Isabelle Grell è una studiosa di letteratura e specialista di autofiction. Membro dell’équipe “Sartre” (ITEM-ENS, CNRS, Paris) e responsabile della collana “Le livre – La vie” presso la casa editrice Cécile Defaut, la Grelle co-dirige il sito http://autofiction.org, creato nel 2003 con l’obiettivo di approfondire lo studio di questa pratica letteraria. La nostra conversazione con lei si pone l’obiettivo di contribuire al dibattito sull’autofiction.
Qual è la sua definizione di autofiction?
Se dovessi formulare una definizione semplice, molto semplice, dell’autofiction, direi che è un racconto connotato da uno stile, socialmente riconoscibile e impegnato, interamente riconosciuto da un IO che è l’autore. Racconto, per evitare il termine del romanzo o di autobiografia, connotato da uno stile, perché è proprio lo stile, la sottile musica poetica che ogni autore percepisce quando scrive, che distingue l’autofiction dall’autobiografia classica, che si inscrive piuttosto nella cronaca di una vita. Socialmente riconoscibile e impegnata, perché in una autofiction non viene riportato il racconto di tutta la vita del protagonista, ma solo di una parte, che è “in situazione”, se si vuole riprendere l’espressione di Sartre. Infine, “interamente riconosciuta da un IO”, poiché lo scrittore porta lo stesso nome del narratore e ne assume la responsabilità fino a doversi difendere davanti alla legge, come abbiamo visto negli ultimi tempi, o a dover mettere a rischio la propria vita: penso, a questo proposito, a Abdellah Taïa, che potrebbe essere perseguito penalmente per crimine di omosessualità, in Marocco.
I lettori confondono spesso l’autofiction con l’autobiografia: quali sono le differenze fondamentali tra queste due forme di scrittura?
Come ho appena spiegato, un’autobiografia, per quanto possa essere scritta in modo straordinario, viene redatta, nella maggior parte dei casi, in maniera teleologica. Un determinato Essere scrive la sua vita, nella sua totalità e non per sezioni – non parlo di sezioni di vita cronologiche, i memorialisti redigono spesso le memorie in più tomi, per fasce di età o di periodi storici – ma di sezioni di vita separate, strappate alla vita vista come un intero. Nell’autofiction, l’autore estrae un filo dal tessuto che è la sua vita e, più che tagliarlo, lo segue, lo taglia, lo riattacca, lo sfilaccia, lo riannoda. Non tenta di mostrare al lettore, attraverso il racconto, un cappotto fatto del tempo passato, un abito che veste tutta la persona. L’autore di autofiction mostra allo sguardo di chi lo tiene tra le mani sotto forma di libro, soltanto una quadro generale, volontariamente, e non solo inconsciamente, alleggerita, consapevole del fatto che non potrà dire tutto di se stesso, poiché c’è stato di mezzo Freud, e poiché non arde dal desiderio di raccontarsi tutto, di raccontare tutto di sé, o, semplicemente, di raccontare tutto. L’autore di autofiction è un cacciatore. Di se stesso, ma anche – e questo vale soprattutto nei casi migliori – un un cacciatore dell’altro, che lo fa esistere.
Potrebbe citare gli autori a suo avviso più significativi dell’autofiction?
Serge Doubrovsky, Hervé Guibert, Camille Laurens, Philippe Forest, Annie Ernaux (anche se lei lo nega: la sua “socio-biografia”, come lei la definisce, è una sorta di autofiction caratterizzata dalla divisione in parti, dallo sfilacciamento del tempo raccontato), Chloé Delaume, Dustan, certamente la Duras, oh, e ne dimentico molti!! Questi scrittori, in Francia, sono per me i più grandi, quelli maggiormente rappresentativi. Ma vorrei tanto aggiungervi Claire Legendre e Thomas Clerc, ultimamente i testi molto gradevoli di Monika Sabolo, la formidabile Catherine Millet e anche Hubert Lucot, il matematico degli autori di autofiction, Matzneff e Violette Leduc, impareggiabili, la Angot, chiaramente, Emmanuel Carrère, Catherine Cusset, i testi di Pajak, accompagnati dai disegni di Lea Lund, Yves Charnet. Poi, negli altri Paesi, ci sono grandi autori come Coetzee, Paul Auster, Philip Roth e altri per le Americhe, Abdellah Taïa, Leïla Sebbar, Assja Djebar, Nina Bouraoui, Maissa Bey per gli autori “sradicati” dell’Africa del nord o del sud, ma anche Alain Mabanckou e Laferrière per le Antille. In Brasile, ci sono Paolo Lins o Fernando Gaba, in Giappone, non si possono non citare Kenzaburô Oé e Tsushima, in Cina, Mian-Mian e Weihui. In Spagna, Vallejo, Borges, Unanumo, Villa-Matas. Nei Paesi germanofoni, non si possono ignorare scrittori come Martin Walser, alcuni eredi di Kafka, Thomas Bernhardt, Christa Wolf, Herta Müller, Paul Nizon. Si potrebbe continuare ad elencare autori per ore, ma, questa è la mia selezione più restrittiva, e dunque molto discutibile… Poi ci sono il fumetto, (Fred Neidhardt, Frédéric Boilet, Miss Tic, Ulli Lust), i libri illustrati (l’autore più sorprendente è Jean-Pierre Marquet, col suo volume Autofictions) o le autofiction poetiche come Stilnox di Sylvain Courtoux, così come alcuni fumetti erotici come quelli di Aurelia Aurita o le performance poetiche, di difficile accesso, ma godibili, di Sandra Moussempes o di Chloé Delaume.
In quali esperienze letterarie è possibile riconoscere le basi teoriche dell’autofiction?
Oh, il termine autofiction è nato dalla penna di un professore universitario, che aveva come collega Robbe-Grillet, che frequentava Barthes, che aveva diretto convegni con Todorov, che aveva scritto i suoi primi articoli sulla Sarraute e su altri autori del Nouveau Roman. L’influenza strutturalista, il fatto che l’autore sia stato “condannato a morte”, d’altronde, condannato e poi resuscitato da quegli stessi critici (La Chambre claire o Roland Barthes par Roland Barthes, il ciclo della Nouvelle Autobiographie di Robbe-Grillet ecc, già parlano da sole), ha avuto la sua parte nell’invenzione del termine da parte di Serge Doubrovsky. E, ovviamente, la psicanalisi. Cos’altro è, se non autofiction, l’Interpretazione dei sogni di Freud?
Quali sono le più recenti tendenze estetiche dell’autofiction?
L’autofiction mondiale si individualizza, si emancipa, rispetto all’autofiction francese, è evidente. Esiste anche un’altra tendenza, quella di integrare altri elementi, oltre alla scrittura, di partire da fotografie, di integrare anche l’arte nella scrittura, la musica. Di non partire unicamente dalla famiglia, dalla terra, dal Paese, ma di realizzarsi in quanto progetto artistico completo, il che permette una mise en abyme ancora più profonda di quella che ci offrivano le prime autofiction impegnate nella vita. Si vedono sempre più artisti non scrittori “autofictionalizzarsi” nella pittura, nella fotografia, nella scultura, nel cinema, nel teatro.
È possibile ritrovare forme di autofiction in alcuni generi letterari del passato, come, per esempio, i diari, le memorie, le ricordanze?
Terreno vasto. Ein weites Feld, direbbe il padre di Effie Briest. Per rispondere, occorre coinvolgere la critica genetica. I diari, anche ripuliti, rivisti, corretti, sono una cronaca scritta giorno per giorno, seguendo il tempo che passa. I diari possono diventare autofiction se perdono la loro forma di cronaca quotidiana e si integrano in un racconto assunto da un IO, che si pone l’obiettivo non di far seguire al lettore una sequenza cronologica, ma dalla quale scaturiscono uno o due fili che rappresentano il tempo nel quale l’IO si muove. Le memorie sono radicalmente opposte all’autofiction. Già il termine “memoria” insinua che si possa ricordare la propria vita e che, dunque, essa sia già, per la maggior parte, passata. Nell’autofiction, al contrario, si reinventa la vita in ogni momento, in ogni frase detta, in ogni immagine estratta dalla memoria, scelta per tal ragione o per talaltra, ed è a partire da questo, da questo riflesso, da questa corda, da questo filo della reinvenzione della propria vita, che partono gli autori di autofiction.
Quale valore artistico è possibile attribuire ad un’auto-narrazione fondata su dati reali, senza mediazione?
Non posso né voglio pronunciarmi su un qualunque “valore artistico”, che si tratti di quello di un’arte praticata da scrittori, pittori o altri artisti. Sarebbe pretenzioso credere di poter attribuire un valore certo agli uni, e privarne gli altri. Ciò che posso dire, per contro, è che SEMPRE c’è una mediazione del reale, poiché solo il fatto di prendere una penna bic o di digitare su una tastiera, necessita, ipso facto, di un passaggio da qualcosa che è altro rispetto alla “pura realtà”. È giustamente questo passaggio attraverso uno strumento di mediazione – la penna, la scrittura, la tastiera, la carta – che ordina già una selezione dei “dati reali”. Il linguaggio è sempre più decisivo, il linguaggio che inserisce la vita in uno stile, in una musica, che fa sì che l’autore si distingua dall’uomo.
(In collaborazione con www.grecart.it)
Télécharge le texte en langue originale
This work is licensed under a Creative Commons Attribution-ShareAlike 3.0 Unported License
L'autore
- Giusi Alessandra Falco si occupa di letteratura francese dell’extrême contemporain all’interno del Groupe de Recherche sur l’extrême contemporain (GREC). È autrice di saggi su Vincent Ravalec, Tanguy Viel, Michel Houellebecq, Pierre Bergounioux e Annie Ernaux.