Franco Musarra è professore emerito di Letteratura Italiana nell’Università Cattolica di Lovanio.
Sono anni che vivi e insegni l’italiano in Belgio: ci puoi parlare della situazione della nostra lingua e cultura dal tuo arrivo ai nostri giorni nel tuo Ateneo e in genere nel paese?
Caro Carlo, la tua intervista arriva un po’ in ritardo che le risposte sarebbero state (forse) più pertinenti e brillanti formulate alcuni anni fa, quando non ero ancora emerito. Ho letto da qualche parte che si vive di memoria; quanto dirò forse potrà interessare, seppur un po’ ingiallito da quella patina che il tempo depone immancabilmente sulle cose, qualche curioso lettore. D’altra parte è un luogo comune dire che la storia insegna e che la conoscenza del passato è utile per i giorni a venire quindi comincerò da molti decenni fa. Il mio percorso è stato contorto, quasi mi muovessi in un labirinto. Ho studiato Lingua e Letteratura tedesca a Ca’ Foscari (Venezia) e mi sono laureato nel 1965 con una tesi su August Stramm (un poeta espressionista tedesco), relatore Ladislao Mittner che in quegli anni era coinvolto nella programmazione del Maggio musicale fiorentino, dedicato appunto all’Espressionismo, il che risulterà nel prezioso volumetto sul movimento avanguardista tedesco uscito dall’editore Laterza. Il primo incarico universitario l’ho avuto nell’anno accademico 1965-1966 nell’Università Cattolica di Nimega (Olanda), dove insegnavo prima lingua, poi linguistica italiana fino al 1980 quando vinsi la cattedra di Letteratura Italiana nell’Università Cattolica di Lovanio, dove sono rimasto fino alla pensione nell’anno accademico 2005-2006. Rispetto all’Olanda trovavo in Belgio una situazione più favorevole all’Italianistica. Nei Paesi Bassi l’italiano era materia principale (o secondaria) con pochissime possibilità di lavoro una volta terminati gli studi e questo aveva le sue ripercussioni sul tipo di studenti che frequentavano le lezioni, mentre in Belgio era inserita nella Romanistica. L’italiano era ed è insegnato oltre che a Leuven e Louvain, ossia nell’Università Cattolica fiamminga (KUL) e in quella francofona (UCL), in tutte le altre università (Gent, Antwerpen, Liegi e Bruxelles – nella capitale quella fiamminga, VUB, e quella francofona, ULV- ) e negli Istituti Superiori per Interpreti e Traduttori, che recentemente sono stati associati alle università. Il piano di studi era più o meno simile. Obbligatorio per tutti gli iscritti a romanistica era il francese e come seconda lingua dovevano scegliere sin dal primo anno tra l’italiano e lo spagnolo (in alcuni atenei erano obbligatorie le due lingue, ovviamente a danno dello spazio concesso per ognuna). La percentuale degli studenti era generalmente di un terzo per la nostra lingua e due terzi per lo spagnolo. La collaborazione tra le tre lingue era ottima, anche se le due lingue minori cercavano di avere sempre un po’ più di ore a disposizione. Sia la Linguistica sia la Letteratura avevano a Leuven (KUL) un ordinario con alcuni assistenti. Lo studio era suddiviso nella candidatura (primi due anni) con esami annuali in varie discipline a giugno/luglio ed eventualmente di riparazione a settembre. Per passare al secondo anno bisognava aver superato tutti gli esami, con la possibilità di compensare una o due insufficienze con gli altri voti (cosa che non ho mai capito! Mi domandavo: come può un’insufficienza in Letteratura italiana esser compensata da un voto alto in un’altra disciplina, in filosofia per esempio? (Per di più per alcune materie del francese la sufficienza era obbligatoria). La selezione era molto forte e solo il 40/50 per cento degli iscritti superava il primo anno; poi la media saliva sensibilmente sino ad essere quasi del cento per cento negli ultimi due. Dopo la cosiddetta candidatura nel secondo anno si passava alla fase di dottorato sempre biennale e si sceglieva il relatore che doveva seguire lo studente nella tesi di laurea. Nel mio ufficio in facoltà ho ancora tutte le tesi degli studenti che ho seguito e sono più di 500. Gli argomenti erano discussi a lungo e spaziavano da Dante ai contemporanei. Per i contemporanei spesso riuscivo a mettere gli studenti in contatto con gli autori sui quali scrivevano la tesi, il che li entusiasmava (Si può vedere il volume Poesia nonostante tutto. Conversazioni con Rodolfo Di Biasio, Mario Luzi, Leonardo Mancino, Umberto Piersanti, Roberto Sanesi e Maria Luisa Spaziani, a cura di F. Musarra e B. van den Bossche, Leuven/Firenze, Leuven University Press/ Franco Cesati Editore, 1999). Tra i poeti c’erano Mario Luzi, Eduardo Sanguineti, Leonardo Mancino, Roberto Sanesi, Maria Luisa Spaziani ecc., tra i romanzieri Eco, Magris, Tomizza, Bigiaretti, Bonaviri, Giuliana Morandini, Sciascia. Molte erano ovviamente le tesi anche su altri autori (Manzoni, Pirandello, Pascoli, Svevo, Soffici, Tomasi di Lampedusa, Vittorini, Pavese, Betti, Dacia Maraini ecc.). Alcuni poi hanno avuto la costanza di portare avanti la ricerca con un dottorato (9 in totale) che ha aperto loro la carriera universitaria. Il mio successore a Lovanio, Bart van den Bossche, aveva lavorato su Pavese, mentre Filip Bossier (ordinario a Groninga) aveva scelto la commedia dell’arte nel Cinquecento. Gli altri hanno avuto il posto negli Istituti Superiori per Interpreti e Traduttori, che oggi sono accorpati alle università quindi con la possibilità di avere tempo a disposizione per la ricerca scientifica. Natalie Dupré aveva fatto il dottorato su Magris, Heidi Salaers su Bonaviri, Rosario Gennaro su Ungaretti, Koen Du Pont su Soffici, Isabelle Melis su Montale, e così via. Numerosi erano nella facoltà i colleghi che conoscevano discretamente l’italiano (e mi appoggiavano nei consigli di facoltà); oltre a romanisti, anche musicologi, storici, archeologi, latinisti, alcuni di fama internazionale come Jozef Ijsewijn, specialista dell’Umanesimo. La fiducia dei colleghi è stata sempre completa, come ho potuto constatare quando mi hanno eletto direttore del Dipartimento di Letteratura per due volte consecutive (otto anni). La Facoltà era divisa in vari dipartimenti; oltre a quello di Letteratura vi era quello di Linguistica, quello di Storia, quello di Lingue e Letterature Classiche, quello delle Arti (Storia dell’Arte, archeologia, musicologia) e quello di Lingue orientali. I direttori formavano con il preside il Comitato direttivo della Facoltà. Oggi nella suddivisione si è privilegiata la ricerca scientifica accorpando alcuni dipartimenti. I classici sono passati o a Letteratura, a Linguistica o a Storia, secondo l’accento posto nelle loro ricerche. Ho usato per l’insegnamento i tempi del passato perché la situazione è cambiata; la combinazione per i nostri allievi è sempre tra due lingue, ma esclusivamente con il francese. Non esiste più la Romanistica. Si può combinare l’italiano con varie altre lingue. Gli studenti d’italiano hannoramificazioni diverse, dal latinista all’anglista, il che permette al docente nella ricerca e nelle lezioni di fare riferimenti e confronti stimolanti con altre culture, sebbene non sia facile far si che tutti seguano con profitto. Una volta chi si laureava in Romanistica, fatti alcuni esami di didattica, poteva insegnare francese nelle scuole medie e nei licei (non si dimentichi che il francese, il neerlandese e il tedesco sono le tre lingue nazionali), ora, invece, organizzare l’esame di didattica è un po’ più complesso ma forse è solo una mia impressione. Un’ultima cosa mi preme ricordare. Su iniziativa del collega dell’Università di Catania, Paolo Mario Sipala, si è organizzato insieme all’Università di Paris Nanterre (Paul Larivaille e Gérard Genot) un Pre-Erasmo con scambio di professori e di studenti. Quando poi il rettore di Lovanio, Roger Diellemans, fece venire nella nostra università i rettori delle più prestigiose università europee per far pressione sui Primi ministri in riunione a Bruxelles per discutere tra l’altro dell’eventuale istituzione di un progetto di scambio e collaborazione (il Socrates che poi diventerà l’Erasmus), mi chiamò a far parte del comitato organizzatore. E sono convinto che l’Erasmus sia stata una delle cose più significative che i politici abbiano realizzato in questi ultimi decenni per favorire l’integrazione e la comprensione tra i cittadini delle varie nazioni europee. Ed ora dovrei parlare delle due associazioni internazionali di italianistica delle quali ho fatto parte, l’AISLLI e l’AIPI, ma forse sarei noioso.
Il Belgio richiama alla memoria la forte emigrazione italiana del secondo dopoguerra e la tragedia di Marcinelle. Come sono cambiate le condizioni degli italiani e qual è il loro rapporto con la cultura del paese d’origine?
Gli italiani in Belgio sono oggi quasi 300.000, ai quali si debbono aggiungere quelli della seconda e della terza generazione. Le relazioni con i belgi sono sempre state ottime. Non si dimentichi i legami con la famiglia reale prima e dopo la seconda guerra mondiale (Paola di Liegi è stata regina fino a quest’anno, quando suo marito Albert ha abdicato per il figlio Filip). Gli italiani si sono ambientati sia nella zona francofona che fiamminga. Il primo ministro ora è Elio Di Rupo che non nasconde le sue origini italiane e in una trasmissione televisiva dopo la sua nomina faceva vedere con orgoglio la valigia di cartone con la quale il padre era emigrato in Belgio per lavorare nelle miniere. Italiani sono presenti in tutti i livelli della scala sociale. Non solo rappresentanti dello spettacolo e dello sport (si pensi ai cantanti Salvatore Adamo e Rocco Granata, autore di Marina, e ai calciatori Scifo, Bruno, Proto ecc.), sono famosi, ma anche scrittori e intellettuali, che non sto qui a elencare nel timore di dimenticarne qualcuno. Certo fa piacere incontrare recentemente, durante una passeggiata nel bosco, una famiglia con bambini che parlano tra di loro italiano e dopo le presentazioni far conoscenza con un fisico nucleare che dopo alcuni anni trascorsi negli Stati Uniti lavora presso un Centro di Ricerca non universitario di Lovanio e venire a sapere che non è il solo. A Bruxelles non sarebbe strano, ma in una piccola città come Lovanio lo è.
Te lo chiedo soprattutto in relazione agli italiani di seconda generazione. Sentono il bisogno di riscoprire le origini e la cultura paterna o l’avvertono come qualcosa di estraneo, che evoca anche un periodo di duro lavoro e miseria?
Gli italiani della seconda e della terza generazione, pur avendo la nazionalità belga, hanno in generale mantenuto forti legami affettivi e culturali con l’Italia. Si sono formati nelle scuole belghe ed hanno ovviamente una padronanza perfetta del francese e/o del fiammingo. Molti parlano bene anche l’italiano. Non vi è un rifiuto della cultura dei genitori. Al contrario. Vi sono nelle varie città molte associazioni delle regioni italiane con sedi in cui si riuniscono (immancabilmente quando giocano al calcio squadre italiane o la nazionale). Ho avuto molti studenti con genitori italiani, anche se molti sceglievano lo spagnolo convinti di conoscere sufficientemente l’italiano. Più numerosi erano i figli di coppie miste, che avevano per l’Italia un interesse e un amore notevole. Alcuni si proponevano di sistemarsi, finiti gli studi, nella nostra nazione, altri vi andavano regolarmente a visitare parenti e amici. Nonostante i tanti problemi politici e sociali che affliggono l’Italia, vi è un interesse sincero e una simpatia molto intensa, profonda in larga parte della popolazione. Lo si può capire anche dal fatto che molti italiani (io compreso) hanno deciso di rimanere ad abitare in Belgio anche dopo la pensione, ritornando comunque regolarmente e per lunghi periodi in Italia.
Vi sono rapporti di collaborazione tra la tua cattedra e l’Istituto Italiano di Cultura?
I miei rapporti con gli Istituti Italiani di Cultura sono stati sempre ottimi, sia in Olanda sia in Belgio. Mi piace ricordare alcuni direttori come Nati, Miele, Traversa, Sintich, Kizeridis, Gardella, Orlandoni, Xausa, Manca, Pialuisa Bianco. Nel corso degli anni ho potuto organizzare molti convegni internazionali grazie anche al loro aiuto scientifico e finanziario. E va detto che altrettanto importante (specie per il prestigio dell’Italianistica all’interno dell’università) mi è stato l’appoggio degli ambasciatori, da Giovanni Saragat, a Emanuele Scammacca Del Murgo e dell’Agnone, a Francesco Corrias, a Umberto Vattani, a Gaetano Cortese, a Massimo Macchia, a Sandro Siggia, sino all’attuale Alfredo Bastianelli, spesso in visita ufficiale dal Rettore (non solo in occasione di visite di personalità e politici italiani come il presidente Cossiga) e disponibili a venire delle volte persino alle riunioni di preparazione dei convegni e ad appoggiarmi nella ricerca di Fondi al Ministero degli Esteri e presso enti privati. E non posso non ricordare a proposito il direttore della Banca San Paolo di Torino, Gian Michele Giordano, il quale finanziò i primi convegni organizzati a Lovanio su Pirandello (1985) e su Leopardi (1986). Da quando sono in pensione i contatti sono naturalmente diminuiti; non sono, ad esempio, riuscito ancora (e me ne dispiace sinceramente) a incontrare la nuova direttrice Federiga Bindi. In questi giorni ho ricevuto poi una mail in cui si parla di una possibile chiusura dell’Istituto Italiano di Cultura a Bruxelles, il che sarebbe di grave danno per l’italianistica nelle varie università e non solo. Capisco che si possono avere critiche sul funzionamento di alcuni istituti di cultura in rapporto ai costi, ma invece di migliorarlo lo si elimina mentre la Germania, l’Inghilterra e la Spagna sono presenti e attivissimi.
So che sei stato molto attivo nell’invitare autori e protagonisti della cultura italiana nel tuo Ateneo. Potresti fornirci qualche dettaglio?
Mi ero fatto le ossa in Olanda, dove il professore di Letteratura Italiana, Carlo Ballerini (che era stato da giovane segretario di Giovanni Papini), aveva organizzato diversi convegni (su Boccaccio, Manzoni, Tasso, Letteratura italiana e ispirazione cristiana ecc.) pubblicando regolarmente gli atti. Invitava relatori famosi come, tra gli altri, Calvino, Rea, Branca, Luzi, Petrocchi, Romagnoli, Bigongiari, Pomilio. A Lovanio dopo i convegni su Pirandello e su Leopardi ne ho organizzati sul Gattopardo, sul Rinnovamento del codice narrativo in Italia dal 1945 al 1992, su L’italiano oltre frontiera, su Leopardi in Europa (con le relazioni di Mario Luzi e Yves Bonnefoy nella giornata di apertura nella sede della Comunità Europea a Bruxelles, con la collaborazione del Centro di Studi leopardiani di Recanati e del suo direttore Franco Foschi), su Eco in fabula (una settimana a Lovanio con la presenza di Umberto Eco e specialisti di filosofia, semiotica e letteratura come Carlo Ossola, Isabella Pezzini, Riccardo Scrivano, Jan Baetens, Jean Patitot, Jean-Marie Klinkenberg, Jacques Fontanille, Paolo Fabbri, Roberto Crotoneo, Stefania Stefanelli, Reinhard Brandt, Herman Parret ecc.), su Quasimodo, sulla Poesia italiana del novecento e sul Contributo del pensiero italiano alla cultura europea nel quadro di Europalia nel 2003 a Bruxelles. E il male era penetrato sino all’osso potrei dire con Ariosto, se ne ho organizzati anche con colleghi italiani e stranieri, a Lucca, a Macerata, a Recanati, a Glasgow e così via, pubblicando sempre gli atti con Bulzoni prima e con Franco Cesati poi, spesso in coedizione con la Leuvern University Press. Ai convegni, programmati e realizzati con la collaborazione preziosa del collega di linguistica Serge Vanvolsem, si cercava di far partecipare oltre ai critici anche gli scrittori. Questi ultimi hanno lasciato testimonianze preziose. Accanto a specialisti di Letteratura come, tra gli altri, Marziano Guglielminetti, Achille Tartaro, Giorgio Bàrberi Squarotti, Giorgio Luti, Pietro Frassica, Gian Paolo Biasin, Alfredo Luzi, Alvaro Valentini, Natale Tedesco, Stefano Agosti, Riccardo Scrivano, Romano Luperini, Renato Barilli, John C. Barnes, Joseph Eynaud, Michael Caesar, Nino Borsellino, Emrico Giachert, Georges Güntert, Wladimir Krysinski, Catia Migliori, Paola Montefoschi, Paolo Mario Sipala, Giuseppe Farinelli, Giorgio Baroni, Giulio Ferroni, Dina Aristodemo, Pieter De Meijer, Pippo Savoca, Lia Fava Guzzetta, Giuseppe Antonio Camerino, Antonio Di Grado, Domenica Perrone, Corrado Donati, Jean-Jacques Marchand, Maria de las Nieves Muñiz Muñiz, François Livi, Christian Bec, Giorgio Padoan, Antonio Stäuble, Gérard Genot, Anna Dolfi, Elio Gioanola, Stefano Agosti, Omar Calabrese, Paolo Fabbri, Ermanno Paccagnini, Ernesto Livorni, Rinaldo Rinaldi, Costantino Maeder (cito a memoria tralasciandone molti, ma è solo per dare unidea che accanto a studiosi già affermati numerosi erano i giovani, alcuni dei quali hanno raggiunto e superato la fama dei loro maestri), vi erano i linguisti come Tullio De Mauro, Nicoletta Maraschio, Luca Serianni, Vincenzo Lo Cascio, Pietro Trifone, Hermann W. Haller, Raffaele Simone, Edgar Radtke, Maurizio Dardano, Giuseppe Brinkat, Roman Sosnowski e così via. Tra i poeti e gli scrittori mi limito a ricordare quelli con i quali ho avuto rapporti di sincera amicizia: Edoardo Sanguineti, Luciano Erba, Cesare Ruffato, Giovanni Orelli, Giorgio Zeri, Giorgio Caproni, Umberto Eco, Antonio Tabucchi, Caludio Magris, Vincenzo Consolo, Paolo Volponi, Daniele Del Giudice, Alain Elkan, Donatella Bissutti, Giuseppe Bonaviri, Roberto Pazzi, Maria Luisa Spaziani, Giuliana Morandini, Melo Freni, Carmine Abate e i giovanissimi (allora!) Salvatore Ritrovato, Massimo Fabrizi, Luca dell’Omo, Marica Larocchi, Pietro De Marchi, Paolo De Martin. Ricordo con piacere due momenti particolarmente importanti per la mia posizione d’italianista a Lovanio: la laurea h.c. della mia Università a Umberto Eco (di cui ero relatore) e a Roberto Benigni (da me richiesta), il primo all’inizio del mio operare in Belgio il secondo alla chiusura del sipario, quando fece, durante le cerimonie per il mio emeritato, una lettura magistrale del quinto canto dell’Inferno alla presenza di più di 3000 persone (studenti, colleghi di ogni disciplina e cittadini di ogni parte del Belgio e, considerate le richieste, avrei potuto riempire invece dell’Aula Magna dell’Università, uno stadio). Sono iniziative che danno prestigio all’italianistica sia all’interno del mondo universitario sia nel contesto sociale. Sono ricordi che raddolciscono questi grigi giorni di novembre, nei quali la cosa che mi manca di più è l’insegnamento, il contatto quasi quotidiano con gli studenti, con i loro cieli alti, con il loro libero slancio.
Quali sono, a tuo avviso, le motivazioni che spingono oggi uno studente belga a studiare l’italiano?
In primo luogo è l’interesse per la cultura italiana, e solo in parte per il turismo, a spingere molti studenti a scegliere la Linguistica e Letteratura Italiana. Le varie inchieste mostrano comunque che le motivazioni sono diverse e a volte strettamente personali, ad esempio l’interesse dei genitori per qualcosa che riguarda l’Italia e l’amore (ma questa è una storia antica!!!). Solo all’inizio degli anni novanta l’interesse era anche economico sull’onda lunga del tentativo di Carlo De Benedetti di ottenere la maggioranza delle azioni della Banca Nazionale Belga ma purtroppo non è durato molto. Credo comunque che importante sia soprattutto il modo in cui il professore li incontra, la sua disponibilità, la sua apertura, la sua capacità di capire i loro problemi per cercare di aiutarli. Insegnare all’estero una disciplina come la Lingua e la Letteratura italiana è in un certo senso una missione, ma (senza cadere nel patetico) forse ciò dovrebbe valere non solo per l’estero o per l’insegnamento, ma per ogni caso in cui un uomo incontra un altro uomo. Sono questi valori che ho cercato per quasi 42 anni di trasmettere ai miei allievi e credo di esserci in parte riuscito se considero la loro numerosa presenza alla mia lezione per il mio emeritato nel febbraio del 2007. Rivederne alcuni con i capelli bianchi (come i miei) e già nonni, venuti dall’Olanda è stato il più bel regalo che ho avuto.
Quali sono gli autori italiani più letti o più richiesti nel tuo corso?
Dante era obbligatorio per tutti gli studenti di romanistica, poi dipendeva dalla scelta nei vari anni. Oltre ad alcuni corsi monografici su Petrarca, Boccaccio, Leopardi, Manzoni, Verga, De Roberto, Fogazzaro, la Poetica del Cinquecento, ho dato spazio soprattutto alla poesia del Novecento (Gozzano, Saba, Ungaretti, Montale, Quasimodo, Luzi, Sereni, Gatto, Caproni, Zanzotto, Rodari ecc.), al teatro (Pirandello, Betti, Fabbri, Fo ecc.), alla narrativa (Pirandello, Italo Svevo, Aldo Palazzeschi, Vasco Pratolini, Natalia Ginzburg, Ignazio Silone, Cesare Pavese, Alberto Moravia, Elio Vittorini, Carlo Levi, Primo Levi, Carlo Emilio Gadda, Dino Buzzati, Giorgio Bassani, Elsa Morante, Vitaliano Brancati, Leonardo Sciascia, Goffredo Parise, Bonaviri, Alessandro Baricco ecc.) inserendo anche autori giovanissimi. Negli ultimi decenni comunque l’Ironia ha avuto un posto di primo piano.
Quanto e chi arriva invece tra gli autori contemporanei, anche in traduzione?
Due scrittori emergono per la loro presenza capillare in entrambe le lingue: Umberto Eco e Claudio Magris. All’uscita del Cimitero di Praga la televisione fiamminga (BRT) ha organizzato un’intervista, nella quale mi ha coinvolto, che è stata trasmessa poi nel programma più seguito alle 20 di sera. Negli ultimi decenni del secolo scorso moltissimi autori italiani venivano tradotti nelle due lingue. Oggi un po’ meno; larga diffusione hanno poi autori come Celati, Fois, Di Carlo, Niffoi, Camilleri e pochi altri.
In quale delle lingue nazionali del paese risultano più tradotti gli autori italiani?
Difficile dare una risposta dato che la parte francofona ha alle spalle la Francia e i fiamminghi l’Olanda. Per la parte in cui si parla tedesco il numero degli abitanti (30.000) non permette di avere un mercato sufficiente e si fa ricorso alla Germania.
Suggeriresti qualche nome di autore contemporaneo che ti augureresti venisse tradotto in Belgio?
Preferisco non menzionarne nessuno. Ho vari amici scrittori e dovrei menzionarli tutti per non rattristare qualcuno (e soprattutto me) se la lista risultasse incompleta e il solo pensarci dà un po’ di vertigine.
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L'autore
- Carlo Pulsoni è il coordinatore di Insula europea (http://www.insulaeuropea.eu/carlo-pulsoni/).
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