che fece, in uno stato di profonda malinconia, nel quale rimproverò il Signore di averlo abbandonato. Vivere tra confini è la condizione del missionario, l’uomo che sta presso i confini, anzi che diviene lui stesso un “vivente confine”. Nel 1605, da Pechino, Matteo scrisse melanconicamente al fratello Orazio, dicendogli dei suoi capelli bianchi e dandogli il suo addio: “stiamo in questi paesi come in un volontario esilio”. Ora a Hong Kong, la città confine tra la Cina e il mondo, vivo l’attesa di poter ritornare. Ma nel frattempo ho scoperto e iniziato tante altre cose, dunque non sono più tanto malinconico.
Cosa ti auguri per il futuro nei rapporti diplomatici tra Santa Sede e Cina?
Non ho mai creduto che i rapporti diplomatici, come per magia, possano risolvere i problemi della chiesa. C’è da sostenere piuttosto i cattolici di Cina, affinché mettano radici e siano capaci di conquistare la libertà e l’unità di cui hanno diritto e bisogno.
Papa Francesco ha scritto una lettera a Xi Jinping, l’attuale capo della Cina. Non è la prima volta che i recenti pontefici si rivolgono ai leader cinesi, ma è la prima volta che il papa dichiari di aver ricevuto una risposta. Nell’intervista a papa Francesco dello scorso 5 marzo 2014 il direttore del Corriere della Sera, Ferruccio de Bortoli, menziona Matteo Ricci, sottolineando che era gesuita, come il papa. L’eredità del missionario maceratese continua a fare del bene: è come un filo che, seppur sottotraccia, mantiene la Cina e la chiesa in qualche modo legati. Papa Francesco ha dichiarato di essere vicino alla Cina e che essa “è un popolo grande, cui voglio molto bene”.
Purtroppo però sul campo non si vedono risposte e cambiamenti positivi. Giornalisti e pensatori sono incarcerati. A giornalisti e studiosi stranieri scomodi viene impedito di continuare il loro lavoro. I buddhisti del Tibet sono sottoposti a una specie di occupazione culturale. I musulmani del nord-est, che aspirano ad una certa autonomia, sono oppressi. Protestanti e cattolici non allineati alla politica religiosa vengono molestati e penalizzati. Recentemente alcune loro chiese sono state demolite. Le autorità continuano a seminare zizzania nella comunità cattolica per amplificare divisioni e inimicizie.
Il caso più drammatico rimane quello del vescovo di Shanghai, il giovane Taddeo Ma Daqin, ancora privato della libertà e persino destituito della sua autorità per aver dichiarato la sua autonomia dai funzionari governativi che controllano la chiesa. La chiesa di Shanghai, una delle migliori in Cina, era stata fondata dal Dottor Paolo, ovvero Xu Guangqi, il miglior discepolo di Matteo Ricci e grande statista e scienziato. La chiesa universale non può dimenticare la chiesa di Shanghai e il vescovo Taddeo Ma, la cui sorte è la stessa della chiesa di Cina.
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L'autore
- Carlo Pulsoni è il coordinatore di Insula europea (http://www.insulaeuropea.eu/carlo-pulsoni/).
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