A distanza di un mese dalla morte di Vincenzo Cerami, Insula europea intende onorare la memoria del grande scrittore e sceneggiatore, riproponendo l’intervista da lui concessa a Fabio Dessi per Nuova Ecologia (Settembre 2011).
Schegge di memoria. Era questo il titolo del diario che Vincenzo Cerami scrisse per Nuova Ecologia in occasione del primo anniversario della tragedia dell’11 settembre. In quelle pagine lo scrittore raccontava la riscoperta della paura. La stessa, diceva allora, che la sua generazione provava negli anni più bui della guerra fredda. Nel decennale dell’attentato siamo tornati da lui per riannodare i fili della memoria, ragionare su un mondo che non c’è più e immaginare quello che verrà.
Oggi prova ancora paura?
In qualche modo si è cristallizzata nel momento stesso dell’attentato. La paura era già in tutti noi, già incombeva la sensazione della fine di un’epoca, ma volevamo illuderci che civiltà e benessere sarebbero continuate ad andare a braccetto in eterno. Così sono arrivati gli anni del terrore, e non c’era altro da fare che imparare a conviverci. La paura viene con la disperazione, quando non vedi nessuna via d’uscita. L’economia fino a quel momento sembrava un meccanismo perfetto capace di andare avanti da solo e risolvere tutti i problemi. Eravamo convinti di essere immortali. Ecco, quella convinzione è crollata con le Torri gemelle. Il paradosso è che questo indebolimento, anche economico, ha indebolito lo stesso nemico: il terrorismo islamico si nutriva della forza dell’Occidente, non della sua debolezza.
Che effetto le ha fatto sapere della morte di Osama Bin Laden?
Quello della chiusura di un capitolo. Sensazione resa ancora più forte dal fatto che la morte del ‘nemico pubblico numero uno’ sia avvenuta in coincidenza con la ‘primavera araba’. C’è però un fatto molto importante, che in questi dieci anni ha cambiato le carte in tavola.
Quale?
La gigantesca crisi economica e finanziaria che stiamo attraversando da parecchi anni. Una crisi che colpisce al cuore l’idea stessa di capitalismo. È vero che la colpa è stata della finanza ‘spiritosa’, che ci sono stati grandi errori e grandissime speculazioni. Ma quegli errori e quelle speculazioni fanno parte del gioco: non può esistere un capitalismo etico. C’è grande sfiducia nei confronti di un modello economico che ha portato avanti il mondo dal secondo dopoguerra fino a ieri. I grandi temi oggi sul tavolo sono due: l’urgenza di investire su un’economia consapevole della necessità di ripulire il mondo, e fare di questa consapevolezza una ragione economica, e il fatto che per la prima volta nella nostra storia non abbiamo un futuro assicurato. E questo significa vivere in maniera instabile, improvvisata, non poter investire. ‘Futuro’ era una parola che aveva senso una volta, ora dobbiamo convivere con questa incertezza in attesa di vedere come si risistemerà il mondo.
Non crede che il terrorismo, la violenza, la stessa immigrazione che così tanto spaventa l’opinione pubblica siano tutti fenomeni legati allo squilibrio che nonostante la crisi continua a dividerci dal resto del mondo?
La risposta è sì, e non potrebbe essere altrimenti. Credo però che sulla lettura di alcuni fenomeni ci siano ancora sopravvivenze del recente passato. L’immigrazione, per esempio, ha un segno diverso rispetto a qualche anno fa: prima somigliava molto di più alla nostra emigrazione all’estero. La miseria, che c’è ancora naturalmente, era il dato prevalente. In questo momento nel fenomeno migratorio noto invece un pizzico di edonismo: l’Occidente non è più soltanto un posto dove ci sarebbero i soldi – in realtà ce ne sono pochi per la maggior parte delle persone, fin troppi per qualcuno – ma anche un luogo accessibile, un’accessibilità anche culturale che prima non c’era. Grazie al web oggi un giovane tunisino può benissimo parlare con un suo coetaneo italiano: condividono un ‘linguaggio’ che li rende uguali, li omologa. Questo è un fenomeno nuovo, staremo a vedere dove ci porta.
L’elezione di Obama è stata salutata come il segno di una nuova era. In questi tre anni però le fila dei delusi continuano a ingrossarsi. Fa parte di questo schieramento?
A mio avviso sta facendo il massimo che si possa fare. Bisogna tenere presente che ci sono delle gigantesche sacche di interessi particolari negli Usa, che deve combattere contro veri e propri mammuth, contro una destra agguerritissima. Se alla Casa Bianca tornasse un Bush, che cosa accadrebbe? Sarebbe una tragedia: indietro non si può tornare, né si può continuare con la logica utilizzata fino alla grande crisi economica. Obama certamente deve patteggiare, essere pragmatico, scendere a compromessi. Ma la politica è anche questo. E secondo me Obama è un grandissimo politico, con una dote rara: il coraggio. Dal punto di vista energetico sta scommettendo su qualcosa che nessuno, neanche voi di Nuova Ecologia, può dare come certa. È una scelta giusta, ma non sicura. Perché poi, diciamo la verità, la scommessa vera è: riusciremo a mantenere la stessa qualità della vita? Quello che possiamo dire ora, mi ripeto, è che un modello di sviluppo economico legato al risanamento del pianeta è necessario. Ma non è detto che possa portarci al benessere di una volta. Chissà, magari domani saremo tutti più calmi e non dovendo inseguire in maniera nevrotica ricchezza e agi sapremo concentrarci su altri valori?
È stato uno sbaglio dare a Obama il Nobel per la pace?
I Nobel per la pace vanno sempre inquadrati nel loro contesto storico. Bisognerebbe analizzare che cosa stava accadendo in quel momento. Non darei comunque troppo peso a un’istituzione che resta fatta da uomini. Che Obama crei delusione lo capisco. Detto questo che vogliamo fare: sparargli addosso? Tutti noi dovremmo fargli sentire la nostra vicinanza. Per me è un miracolo che un tipo come lui sia a capo degli Stati Uniti. Abbiamo a che fare con un paese capace di cose straordinarie, ma che al tempo stesso non si è fatto scrupoli a disseminare dittatori in mezzo mondo.
A proposito di dittatori, perché la guerra in Libia non smuove la protesta di grandi masse? Saddam non era migliore di Gheddafi. Lei stesso però ha scritto: “Confesso di non sapere se sono favorevole o contrario alla guerra contro la Libia, e rivendico la mia incertezza”. Sbagliano i pacifisti del “no alla guerra senza sé e senza ma”?
Oggi posso dire che è una guerra sbagliata, persa in partenza. Bisognava andare da Gheddafi prima della guerra e trattare, contrattare la sua ‘buonuscita’. La guerra dovrebbe essere fatta a tavolino, non con le armi. È chiaro che Gheddafi in quanto tale non ha speranza, che prima o poi farà una brutta fine, ma questo non significa nulla, basti pensare all’Iraq del dopo Saddam. Vorrei però anche dire altro: tu pacifista, se vedi dei ragazzi che amano il mondo, la vita e la democrazia, pronti a combattere contro un regime sanguinario, che fai? Non ti viene voglia di dargli una mano? Basta dire: ‘Sono contro la guerra, mi metto alla finestra e vedo quello che succede’? È chiaro che la mano andava data in altro modo, ed è questa l’incertezza di cui parlavo. Ma come si fa a non schierarsi col più debole? Una democrazia non dovrebbe permetterselo. Se continuiamo a mostrarci cinici facciamo saltare il senso stesso della democrazia. Cercare la pace è un modo di fare la guerra, dovrebbe essere un antidoto. Mai una soluzione.
(l’intervista è stata pubblicata da Nuova Ecologia sul numero di settembre 2011)
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L'autore
- Fabio Dessì collabora con la rivista "La nuova ecologia"
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