conversando con...

Marco Vitale intervista Fabio Scotto

Fabio Scotto (La Spezia, 1959) è professore di letteratura francese all’Università degli Studi di Bergamo.

Poeta, traduttore, critico e saggista, ha curato e tradotto, tra l’altro, opere di Hugo, Vigny, Villiers de l’Isle-Adam, Noël, Bonnefoy, di cui ha firmato l’edizione di una quindicina di opere, del Meridiano L’opera poetica (Mondadori, 2010) e de Il Digamma (ES, 2015).

Tra i suoi libri più recenti Nuovi poeti francesi (Einaudi, 2011), La voce spezzata. Il frammento poetico nella modernità francese (Donzelli, 2012), Il senso del suono. Traduzione poetica e ritmo (Donzelli, 2013) e la raccolta poetica In amore (Passigli, 2016).

Fabio, tu sei per generale riconoscimento il più importante traduttore dell’opera di Yves Bonnefoy in italiano e questa intervista prende avvio a poca distanza dalla scomparsa del grande poeta, avvenuta a Parigi il 1 luglio. Oltre che traduttore di Bonnefoy sei stato, e per lungo tempo, un amico. Comincerei proprio da qui. Ti va di raccontare il tuo primo incontro con lui e l’inizio di questa straordinaria collaborazione e vicinanza?

Grazie, caro Marco, dell’apprezzamento e di questa opportunità, di cui ringrazio anche il sito che ci ospita. Il mio primo incontro con Yves Bonnefoy, che risale all’estate del 1999, fu preceduto da un’intensa corrispondenza di vari mesi legata alla mia traduzione e cura del suo volume La vita errante (Edizioni del Bradipo, 1999). Il luogo fu il ristorante cinese della rue Lepic, sotto casa sua, nel quartiere parigino di Montmartre, che poi divenne per noi un luogo familiare e consueto. Mi colpì subito la gentilezza, la semplicità e cordialità dei modi di quest’uomo, capace di ascolto e di mettere sempre l’altro al centro della conversazione. Da allora, su queste basi d’intesa umana prima che intellettuale, non ci siamo più lasciati e la nostra collaborazione ha prodotto oltre quindici suoi volumi a mia cura e da me tradotti, tra i quali il Meridiano L’opera poetica (Mondadori, 2010), che contiene sedici raccolte in traduzione ed edizione critica, più alcuni saggi sulla poesia. E sto continuando con immutato impegno ed entusiasmo anche dopo la sua morte, modo questo di far sì che non muoia mai definitivamente, perché forse muoiono gli autori, ma le grandi opere non muoiono mai, anzi col tempo prendono sempre maggiore peso e necessità, ne sono convinto.

Sarebbe lungo elencare le tue traduzioni di Bonnefoy insieme ai saggi critici, gli interventi in convegni internazionali, le presentazioni; un’attività che ti ha impegnato per lunghi anni e continua ad impegnarti. Di tutto questo lavoro credo che il momento più importante sia stato la “costruzione” e la cura del Meridiano Mondadori uscito nel 2010. Si tratta dell’opera più completa di cui dispone il lettore sulla poesia di Bonnefoy, quale non esiste tuttora neanche in Francia: la Pléiade a lui dedicata si fa ancora attendere. Il Meridiano è interamente centrato sulla poesia, e non comprende la grande saggistica letteraria (Rimbaud, Baudelaire…) e l’affascinante critica d’arte. Come ti sei orientato in questa scelta? E ad essa Bonnefoy ha contribuito?

Il Meridiano rappresenta indubbiamente il culmine del nostro sodalizio poetico e critico, ma è stato preceduto e preparato da undici anni di fervida collaborazione, che videro fra l’altro, e credo fu il momento più importante, la pubblicazione dell’antologia Seguendo un fuoco (Crocetti, 2003), che, con la presenza di Bonnefoy e la nostra lettura al Salone del Libro di Torino, determinò poi la Mondadori, nella fattispecie Renata Colorni, a intraprendere quel progetto di un Meridiano e ad affidarmene la cura, cosa della quale le rimarrò sempre riconoscente.

Dapprima pensammo a un volume di testi scelti di poesia e prosa, poi cambiammo idea, convinti che per il lettore italiano Yves Bonnefoy fosse in primo luogo un poeta e che quindi egli si attendesse prima di ogni altra cosa il corpus completo delle sue poesie. Ad esse, per volontà dell’editore, si decise di aggiungere una scelta di saggi che avessero come argomento la poesia, di qui quella sezione dell’opera, certo non esaustiva del vastissimo catalogo di suoi saggi, ma emblematico e utile complemento dell’opera lirica. Bonnefoy ha contribuito al progetto in tutte le sue fasi con generosa disponibilità, collaborando e indirizzando le nostre scelte testuali, rileggendo le mie traduzioni e le mie note (alle quali ha anche contribuito con delle note di auto-commento riprese nel mio testo, che le evidenzia con margine rientrato) e apparati di commento e la bibliografia, con grande entusiasmo e puntualità.

Naturalmente rimane possibile in futuro, come ebbe peraltro a scrivere Giovanni Bogliolo in una sua pregevole recensione del mio Meridiano su “La Stampa”, ipotizzare un altro volume incentrato sui suoi saggi, ma il tempo e l’editoria diranno se vi sia spazio anche per questa nuova e credo utile e necessaria impresa.

In Francia, solo un anno fa o poco più, è maturato il progetto di un volume delle poesie complete per la prestigiosa collana della “Bibliothèque de la Pléiade” di Gallimard, collana di classici che, con la sola eccezione di René Char, Philippe Jaccottet, e Milan Kundera, credo, mai ha dedicato volumi ad autori viventi. Se ne occupano cinque validi specialisti, che, a loro modo, riproporranno criticamente l’indice del volume da me edito cinque anni prima, con qualche aggiornamento legato alla produzione successivamente intercorsa. Credo che uscirà nel 2017-2018, a quanto ho sentito dire, non ne so molto di più, prevale un certo riserbo. Ma per pubblicare l’intera opera di Bonnefoy credo occorrerebbero almeno tre o quattro volumi.

Anche una semplice scorsa all’impressionante cronologia della vita con cui chiudi il Meridiano dà l’idea della vastità degli orizzonti di Bonnefoy, e naturalmente del rapporto strettissimo che hanno per lui poesia e prosa, poesia e grande pittura, poesia e paesaggio, poesia – quella che ha praticato fino alla fine – e l’Italia. Cosa è stata per Bonnefoy l’Italia, innanzitutto l’Italia dei grandi maestri del Rinascimento?

Ho scritto un saggio in francese dal titolo “Yves Bonnefoy et l’Italie: une écoute mutuelle” (Les Cahiers de l’Herne, n°: Yves Bonnefoy, a cura di Odile Bombarde et Jean-Paul Avice, L’Herne, Paris, 2010, pp.198-203) nel quale do analiticamente conto del rapporto fra Yves Bonnefoy e l’Italia, così come della presenza dell’Italia nella sua opera e nella ricezione critica. Vi è poi, a riprova di ciò, il volume La civiltà delle immagini. Poeti e pittori d’Italia (Donzelli, Roma, 2005, di cui tradussi i due saggi inediti, quello d’apertura e quello su Piero della Francesca).

Bonnefoy iniziò ad amare l’Italia e la sua arte scoprendo una collana di classici della pittura italiana nella sua adolescenza a Tours; in seguito la scorse dalla Corsica dove si era recato con la prima moglie, e le prime immagini che intravide dalla nave furono quelle dell’Elba, della Capraia. In seguito vi soggiornò a lungo durante i suoi studi sull’arte italiana condotti sotto la guida di André Chastel, innanzitutto a Firenze, ma anche a Roma e in altre città, specie dell’Italia centrale (Lazio, Umbria, Marche), che divennero alcuni dei topoi di quel capolavoro che sarà L’Entroterra (Donzelli, Roma, 2004). Scritti come Les Tombeaux de Ravenne, Un rêve fait à Mantoue e Rome, 1630, ma anche i recenti Presque dix-neuf sonnets o Deux scènes (dove appaiono Torino e Genova) dicono questo continuo dialogo fra Bonnefoy e l’Italia (i suoi pittori, architetti, scrittori), che egli definì « una terra per le immagini », ovvero un luogo in cui forte è la tentazione astrattiva del sogno, ma che anche è capace di suggestioni fonte di “presenza”, nel solco della lezione della latinitas anche grammaticalmente transitiva a lui tanto cara. Di fatto, Bonnefoy ha sempre affermato di sentire l’Italia come una seconda patria ed è non a caso un luogo ricorrente della sua scrittura e il Paese nel mondo dove è in assoluto più tradotto e apprezzato. Ciò innanzitutto per via del suo legame con la cultura umanistica rinascimentale, della cui idea di intellettuale assoluto egli pare oggi un contemporaneo esempio, ma anche per l’ideale di bellezza che trasmette e che autori come Leopardi e Petrarca da lui tradotti e studiati hanno a loro modo così bene incarnato. Un luogo in cui vivere, nel qui ed ora della umana finitudine, tra architetture che esprimono queste armonie delle forme, una possibilità per l’uomo di veramente essere nella pienezza assoluta del suo immediato sentire.

Rimanendo sempre sul rapporto tra poesia e prosa in Bonnefoy, è da osservare che l’ultimo suo volume di poesia da te tradotto, Il digamma (finalista al premio Stendhal per la traduzione, ES 2015, Éditions Galilée 2012) è scritto interamente in prosa. In maniera significativa, introducendolo, sottolinei la differenza tra il “récit de rêve” caro ai surrealisti, e il “récit en rêve” che informa questa raccolta di forte e libera visionarietà. In ognuna delle “sequenze” che la compongono ancora una volta si evince il grande tema che attraversa tutta la scrittura di Bonnefoy: l’opposizione (“antiplatonica”) tra il “concetto” e la “presenza” e dunque la “finitudine” del nostro qui e ora in cui consiste lo spazio della “speranza”. Qual è stato nel profondo il rapporto tra Bonnefoy e il “pensiero poetante” di Leopardi?

La risposta sta nel suo saggio L’enseignement et l’exemple de Leopardi (William Blake & Co., Bordeaux, 2001), nel quale egli vede nel recanatese un anticipatore dell’idea del nulla che poi si paleserà con maggiore evidenza nella stagione romantica e simbolista. Pure, ed è idea singolarissima e discutibile, egli vede in Leopardi non il pessimista tentato dal nichilismo, lo Schopenhauer italiano che la maggior parte della critica ci ha consegnato, bensì un poeta della speranza, che pur avvertendo l’abisso dell’Infinito (e la sua traduzione di questo testo ne è l’emblema), non se ne lascia risucchiare, ma ne ricava motivo meno d’inquietudine che non di buon auspicio, in una rilanciata sfida al mondo e al proprio destino interamente riposto nell’individuo e nella sua capacità di amare la terra e gli altri.

Leopardi, oltre che immenso poeta anche sommo prosatore, serve anche per spiegare la prosa poetica di Bonnefoy, certo frutto anch’essa di un “pensiero poetante” (Bonnefoy è, si badi bene, laureato in filosofia, lettere e matematica) che in essa vede un momento di liberazione della poesia dalle gabbie della forma che pur il verso libero impone. Memore della stagione surrealista, egli diffida però dell’onirismo, che vota il sogno a un inconscio di matrice prevalentemente erotico-libidinale quale era quello che emergeva dai “racconti di sogni” dei surrealisti. Ad esso sceglie di contrapporre quelli che chiama “racconti in sogno”, ovvero fantasticherie da sveglio che lo portano a dar voce all’immaginazione senza che però questa sia preda della pulsionalità incontrollabile del sonno. Rue Traversière, interamente riprodotto nel Meridiano, ben attesta di questa ricerca, che ha vertici assoluti di bellezza. Il Digamma ne è forse lo sviluppo più recente: in esso si alternano occasioni di memoria (ricordi di soggiorni giovanili a Roma e altri luoghi, incontri…) e riscritture di impossibili rappresentazioni teatrali di opere di Shakespeare (Amleto, Otello), da lui tradotte, che pongono il problema della rappresentabilità del teatro di Shakespeare, che egli auspicherebbe recitato al buio udendo solo un testo privo di scenografia, onde non sviare il lettore dalla forza pura della parola poetica che ne è lo stigma. Non va dimenticato che da ormai molti decenni le opere di poesia di Yves Bonnefoy sono in buona parte costituite da prose poetiche di tal fatta alternate a componimenti in versi. Se ricorrenti, ossessivamente, sono gli stessi nuclei tematici e teorici (la lotta contro il concetto, la finitudine, la presenza, il vero luogo…), va detto che, nella forma che ogni volta come fosse la prima li ri-pronuncia e reinventa, risiede l’eterno inizio di ogni poesia che cerca nella propria pratica la sua possibilità d’esistenza.

Credo non sia possibile parlare di Bonnefoy senza almeno accennare all’importanza che ha avuto per lui la traduzione della poesia, Shakespeare in primo luogo, ma anche Donne, Keats, Yeats, Petrarca, Leopardi. Un’attività che è andata di pari passo con un’approfondita riflessione “sul campo”. I suoi scritti sull’argomento, raccolti e tradotti da te nel 2005 (La comunità dei traduttori, Sellerio), sono un vero e proprio giacimento di pensieri e di spunti critici. Ne vorrei citare almeno uno, che mi colpì moltissimo, chiedendoti di commentarlo: “Perché una traduzione non potrebbe far fiorire lo scritto che sollecita, rimasto talvolta in boccio? Senza tradirla più di quanto un rosaio trapiantato da un suolo a un altro non sia tradito dalle sue rose un po’ più belle?”

Come ho spiegato nella mia Introduzione a quel volume selleriano a mia cura che giustamente citi, oltre che in altri studi successivi e in corso, Bonnefoy ha un’idea della traduzione singolarissima e non riconducibile a facili assimilazioni a posizioni teoriche oggi prevalenti (sourcier, cibliste o similia). Se egli tende a dissimilare il testo dall’originale, per via della differenza fra le lingue, che ritiene non vadano “scimmiottate” in traduzione, tuttavia è convinto che “il senso” di un testo non sia riconducibile al suo mero significato e che esso non sia l’essenza di un testo poetico, ma che viceversa lo siano il suo “ritmo”, il suo “suono”, la sua musica (mi permetto di rinviare, per l’approfondimento di questi aspetti, al mio studio Il senso del suono. Traduzione poetica e ritmo, Donzelli, Roma, 2013), ovvero ciò che trasgredisce la concettualità dell’originale e ne restituisce l’unità del moto e della significanza. Di qui la sua idea originalissima di “traduzione in senso ampio”, che non limita il tradurre all’atto ri-produttivo dell’originale, ma che la estende all’effetto che la conoscenza dell’originale ha su tutto quanto un lettore-traduttore-autore fa-pensa-scrive di suo dopo questa esperienza.

L’Italia è stata come si diceva da Bonnefoy molto amata, ma va detto anche che l’Italia, parlo di quella letteraria degli ultimi quattro cinque decenni, ha ricambiato questo amore, o almeno ci ha seriamente provato. Oltre alle tue Bonnefoy ha avuto in Italia anche altre traduzioni di valore: penso a quelle di Diana Grange Fiori, di Cesare Greppi (comprese nel Meridiano), ma anche di Maria Clelia Cardona (Fondazione Piazzolla 1998), di Gabriella Caramore, cui dobbiamo la versione di un capolavoro come L’arrière-pays (Donzelli 2004). E naturalmente si è giovato di un’attenzione critica non comune: basterebbe solo citare i contributi di un maestro come Stefano Agosti. Si tratta di una ricezione che non ha eguali, come sottolineavi, in altri paesi e vorrei che tu dicessi ancora qualcosa a questo proposito. E inoltre, per concludere, ti vorrei chiedere in che termini vedi l’influenza di Bonnefoy sulla poesia italiana degli ultimi anni, in un raffronto che mi pare interessante con la giovane poesia francese di cui pure recentemente ti sei occupato (Nuovi poeti francesi, Einaudi 2011).

Come dicevo sopra, la ricezione critica ed editoriale di Bonnefoy in Italia è straordinaria e forse senza pari altrove, e per sua stessa ammissione. Lo attestano anche le numerose traduzioni e letture critiche che nel tempo hanno contribuito a farlo conoscere e apprezzare, che sono quelle che giustamente tu evochi e anche altre, di alcune delle quali mi sono occupato in sede critica in varie occasioni.

Riguardo alla sua influenza sulla poesia italiana recente, non è facile rispondere se non per impressioni, troppo variegato e per molti versi dispersivo essendo il paesaggio poetico odierno, tanto in Italia quanto in Francia.

Distinguerei tra un’influenza assunta e rivendicata scientemente e un’influenza subita anche inconsciamente da autori che magari, per assunti teorici distanti, lo sconfesserebbero. La prima è quella della poesia lirica, che non si nasconde dietro i giochi del significante e che cerca di dire in poesia l’esperienza quotidiana del vivere nel luogo umano senza sotterfugi o infingimenti (per Bonnefoy la poesia è essenzialmente questo). La seconda è quella di chi, pur sentendosene distante per ragioni teoriche d’aderenza a poetiche di matrice prevalentemente formalista e sperimentale che tendono a incentrarsi sul meccanismo formale e linguistico, piuttosto che su un rapporto con il mondo, pur tuttavia non possono non subire la pregnanza della profondità di pensiero che risiede nella sua sperimentazione formale della prosa lirica (anche quando a loro ignota, per via dell’influsso imprescindibile, si pensi solo ad esempio agli Entretiens sur la poésie, Mercure de France, Parigi, 1990), non si spiegherebbe altrimenti la costante presenza di un autore come Bonnefoy nelle pagine di una rivista come “Anterem”. Ecco allora che quello che a certi poeti francesi e italiani appare in modo semplificatorio, per non dire anche mistificante, il poeta da molti ritenuto “ufficiale” e “celebrativo”, il poeta-professore di poetica del Collège de France, si rivela in realtà il solo forse oggi che abbia avuto il coraggio di difendere la poesia, tutta la vera poesia, da ciò che sembra volerne mettere in discussione la necessità, con l’autorevolezza della sua cultura e la lucidità del suo pensiero, oltre che con la grandezza del suo talento, se non a torto si è parlato di lui come del maggiore poeta francese del Secondo Novecento, un autore che sarebbe stato immenso anche solo per i saggi, le traduzioni e le prose che ha scritto, perfino se non avesse mai scritto poesia.

Nomi, per ragione di opportunità e descrizione, preferisco non farne, né su un fronte né sull’altro. Però, ora che ci penso, Bonnefoy in un’intervista, credo a “La Repubblica”, di qualche anno fa rispondendo all’intervistatore ebbe a fare qualche nome degli amici-poeti italiani che sentiva oggi più stretti e, per varie e diverse ragioni, a lui amici e affini e parlò, se non ricordo male, cito a braccio, di Valerio Magrelli, Roberto Mussapi, Eugenio de Signoribus e di me. Mentre nelle generazioni precedenti il suo amico italiano più stretto fu certo Piero Bigongiari.

 

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L'autore

Marco Vitale
Marco Vitale
Marco Vitale (Napoli 1958) vive a Milano dove al lavoro in biblioteca unisce la traduzione letteraria e le collaborazioni editoriali. Tra le sue traduzioni le Lettere portoghesi, Bur 1995, Gaspard de la Nuit di Aloysius Bertrand, Bur 2001, Stanze della notte e del desiderio di Jean-Yves Masson, Jaca Book 2008, Miseria della Cabilia di Albert Camus, Nino Aragno Editore 2011. La sua poesia è raccolta nel volume Gli anni (Nino Aragno Editore 2018, premio Luciana Notari e premio Dino Campana 2019, premio internazionale Gradiva 2020) e comprende cinque volumi di versi.

È stato tradotto in tedesco da Maja Pflug (Ein Winter, Josef Weiss Editore, Mendrisio 2008) e in inglese da Barbara Carle (Emblems of Sleep, Gradiva, New York 2020). Collabora a “Cenobio”, a “Poesia”, a “Succedeoggi” e fa parte della redazione delle Edizioni di poesia Il Labirinto.

(foto di Dino Ignani)