Parlando di Francofonia, che cosa c’è di nuovo, oggi, da dire? Una simile etichetta ha ancora senso nel 2014?
Comincio subito col raccontarle un aneddoto, per spiegarmi meglio: qualche tempo fa, ho posto la Sua stessa domanda a Alain Robbe Grillet. La risposta è stata «che vuoi che ne sappia, sono francese, non francofono». Ecco vede, questo è il problema: «francofono», per un francese, significa «non francese», alla stregua di «straniero», e, di conseguenza, gli scrittori francesi non si ritengono «francofoni». La questione, che può apparentemente sembrare solo un vizio di forma, non si presenta negli stessi toni per gli scrittori inglesi di origine asiatica o pachistana, … Vivono a Londra, o chissà dove, e scrivono in inglese, ma non sono considerati dei «diversi», come invece accade in Francia.
Io scrivo in francese, è la lingua che mi è stata insegnata a scuola, non mi devo certo giustificare per questo! Questa sorta di diffidenza verso gli autori di lingua francese fuori di Francia non mi tocca in maniera diretta, personalmente non me ne importa nulla, ma credo sia giusto segnalare che esiste e che va combattuta.
È questo dunque il motivo per cui ha accettato quest’intervista?
La questione della Francofonia ha sempre avuto per me un’importanza capitale. Ne ho parlato in molte trasmissioni televisive e in numerosi articoli di giornale. È come difendere un diritto primigenio. Inoltre non mi piace parlare dei miei libri, non voglio sostituirmi alla critica, decodificare significati simbolici nascosti tra le righe, ai quali spesso non ho nemmeno mai pensato! Preferisco parlare di quello che mi circonda, come scrittore, ma soprattutto come cittadino.
Secondo Lei qual è il motivo del differente riconoscimento letterario che Francia e Inghilterra rivolgono ai loro autori di origine coloniale?
La Francia ha un rapporto piuttosto particolare con le sue colonie, che non è del tutto pacifico, nemmeno oggi. Basti pensare alla guerra di Algeria, terminata nel 1962: è passato più di mezzo secolo, ma non è ancora stata ben digerita dai più.
Che cosa significa scrivere in francese per Lei?
Ho avuto fin dalla primissima infanzia un’educazione bilingue, scrivere in francese significava avere la libertà di dire (e non dire) cose che in arabo non ero capace, o non potevo esprimere. All’inizio è stato un trucco per nascondere molti dei miei pensieri ai miei genitori! Ma una volta che ho cominciato a scrivere in francese, non mi sono più fermato.
Oggi faccio veramente fatica a scrivere in arabo, un libro intero sarebbe per me un traguardo irraggiungibile. È una lingua magnifica, ricchissima, ma almeno altrettanto difficile. In Francia invece la lingua di Racine, di Rabelais è un esempio di suprema eleganza formale. In Inghilterra abbiamo il modello di Shakespeare, Dante in Italia, ma in arabo non c’è nemmeno uno scrittore rappresentativo! Il più grande poeta vivente di lingua araba non la padroneggia al 100%. Mahmoud Darwise, palestinese, ad esempio eccelle, ma possiamo considerare solo il Corano, ancora oggi, il solo rappresentante della lingua araba. È scritto davvero bene ed ha dei passaggi molto toccanti, come alcuni testi della Bibbia.
La lingua francese, per Lei, ha anche un significato più laico?
Sì, e allo stesso tempo mi permette una libertà e una padronanza lessicale che non ho mai avuto in arabo: non mi sento un’investitura per la lingua araba, cosa che invece percepisco col francese, la lingua che posso creare, immaginare e anche «maltrattare».
Secondo Pierre Assouline, gli scrittori francofoni sono i soli in grado di innovare la lingua francese, di arricchirla, di «irrigarla». Lei che ne pensa?
Ci sono degli scrittori veramente innovatori, del Congo, della Guadalupa, della Martinica, Patrick Chamoiseau per esempio, scrive in creolo e creolizza la lingua francese, arricchendola moltissimo.
D’altra parte è anche vero che quando l’ho letto ho avuto bisogno del dizionario, non è sempre facile comprendere ciò che scrive, troppe innovazioni! Ho incontrato Chamoiseau in Marocco, tre settimane fa. Parlando con lui ho percepito esattamente questa sua ricerca di sofisticatezza, si vede che ci tiene a superare i classici!
Il Suo stile di scrittura è limpido, semplice, elegante, si nota l’attenzione per una ricerca del significato piuttosto che del mero abbellimento linguistico.
Scrivo in francese, ma parlo in fondo di una società che non lo è, forse è per questo. La tradizione marocchina o araba dà in effetti più importanza alla ricerca tematica che a quella stilistica.
Ad esempio, Amin Maalouf, libanese, o Boualem Sansal, algerino, utilizzano ugualmente una lingua di scrittura molto semplice, piana. Il pubblico ama la nostra letteratura perché forse vi ritrova all’interno proprio una certa profondità di significato. La lingua francese ha dunque questa grande caratteristica, di essere utilizzata da scrittori che vengono da un «Altrove» ritenuto molto interessante dal pubblico.
Come pensa di essere percepito nel mondo? Che cosa cerca, secondo Lei il pubblico nelle sue opere?
Credo che principalmente i lettori cerchino nei miei libri una sensazione di spaesamento. Ma non per questo faccio della letteratura esotica o folkloristica! Per me non avrebbe alcun senso.
Anche quando racconto una storia dei giorni nostri, come Le Bonheur conjugal (Gallimard, 2012), che ho scritto l’anno scorso (il racconto parla di un tema universale, come la felicità coniugale, ma è ambientato in Marocco, tra i conflitti culturali e politici della società marocchina), ho avuto parecchio successo. Il libro è stato tradotto in italiano, in tedesco…
Questo secondo me vuol dire che non è solo una storia marocchina che è stata apprezzata, ma qualcosa di trasversale ed universale. Per il resto, direi che dipende dallo scrittore stesso. Io non so come vengo percepito nel mondo. Quello che so è che scrivo da più di quarant’anni e che non avrei continuato, se non avessi trovato un pubblico per questo genere di letteratura. Non penso personalmente che si possa scrivere rinchiusi nel proprio cantuccio. Io scrivo per il mio pubblico, sento che esiste, lo percepisco.
Lei è ben conosciuto e molto tradotto anche fuori dalla Francia, si direbbe che abbia avuto una sorte differente da quella di altri scrittori francofoni: che cosa ha fatto la differenza nel Suo caso?
Il premio Goncourt. È una specialità tutta francese, è unico al mondo. Non esiste premio letterario che muova così tanti media e riscuota altrettanto interesse. Venga da Drouant il prossimo novembre. Una bella fortuna riuscire a passare! Il premio Goncourt dà al vincitore la possibilità di tradurre il proprio romanzo in 45 lingue: è qualcosa di incommensurabile, che apre prospettive straordinarie. Ma torniamo alla traduzione. La Francia, come l’Italia, è un paese che traduce molto. In America solo il 3% della produzione editoriale è di libri stranieri, praticamente niente!
In Francia la percentuale tocca il 40% e in Italia è più o meno lo stesso. Vuol dire che siamo interessati a ciò che succede fuori da casa nostra, è una nostra qualità: la traduzione è segno di grande apertura e di curiosità verso l’altro. Il merito poi va anche alle nostre case editrici! Ma è chiaro che si traduce solo ciò che vende. Basta guardare le statistiche, il successo va al successo.
Il valore sociale e mediatico di un tale premio cambia quindi secondo Lei l’interesse degli editori stranieri per certi autori?
Certo, un premio come il Goncourt o altri, prevedono un grosso investimento da parte delle case editrici straniere, che traducono dal francese acquistando i diritti; ma è pur vero che c’è anche un certo investimento da parte dell’autore. Nel mio caso, dopo il Goncourt, per esempio, in Italia, ho pubblicato in grandi case editrici come Bompiani ed Einaudi, ma sono andato almeno un centinaio di volte a presentare i miei libri e ad incontrare il mio pubblico. Pubblicare in Italia oggi è diventato per me una questione importante tanto quanto in Francia.
Poi bisogna anche dire che la tematica di un libro può influenzare di molto le dinamiche di diffusione e di vendita. In Italia, appunto, sono diventato molto famoso dopo il libro sul razzismo, che non è certo rappresentativo della mia produzione letteraria.
Ma soprattutto sono andato in decine di scuole nel mondo. Mi piace andare nelle scuole…
Il Suo interesse per le scuole è molto importante e significativo. Qual è secondo lei il ruolo della letteratura nella società di oggi?
Le persone vogliono sapere che cosa succede attorno a loro. I libri di stampo sociologico di cui ho già parlato non sono affatto rappresentativi del mio lavoro letterario, tuttavia rispondono ad un vuoto, ad una carenza culturale. Per esempio in Italia, negli anni ’90/2000 chi era in grado di spiegare l’ondata migratoria proveniente dal Maghreb e più in generale dall’Africa? Ormai questo fenomeno esiste da 25 anni, ma fino a poco tempo fa nessuno ne parlava. In origine c’era solo la Lega Nord, coi suoi discorsi razzisti.
D’altra parte è pur vero che il ruolo della letteratura è soprattutto quello di raccontare delle storie. Quando sono andato in Messico non ho acquistato una guida ma un libro di Carlos Huante; e uno di Borges, e Hernesto Sabato prima di partire per l’Argentina.
Un romanziere è il migliore traduttore della società in cui vive: penso sia quindi importane far giocare alla letteratura un ruolo informativo. Si conosce meglio l’Italia leggendo Moravia! E quando ho lavorato sulla Sicilia, ho letto molti romanzi di Sciascia. Calvino poi, un percorso di conoscenza straordinario, ai limiti dell’immaginazione.
Per me la letteratura è una geografia dell’immaginario.
Senza parlare di ideologia, in che misura la letteratura può essere testimonianza attiva di un momento storico? Qual è e/o quale dovrebbe essere il ruolo dello scrittore oggi?
Lo scrittore non è solamente qualcuno che scrive dei libri, è anche un cittadino che può intervenire come chiunque altro nella vita pubblica. Io per questo mi do molto da fare, ritengo di dover andare verso le persone, parlare con loro. Il libro sul razzismo mi ha attribuito un ruolo pubblico, che ho poi volentieri continuato a mantenere.
Il ruolo degli scrittori è cambiato in questi ultimi anni. Ci sono stati scrittori che hanno fatto la differenza, come Zola, Sartre,… Camus soprattutto, così preoccupati per il loro paese, per la Storia. Camus ha scritto dei libri magnifici, è uno degli autori maggiori del ventesimo secolo, ancora oggi letto e studiato moltissimo. Gide, al contrario, si è mostrato molto più preoccupato per la sua persona e la sua filosofia di vita, non era certo uno scrittore calato nelle dinamiche della società di allora. Les nourritures terrestres è un romanzo molto forte, ma non manifesta alcun tipo di impegno politico. L’étranger o La chute di Camus sono invece delle opere universali.
Per me uno scrittore è prima di tutto un cittadino. Può avere delle opinioni politiche ed appartenere ad un partito politico. Io personalmente non sono schierato, ma la condizione umana in generale mi preoccupa molto, i diritti dell’uomo, delle donne, la questione dell’immigrazione.
Sento il bisogno in proposito di fare letteratura vera, anche se drammatica. Senza ideologia ma comunque non trascurando l’impegno sociale.
Che cosa rappresenta per Lei Parigi?
Abito qui per comodità, ma il mio sguardo è piuttosto diretto verso il Marocco e il mondo arabo.
I Francesi non hanno bisogno di me per guardarsi in casa, hanno già abbastanza scrittori.
All’inizio della mia carriera ho pubblicato dei testi piuttosto critici sulla Francia e l’ospitalità francese. Sono stati molto mal considerati. Le librerie li rifiutavano ancor prima di leggerli.
La Francia è il paese che mi ha accolto, ma politicamente sono molto deluso da Hollande e da un punto di vista culturale gli anni ’60 erano molto più ricchi. C’erano manifestazioni continue, contro la Guerra in Vietnam, contro il razzismo, per la difesa degli immigrati, un sacco di questioni che bisognava assolutamente denunciare. Sartre e la sua squadra, Michel Foucault… hanno dato alla Francia questo aspetto di dibattito e di contestazione aperta. Oggi ognuno per sé. Nessuno scende più in strada. Le più grandi manifestazioni che ci sono state recentemente, e dopo molto tempo, sono quelle dei diritti civili, del matrimonio per tutti.
Un problema importante per la società, d’accordo, ma oggi è impossibile far manifestare i Francesi per denunciare la politica israeliana nei territori occupati. Nessuno scende in strada, al massimo inviano un tweet, dei messaggi…
Come si spiega questo cambiamento?
È una questione generazionale, la generazione di Sartre era più concentrata su se stessa che sull’esterno. Oggi invece i dibattiti si fanno alla televisione! Ha visto il caso di Dieudonné, il sedicente comico… razzista, estremista?
Non mi ha mai fatto ridere, il suo humor è mediocre. In più sostiene i Palestinesi, ma i Palestinesi non hanno certo bisogno di lui. Ci sono ugualmente dei movimenti di razzisti anti-bianchi. Una situazione veramente preoccupante… ma io non faccio distinzioni tra gli uomini, tutti sono capaci di tutto. Non è il colore che determina certi avvenimenti, il colore è frutto solo del caso.
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L'autore
- Francesca Dainese è dottoranda in cotutela presso l’Università di Verona e l’Université Sorbonne Nouvelle-Paris 3. Il suo lavoro di tesi è dedicato ad indagare il tema dell’identità nell’opera di Romain Gary, Georges Perec e Patrick Modiano. Ha partecipato a numerosi convegni nazionali e internazionali e ha pubblicato diversi articoli, dedicati alla letteratura francese e francofona contemporanea. Membro dell’équipe THALIM e dell’Association Georges Perec, ha trascorso gran parte del suo lavoro di ricerca in Francia. All’Università di Verona è co-organizzatrice di un seminario sulle scritture del dopo-Shoah, di cui sta curando anche una raccolta di saggi di prossima pubblicazione, dal titolo Contourner le vide: écriture et judéité(s) après la Shoah.