Co-fondatore del CRT di Milano, già direttore del Festival di teatro contemporaneo di Sant’Arcangelo di Romagna, Silvio Castiglioni è attore e ricercatore teatrale. L’11 dicembre 2014 Silvio Castiglioni è stato ospite dell’Université de Liège, nell’ambito del progetto di ricerca del Département de Langues et Littérature Françaises et Romanes, Etre un romaniste aujourd’hui (Essere un letterato oggi). Qui ha messo in scena il racconto Casa d’altri di Silvio D’Arzo e tre monologhi di Nino Pedretti: Una donna romantica, L’ipocondriaco, Un intervento al congresso internazionale di ittiologia. Alla rappresentazione è seguita l’intervista a cura di Ilaria de Seta (ULg) e Tiziano Toracca (Uni Pg – UGent). Castiglioni è solito mettere in scena testi letterari non pensati per il teatro: la sua è un’operazione di rifunzionalizzazione. La giornata è stata concepita e condotta all’insegna di una duplice decontestualizzazione: il teatro nell’università (pare ovvio ma non lo è) e il testo “svelato” dal corpo dell’attore.
(IdS) Vorrei fare un’iniziale considerazione sui testi: c’è una lampante analogia tematica tra Casa d’altri di Silvio D’Arzo e Una donna romantica di Nino Pedretti tra di loro conterranei e della stessa generazione – che implica un’insolita riflessione sulla femminilità, sul ruolo della donna: nei finali le due protagoniste esprimono il desiderio di morire. Cosa ne pensi? Perché questi testi così duri ti hanno ispirato?
Quando D’Arzo muore, Montale scrive un articolo sul «Corriere della sera» e definisce Casa d’altri il racconto perfetto della letteratura italiana. Ora, cosa c’è di sexy in un racconto che narra la storia di un prete e di una vecchia che si vuole suicidare? La risposta è in due cose. La prima è la lingua di D’Arzo: è una lingua particolarissima, una lingua passata a un filtro – e questa è già una cosa in comune con Pedretti. Quasi tutta la prosa di Casa d’altri è scandita in decasillabi: potete prendere la misura del verso del decasillabo e ricavarne tantissimi dal testo, a grappoli. La seconda cosa è una profonda adesione al tema – una vecchia che chiede di andarsene prima del tempo – perché è una situazione che D’Arzo aveva in casa. E questa vecchia era la mamma. D’Arzo non sapeva chi fosse suo padre e il suo stesso nome (D’Arzo) è uno pseudonimo: ha usato decine di pseudonimi, era in cerca di maschere (c’è una ipotesi, e cioè che il padre fosse un famoso deputato socialista). Quando D’Arzo muore all’età di trentadue anni per una forma di leucemia oggi curabilissima, la madre scrive una lettera all’editore in cui lei dice “non vedo l’ora che il signore mi chiami, sono stufa” (e la cosa pazzesca è che la mamma era una bellissima donna ed era anche corteggiata). Questa amarezza di fondo ha condito tutta la sua esistenza.
Quanto a Pedretti, che con le donne aveva un rapporto complesso, come D’Arzo, ha un’incredibile capacità di entrare nell’animo femminile. Dei monologhi e racconti (ne ha scritti una ottantina di questi monologhi di cui una trentina sono davvero buoni perché li ha scritti in maniera sempre più febbrile negli ultimi anni della sua vita, quando si sapeva ammalato, per cui molti li ha buttati giù di getto); fra quelli dedicati alle donne ne ricordo quattro: La suora, La Puttana, La Cartomante e Una donna romantica. Sono tutti racconti perfetti, c’è da tagliare pochissimo. Così come sono scritti si possono dire. Questo è un segno di grande felicità. Tra la scrittura dei racconti e la scrittura di Casa d’altri trascorrono circa venticinque anni. Comincia infatti a scrivere questi monologhi nel 1977 perché la Rai glieli chiede per fare dei format radiofonici…
(TT) Ma Casa D’altri è stato tradotto in francese?
Sì, “Maison d’autre”.
(TT) Che cosa significa secondo te questo titolo, Casa d’altri? Credi che tra il prete e la donna ci sia una forma di riconoscimento reciproco? A me ha fatto pensare a una sorta di chiasmo. Il prete è un uomo morto che vuole vivere, la donna è una persona viva che vuole morire. Cosa ne pensi?
Sì, D’Arzo dice “perchè il mondo non è casa tua e a te sembra di starci a dozzina” (anche questi sono due decasillabi). Si tratta di una casa perché si paga l’affitto ma non è propria. Il mondo non è nostro. Questa idea del chiasmo è molto bella e mi sembra molto appropriata. È vero che questo racconto è stato definito “un giallo dell’anima, spietato e delicatissimo, una storia d’amore” perché nel racconto (noi l’abbiamo dovuto per forza di cose ridurre) il prete abbandona tutte le sue preoccupazioni e questa unica pecorella (è la parabola del vangelo) diventa una ossessione e lui abbandona tutti i pensieri della parrocchia, non riesce più a badare agli affari, trascura i suoi doveri perché ha in mente lei con la sua domanda che all’inzio è una domanda trabocchetto (una domanda teologica), vede come il prete reagisce a una domanda a cui lui non può che rispondere “sei matta” (se due possono divorziare? non si fanno queste domande). In realtà la domanda non era questa, è una prova a cui lei sottopone il prete e il prete si morde la lingua perché si accorge che ha risposto in modo dottrinario. Non doveva risponderle in modo dottrinario. Ma è tardi. L’ha impaurita. E lei se ne va. E poi c’è questa storia della lettera che lei scrive, poi si pente, la va a riprendere… il prete è ossessionato da questa donna, e quindi è vero, la sua vita che prima si trascinava monotona tra i doveri della parrocchia, diventa sempre più agitata, si eccita (potremmo dirlo di una storia d’amore) è febbricitante, la insegue di notte.
(TT) Nella tua recitazione il prete veste i panni dell’innnamorato, si sta un po’ innamorando di lei. Ovviamente è una donna di una certa età e lui non la conosce. Ci sono nel testo delle spie che fanno capire che il prete si sta innamorando?
Lui ha l’impressione che lei abbia da fargli una domanda che potrebbe essere una risposta per lui. Ha questa strana impressione. Solo che la domanda è una di quelle domande che ti lasciano senza fiato. E infatti quando lei gli fa finalmente la domanda lui non fa l’errore di prima (di dire no non si deve fare) ma ammutolisce, non risponde, non sa cosa dire. Capisce che è una domanda d’amore come sono d’amore le domande di tutti coloro che chiedono di morire. Che altro sono le domande di chi chiede di morire? Anche la donna romantica che domanda fa? Lei sognava l’amore romantico… Sono tutte domande d’amore, questa è la loro radice.
E questo anche Baldini (che non abbiamo ancora nominato) perché anche Baldini nel suo Labirinto fa questa stessa cosa. A proposito del tema del suicidio, mi viene in mente Pavese, che la vita se l’è poi tolta. Le battute che Pavese dedica a D’Arzo sono imbarazzanti per Pavese. L’ha bocciato praticamente. Forse perchè D’arzo usa una prosa ritmica tipica dell’epoca (di Pavese, di Vittorini) ma la usa bene: è una prosa che diventa quasi fastidiosa. Io che l’ho recitato (e ho recitato anche Pavese) posso dirvi che è difficilissimo perchè è facile “batterla”. È una filastrocca che bisogna ammorbidire molto nella recitazione per non rischiare la cantilena. Se lo fai con Pavese non viene così bene. D’Arzo, se tu lo ammorbidisci, la fai pulsare sotto la lingua; in poche parole in questo era superiore e Pavese probabilmente se n’è accorto (io azzardo). Le prime venti righe di Casa d’altri le ha usate per scrivere un racconto totalmente diverso: D’Arzo era un virtuoso della lingua e ha scritto un libro All’insegna del buon corsiero in stile settecentesco. Uno che si avvicina a questo tipo di virtuosismo era forse Fenoglio.
(TT) D’Arzo ha scritto anche delle poesie?
No, (o almeno non mi risulta) lavorava molto sulla prosa. Di Casa d’altri conosciamo almeno dieci versioni. Stava continuamente togliendo.
(IdS) E questa che hai utilizzato, al di là dei tuoi tagli, è la versione finale del testo?
La stava finendo di correggere e ci sono dei pezzi che evidentemente avrebbe tolto perché era troppo. Lui toglieva molto.
(IdS) A proposito delle politiche editoriali, sono gli anni in cui ci sono celebri scrittori nelle case editrici, ma sono fortemente censori.
Ideologici.
(IdS) Basti pensare a Vittorini e Il gattopardo.
Erano editori ideologici. Abbiamo infatti nominato Vittorini e Pavese.
(TT) Ritornando al tema del suicidio, a me pare che ci sia un grande desiderio di vivere (e d’amore) in Casa d’altri (ma anche nella donna romantica) soprattutto pensando alla figura del prete e cioè del personaggio principale. Un desiderio di vivere che viene alimentato paradossalmente (e improvvisamente) da una donna che invece vuole morire. Il finale ad esempio. Cosa ne pensi Silvio?
La figura del chiasmo è azzeccata. D’Arzo naturalmente non ci dice come va a finire lei. Il racconto racchiude un mistero. A un certo punto lei è morta e lui che ha fallito il suo incontro con lei non saprà mai come questo sia potuto accadere. E poi c’è questo accenno (nel finale) al biglietto che lui avrebbe staccato per andarsene da questa che è una casa in prestito, che fa venire un pò i brividi. “Credo di avere anche il biglietto” dice. “E le capre si affacciano agli usci con degli occhi che sembrano umani”. Tutto questo accade mentre la natura indifferente guarda.
(IdS) Tu, mi sembra, rispondi non solo da interprete e attore ma principalmente da lettore. Credi che sia cambiato il ruolo del letterato nel tempo? In che modo questi testi costituiscono un’auto-riflessione sulla condizione del letterato? A me pare lo siano L’ipocondriaco e Un intervento al congresso internazionale di ittiologia, ma anche L’instabile.
Io non sono figlio di una scuola di teatro. Io non ho mai frequentato una scuola di teatro. Ho frequentato teatranti e ho conosciuto molti artisti di teatro. Il teatro io l’ho imparato ma non me l’hanno mai insegnato, quindi a volte ho dei buchi. Ho studiato filosofia. Ho recitato anche con grosse compagnie che hanno messo in scena testi teatrali, da Moliere, Shakesperare, Piranedello etc. Ho fatto l’attore in senso diciamo così tradizionale. Però quando faccio i miei progetti non parto mai da testi teatrali ma parto dalla letteratura. E faccio anche dei salti mortali pericolosi: portare in scena La Storia della colonna infame del Manzoni è audace perché se c’è un autore che letto in silenzio è sublime e letto ad alta voce è un prete insopportabile, è lui. Le parti più belle della colonna infame, quelle in cui la sua prosa è più raffinata, è una prosa che pensa ma che appena la pronunci non va. Ti viene il nervoso, l’itterizia. Va letta in silenzio. Quindi portarla in scena è stato un problema. Ho scoperto queste cose. Per ogni autore – per arrivare alla domanda – c’è una strada che a volte è diretta (come in Pedretti) a volte (in D’Arzo) è quasi diretta – abbiamo pensato il suo ritmo come un radiodramma degli anni Cinquanta, come se ascoltassi la radio con gli occhi chiusi – e poi ci sono quelli che invece (come il Manzoni) sono complicatissimi.
(IdS) Quindi il lavoro che fai è moltiplicare il senso della letteratura (non teatrale) e renderla fruibile in un contesto diverso, e, decontestualizzandola, aggiungere un valore. In più, utilizzando dei testi che mettono in discussione in maniera ironica e molto efficace il ruolo dello studioso (penso all’Intervento al congresso internazionale di ittilogia) e i luoghi della cultura (penso alla biblioteca dell’Ipocondriaco).
Io ho lavorato anche con testi di Mandelstam, un poeta russo che è molto complicato da recitare. L’ho fatto come fosse una sfida. Io sono un lettore di libri che cerca una strada per portarli in scena.
La mia risposta al ruolo del letterato, se cioè questa è una delle possibili incarnazioni del letterato, uno dei possibili contributi che può dare un letterato, è una contro domanda: quali sono le parole che sopportano di essere dette e non solo lette? Se queste parole possono essere dette e quindi ascoltate, qual è il modo dirle come se qualcuno le ascoltasse? Come se tu restituissi nel dirle una forma id intimità che è propria della lettura. Non c’è dubbio che la lettura è un rapporto intimo col testo. Questo è il mio contributo. Perchè non proviamo a dare suono a queste parole scritte, ai testi di Volponi, di Borgese? Ogni autore però pone dei problemi diversi.
(TT) Quando hai recitato l’Ipocondriaco, a un certo punto hai allontanato il microfono e hai parlato a voce. Perché lo hai fatto? Volevi usare un tono di voce gridato?
Avevo deciso di abbandonare tutti gli infingimenti.
(TT) L’uomo è un animale feroce. Il titolo del tuo spettacolo…
Che è un verso di Nino Pedretti, che a differenza di D’Arzo ha scritto molta poesia ed è molto famoso per i testi in dialetto romagnolo e ha scritto anche in italiano e uno di questi versi è L’uomo è un animale feroce.
(TT) Il sentimento principale con cui hai recitato mi sembra la rabbia, la ferocia. Sembrava che tu ce l’avessi con qualcuno. Dove vai a prendere questa carica?
Tu tocchi un tasto molto sensibile. Devo fare una piccola premessa: vivo da anni vicino a Sant’Arcangelo di Romagna dove ho diretto il più importante festival di teatro di ricerca italiano e l’ho diretto dal 1998 al 2005. Sant’Arcangelo è famoso in Italia per questo festival teatrale. Tonino Guerra, Raffaello Baldini e Nino Pedretti sono nati a Sant’Arcangelo di Romagna e sono tre poeti in lingua romagnola. Erano molto amici e sono stati i primi spettatori del festival e ne parlavano tra loro.
(TT) Ma la rabbia?
Ah sì, la rabbia. Io comprendo il dialetto romagnlo ma non lo parlo perché sono veneto. È un’altra lingua. Parlo la lingua di Goldoni e Zanzotto e sono stato Arlecchino. Il discorso è questo: quando i romagnoli recitano in romagnolo fanno ridere ma io che leggo in italiano vedo la rabbia e il dolore, le “noir” di questi testi. I romagnoli infatti mi chiedono che cosa faccio.
(IdS) Gli studenti francofoni, leggendo i testi di Pedretti, hanno avuto l’impressione che fossero testi molto drammatici. Leggendoli insieme non abbiamo riso. L’ironia si perde nel passaggio linguistico: dialetto romagnolo, italiano, francese e forse la recitazione è un’ulteriore lingua…
Una sera ho letto le poesie di Tonino Guerra in italiano e lui non le riconosceva. Lui pensa sempre in dialetto. Ivano Marescotti ha interpretato i testi italiani di Raffaello Baldini.
(IdS) Tornando ai testi di Pedretti, alcuni studenti si sono domandati: come risponderesti tu alla domanda che viene rivolta nel Congresso di ittiologia? Ovvero quale strategie utilizzeresti per affrontare l’esistenza della quale siamo inconsapevolmente parte?
Faccio una premessa: Giaele Pedretti, la sorella di Nino, Pedretti un giorno mi chiamò e mi disse che aveva trovato altri monologhi, e mi propose di leggerli pubblicamente (il primo volume a cura di Manuela Ricci e Ennio Grassi, il secondo a cura di Tiziana Mattioli dell’Università di Urbino). Quando ho cominciato a leggerli la mia prima reazione è stata il riso, poi ho cominciato a lavorarci ed è affiorato un tono più cupo. Pedretti quando era sul letto di morte scriveva a grandi caratteri, erano dei geroglifici; i manoscritti di Pedretti sono impressionanti. Il giorno che è morto è arrivata una lettera da Einaudi che rifiutava la pubblicazione del suo manoscritto.
Per rispondere alla domanda: come posso rappresentare tutti questi personaggi differenti, ecco, se pensavo ad attori diversi per ciascun monologo c’era qualcosa che non funzionava. Sono delle silhouettes: non bisogna troppo caratterizzarli, bisogna trovare la giusta distanza. Ho deciso perciò di interpretare l’autore che li prova, li ripete. La prima volta ho immaginato che era seduto in una poltrona, vestito di tutto punto, perché si preparava a uscire, ma era malato, non poteva alzarsi, aveva un bastone, cercava di muoversi, ma non aveva le forze per uscire; e il microfono, come nell’Ultimo nastro di Knapp di Beckett, cerca di registrare il monologo avvicinandosi a lui che è immobile. Quindi io penso che la risposta alla tua domanda è che Pedretti ha lavorato fino alla fine e non ha mai smesso di scrivere perché scrivere equivaleva a vivere.
L’analogia per me sta nel fatto che vivere consiste nello stare sulla scena: normalmente rappresento nove monologhi in una serata. E ce n’è uno che si intitola La battaglia che è veramente particolare perché non si sa da dove partire perché sembra descrivere una partita a scacchi che è evidentemente una metafora della vita.
(IdS) Cambio tema, per porti una serie di domande che esulano dai testi che hai rappresentato. Destra e sinistra del cervello sono complementari oggi negli intellettuali ? o sono piuttosto tenute separate ? può il letterato essere ancora crativo? credi sia una contraddizione in termini il « letterato, (“romanista”, intellettuale,) “creativo” » ? tu come coniughi queste due anime ? Letterato-intellettuale-professore-artista… dove termina la catena di sinonimi-antonimi ? tu sei filosofo di formazione e, prima di interpretarli, adatti testi che non sono stati scritti per il teatro. Credi che l’interdisciplinarità (-storia- letteratura -arte-teatro) sia una qualità vincente per l’umanista oggi ?
Oh, sì! credo che sia molto stimolante: se voi foste cinesi e io cercassi di farmi capire da voi dovrei fare uno sforzo; ma non è vero che non mi capireste. Baldini, il terzo dei tre di Sant’Arcangelo – qualcuno lo considera uno dei più grandi poeti italiani del Novecento – ha scritto un’opera che si intitola In fondo a destra. È la storia di un uomo che crede di essersi perduto in un labirinto e in questo labirinto incontra molte persone che hanno la soluzione; ma nessuna è quella giusta; sono degli impostori. Baldini era molto preciso e minuzioso nel comporre. Mi diceva: “Silvio, In fondo a destra è il testo; ho scritto circa 30 pagine, tu le metterai in scena, forse 30 sono troppe perché il teatro ha le sue regole, in teatro si usa il corpo; e tu puoi tagliare quello che vuoi, ma per favore non aggiungere niente”. Credo che con questa battuta ho risposto a tutte le tue ultime domande. La risposta risiede nel corpo, in quello che posso portare con me attraverso la mia voce e la mia presenza. Anche il testo è un corpo, tutto è un corpo, bisogna accettare la logica del corpo: tutto nasce, vive e muore.
(IdS) Quando hai finito gli studi di filosofia hai avvertito l’urgenza di utilizzare il corpo…
Ho scoperto che la filologia si occupava delle parole e mi sono detto: “è questo che volevo fare, avrei dovuto studiare filologia e non filosofia”. E poi ho capito che i filologi si occupano dei testi come se fossero dei corpi.
(TT) Chi sono i protagonisti delle storie di Pedretti? Chi è secondo te il protagonista dell’instabile?
I racconti di Pedretti sono immediati, parlano di noi: l’Instabile è l’autoritratto di ciascuno di noi. Ma ci sono anche dei testi refrattari, per esempio: La mattina del 21 di giugno del 1621, alle quattro e mezza del mattino. Così comincia La storia della colonna infame. Chi è che parla? C’è un narratore onnisciente che si presta poco a essere rappresentato.
(IdS) La tua messa in scena è molto sottile: hai interpretato una vecchia donna e un prete senza cambiare costume né voce. Ci puoi dire qualcosa su questa scelta?
Nel mettere in scena il racconto di D’Arzo mi avete visto nei panni di un prete, ma per fare la donna non ho cercato la voce di una donna né il corpo di una donna. Nel testo di D’Arzo il prete guarda la donna sempre dall’alto e lei è sempre in basso (anche nel paesaggio si dice laggiù etc.). A tal punto si sente dire in basso, laggiù etc. che quando io ho dovuto metterla in scena l’ho posizionata in basso rispetto alla figura del prete. Abbiamo dunque preparato i personaggi e studiato la loro posizione simbolica dal testo alla scena.
(IdS) La rappresentazione dello spazio è dunque fondamentale.
Il corpo. Il corpo deve agire sulla scena e lo spazio del teatro è in sé uno corpo. Questo spazio diviene a me familiare.
(IdS) In questo senso, come vedi il panorama culturale italiano ed europeo e come ti ci collochi tu? Quale è il tuo rapporto con le istituzioni ? con l’università? ti accorgi di essere percepito in ambienti diversi in modo diverso ? Che effetto ti fa?
Agire fuori dal proprio contesto è una grande occasione. Io ora sono all’Università ma in un teatro. Ed è un caso eccezionale. Il teatro è l’unico luogo in cui è impossibile nascondersi perché in teatro si vede tutto. Lavoro all’Università di Brescia (Università Cattolica di Milano) e lavoro con studenti di teatro, arte, cinema, televisione, giornalismo. Talvolta lavoro a Trieste o a Reggio Calabria con gruppi di studenti. Insegno anche in una scuola di teatro per attori a Milano. Il lavoro con la gente che non ha intenzione di fare teatro è molto interessante perché mi sorprende e si sorprende più spesso. Come hai detto prima la parola chiave è: decontestualizzare.
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L'autore
- Ilaria de Seta si è formata all’Università di Napoli Federico II, ha perfezionato gli studi all’University College Cork e insegnato all’Université de Liège. Attualmente vive a Bruxelles, è Research Associate alla Katholieke Universteit Leuven e Freelance Editor presso la casa editrice Peter Lang. Ha dedicato numerosi studi alla rappresentazione dello spazio nella narrativa otto-novecenetesca e alla parabola intellettuale di Giuseppe Antonio Borgese. Ultimamente si sta concentrando sull'opera di Federigo Tozzi e sulla rappresentazione di medici e pazienti nella letteratura europea moderna e contemporanea.
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