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Fabio Dessì intervista Mauro Ceruti

Mauro Ceruti è professore ordinario di Filosofia della Scienza all’Università IULM di Milano. Ha svolto ricerca a Ginevra nel gruppo coordinato da Alberto Munari e a Parigi presso il Centre d’études transdisciplinaires – sociologie, anthropologie, politique del CNRS diretto da Edgar Morin. È stato membro del Comitato per la Bioetica della Presidenza del Consiglio nella scorsa legislatura.

L’ondata populista attraversa l’Europa, come dimostrano le recenti elezioni in Francia e Ungheria. La vittoria dei populismi potrebbe aprire politiche di matrice antieuropea?

In paesi anche importanti alcuni partiti definibili come populisti potrebbero raggiungere la maggioranza relativa, non quella assoluta. Potrebbero cioè raggiungere circa un un quarto dei voti complessivi, il problema però è come si comporteranno i partiti che rappresentano i restanti tre quarti dell’elettorato (la parte della popolazione che secondo i sondaggi ritiene l’euro irreversibile). Per questi è forte la tentazione di rincorrere i populismi per recuperare voti, ad esempio con politiche restrittive sul tema dell’immigrazione. Ma cedere a questa tentazione sarebbe suicida: significherebbe chiudersi entro miopi agende nazionaliste. Dobbiamo capire che stiamo vivendo una fase di rifondazione dell’Europa, importante quanto quella successiva alla seconda guerra mondiale. Dobbiamo capire che c’è bisogno di “più Europa” ma non di questa Europa. C’è bisogno di “più democrazia”, di un vero Parlamento europeo, di un vero governo.

Da noi però “Europa” è sempre più un termine generico, capace solo di evocare restrizioni economiche e burocrazia. Altro significato sembra invece avere in un paese come l’Ucraina, dove per una parte di popolazione è sinonimo di “liberazione”. Qual è per lei il senso più profondo di questa parola, cosa dovrebbe rappresentare?

L’Europa per l’Ucraina significa effettivamente liberazione, rinascita… liberazione dalla valle oscura dei totalitarismi e degli autoritarismi, rinascita dopo le guerre che sono arrivate a un passo dall’annientarla nel periodo 1914-1945. L’Unione Europea è inconcepibile senza l’imperativo etico “Mai più!”, urlato dalla generazione dei padri fondatori, che avevano ben presenti le tragiche memorie di Verdun e Auschwitz. Questa nostra Europa non può prescindere dalla conquista, dalla difesa e dalla valorizzazione dei diritti umani, della democrazia, della partecipazione degli individui e dei popoli alla vita associata. Oggi però ci vuole una consapevolezza in più: i diritti umani, la democrazia, la partecipazione non sono mai conquistati una volta per tutte, sono processi interminati e interminabili, da rigenerare e reinterpretare attraverso gli sviluppi degli scenari mondiali, delle conoscenze, delle tecnologie. La nostra Europa, dunque, non è solo profondamente radicata nei suoi atti fondatori: è anche in evoluzione, aperta verso il futuro. È un laboratorio per generare spazi di possibilità sempre più ampi per i suoi individui e per le sue collettività.

Già prima del 2008 l’Europa non era però riuscita a progredire nell’unificazione metanazionale né a integrare i paesi dell’ex blocco sovietico. Ora la crisi economica rischia di disgregare l’Europa stessa. Come scongiurare questo rischio?

L’Europa è in pericolo, rischia la paralisi e la disgregazione: le forze centrifughe si sono moltiplicate. E non c’è una politica estera comune. L’Unione oggi ha un serio deficit di democrazia, le sue istituzioni sono al traino dell’unificazione economica e non garantiscono l’equilibrio dei poteri e la sovranità popolare. Tende a trascurare gli obiettivi sociali, per privilegiare quelli puramente finanziari. Così il rischio è quello di una nuova virulenza delle due malattie dalle quali l’Europa sembrava essersi affrancata: la sacralizzazione delle frontiere e la purificazione etnica. La globalizzazione porta nello stesso tempo unificazione e disgregazione. Tutti gli esseri umani hanno ormai in comune gli stessi problemi vitali e le stesse minacce mortali. Tutti i grandi problemi oltrepassano le competenze degli Stati nazionali, tuttavia questi resistono, si moltiplicano, si miniaturizzano. Sono la piccolezza delle nazioni di fronte ai propri problemi e la piccolezza dell’Europa tutta di fronte alle grandi unità continentali a rendere necessario il compimento politico del superamento metanazionale. Le straordinarie conquiste di pace, democrazia e benessere dell’Europa degli ultimi decenni non sono irreversibili, per questo si impongono scelte decise nella prospettiva del paradigma originario dell’Unione. L’Ue deve accelerare il compimento della sua unificazione politica, rigenerarsi in una federazione di Stati nazionali: una forma istituzionale innovativa, capace di rigenerare l’unità nella diversità e la diversità nell’unità. Questa metamorfosi è oggi improbabile, ma necessaria se l’Europa non vuole scomparire.

Nel libro “La nostra Europa”, lei ed Edgar Morin abbracciate l’idea di un’Europa meno “tedesca”, se così possiamo dire: un’area che dovrebbe inglobare il Mediterraneo e i paesi dell’Est. Perché?

Perché sono tutti, e lo sono sempre stati, culturalmente europei. Perché hanno fatto parte della stessa comunità di destino anche nei momenti dei peggiori conflitti e delle peggiori tensioni, persino in un XX secolo così tragico le relazioni fra le varie parti d’Europa non sono mai svanite, anche se si sono a tratti congelate. In realtà, tutti i movimenti storici, culturali e politici della storia europea hanno avuto una circolazione a vasto raggio e hanno avuto sempre protagonisti di origini diverse, spesso a cavallo fra molti mondi, molte appartenenze etniche e identitarie: pensiamo all’Umanesimo, al Rinascimento, alla scienza e alla filosofia moderne, all’Illuminismo, alla letteratura, all’architettura, alla musica… Il tentativo degli ultimi decenni è stato quello di dare adeguata espressione politica a una realtà polifonica culturale che spesso è stata combattuta, ma mai infranta, da nazionalismi di ogni genere. L’Europa è policentrica, lo è sempre stata. Il meglio di ogni cultura nazionale si è sempre tessuto attraverso relazioni con altre culture. L’Europa del futuro sarà altrettanto policentrica e diversificata, o non sarà. Quanto al Mediterraneo, ci impone di capire che le frontiere dell’Europa sono altrettanto importanti di ciò che sta al suo interno. E il Mediterraneo è il luogo in cui l’Europa confina col mondo. Per questo, nell’età della globalizzazione, questo confine è nuovamente centro d’Europa…

Eppure sono i paesi del Sud ad essere sottoposti a continui test per verificarne il tasso di europeicità. Non crede che così si dimentichi non soltanto la storia ma anche le enormi potenzialità legate all’agricoltura, attività sulla quale l’Europa si è a lungo fondata?

Viviamo un paradosso: lo sviluppo della capacità produttiva dell’agricoltura si è accompagnato a un aumento della sottoalimentazione. Quasi un miliardo di individui sottoalimentati sono rurali, la quasi totalità dei quali vivono nei paesi cosiddetti sottosviluppati, in particolare nei vari Sud del mondo. Questo paradosso globale caratterizza l’Europa, dove l’agricoltura industrializzata degrada le terre e la qualità dei prodotti, porta alla scomparsa dei contadini. E questo modello di sviluppo originatosi in Europa e dilagato nel resto del mondo si rivela una nemesi per l’Europa stessa, che si trova a non produrre ciò che fa la sua unica differenza: la qualità. Perciò il Sud e il Mediterraneo oggi problematizzano l’Europa, rivelano il sottosviluppo contenuto nello sviluppo, indicano la necessità di una nuova via: quella di un’agricoltura non industriale capace di produrre alta qualità ambientale, con ridotto utilizzo di acqua e fertilizzanti; capace di preservare la biodiversità, sostenere mutamenti negli stili alimentari e rigenerare la vita rurale quale risorsa indispensabile per affrontare i gravi problemi posti dalla crescita demografica e dalla crescita dell’urbanizzazione.

Che ruolo può giocare la sfida ambientale nella costruzione dell’identità europea?

Molti ruoli, a tanti livelli. In primo luogo, non dobbiamo dimenticare che l’Europa è un continente povero di energie fossili e che continua a dipendere dall’esterno per il suo approvvigionamento energetico, con i gravi problemi geopolitici che ciò comporta. Proprio per questo la transizione all’era delle rinnovabili, che comunque sui tempi lunghi è un imperativo per tutto il mondo, in Europa è più urgente. Ciò impone investimenti in ricerca e innovazione che non possono che avere una ricaduta positiva in tanti settori economici e tecnologici anche apparentemente lontani: è tipico delle innovazioni tecnologiche trasformare radicalmente vincoli e possibilità di un’epoca. Ma, visto che abbiamo parlato della condizione rurale, vorrei fare un’altra annotazione sul problema delle relazioni fra città e ambiente: le città sono un luogo tradizionale della cultura e dell’identità europea, fra l’altro connotate nell’ultimo secolo da enormi sviluppi. Nelle città si sono sentiti per primi, in forme spesso drammatiche, i problemi del degrado ambientale e si è toccato con mano l’impatto negativo che può avere sulla qualità della vita e sui legami sociali. Ecco, forse oggi le città europee stanno affrontando il problema ambientale anche nelle sue implicazioni politiche, coinvolgendo i cittadini nell’elaborazione e nell’implementazione di progetti che riguardano il qui e ora, cioè la costruzione di ambienti vivibili, sostenibili. Le città sono un cardine dell’identità europea e possono diventare un laboratorio di nuove relazioni, coevolutive e non distruttive, fra società e ambiente. In Europa ciò sta accadendo anche grazie alla presenza di partiti e movimenti ambientalisti, che soprattutto nelle grandi città ottengono un significativo successo, spesso superiore alle rispettive medie nazionali.

Le forze ambientaliste organizzate in partiti possono quindi svolgere un ruolo importante in Europa? E sente la mancanza in Italia di un partito ecologista?

La crisi della politica in tutta Europa così come quella del progetto dell’Ue potranno trovare soluzione solo in una prospettiva ecologica, in un paradigma che fu peraltro alla base stessa del nucleo dell’Europa nata dalle ceneri della guerra: la Comunità del carbone e dell’acciaio. Il passaggio dai giochi a somma zero per contendersi le risorse a quelli a somma positiva per condividere le risorse ha garantito un’ecologia della politica europea, che ha generato per la prima volta settant’anni di pace. Oggi l’Europa è di nuovo in pericolo. Non possiamo sottovalutare il fatto che le forze ambientaliste si sono organizzate nell’unico partito veramente europeo, che in quanto tale si rivolge agli elettori considerandoli cittadini europei rispetto a problemi europei. In questo senso la presenza di un partito ecologista in Italia sarebbe un ulteriore tassello verso la costruzione di una cittadinanza europea, questione paradossalmente ignorata nelle elezioni del Parlamento europeo, che rischiano di essere solo occasioni per “rese dei conti” rispetto a questioni ed equilibri puramente nazionali.

(l’intervista è stata pubblicata da Nuova Ecologia sul numero di maggio 2014)

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L'autore

Fabio Dessì
Fabio Dessì collabora con la rivista "La nuova ecologia"