L'arte del tradurre

Attilio Castellucci intervista Francesca Di Meglio

Francesca Di Meglio si è laureata in Lingue e Letterature Orientali presso l’Istituto Universitario Orientale di Napoli. Ha conseguito un master in Letteratura giapponese presso l’Università di Kyoto, dove ha vissuto per tre anni, poi ha seguito il marito in Paraguay. Qui ha lavorato come insegnante, interprete e traduttrice. Introdotta alle peculiarità della cultura e della letteratura locali dai racconti di Josefina Plá, ha deciso di proporne la traduzione in italiano (Josefina Plá, Racconti, Le Lettere, Firenze, 2013. Traduzione di F. Di Meglio). Attualmente è dottoranda in Lingue, Letterature e Culture Comparate presso l’Università di Firenze e si dedica allo studio e alla divulgazione della letteratura del Paraguay.

Come hai conosciuto Plá? Come ti sei avvicinata all’autrice e cosa ti ha affascinato della sua poetica?

Durante una vacanza ad Asunción acquistai un suo libro. La mia prima reazione istintiva fu di riconoscermi in qualche modo in quella giovane donna europea che aveva seguito il marito in un paese sconosciuto, imparando ad amarne le peculiarità. A colpirmi sono state soprattutto la sua delicata sensibilità europea, che si esprime in modo particolare nella capacità di cogliere la poesia di certi paesaggi, di gesti, di volti paraguaiani, e insieme l’assoluta mancanza di presunzione eurocentrica.

Perché hai scelto di selezionare racconti contenuti in diverse opere, invece di tradurre uno dei volumi così come concepito dall’autrice?

Il libro offre la traduzione integrale dei due volumi La mano en la tierra e La pierna de Severina; per ragioni legate alla lunghezza è stata fatta una non facile selezione dei racconti di El espejo y el canasto. In più ho ritenuto d’inserire tre racconti di un’altra raccolta, Anécdotas del folklore naciente, per l’affinità tematica che li accomuna ad altri delle precedenti raccolte, come l’itacuruzú – l’antico rito della “pietra per la croce” – che compare sia in Curuzú la Novia che in A Caacupé; o la credenza nel tesoro sepolto che viene ripresa sia in Las avispas che in Mala idea, mentre Ñandurié è rimasto orfano di Maní tostado, di cui è protagonista la stessa famiglia, per evitare di sforare il numero di pagine previste. Tuttavia Josefina Plá scriveva di getto e spesso ritornava sui racconti, senza un preciso progetto editoriale. Scriveva per se stessa, quasi la scrittura fosse una pratica terapeutica, lenitiva delle angosce esistenziali. Molti dei suoi racconti furono pubblicati grazie all’interessamento di amici ed estimatori. Lei non se ne dette mai pensiero, così molti sono andati perduti o sono rimasti inediti, senza che la cosa la preoccupasse.

La classica domanda: rispetto a una traduzione dal castigliano standard, come cambia l’approccio alla traduzione di un testo sudamericano, uno spagnolo già di per sé diverso da quello con cui si è abituati a lavorare, per di più, in questo caso, ricco di costrutti, strutture sintattiche e lemmi del guaraní? Le difficoltà riguardano solo la resa in italiano o anche il confronto fra le due varianti sincroniche del castigliano?

La prosa della Plá, sempre rigorosamente in castigliano colto, è una continua apertura a tutto ciò che di indigeno caratterizza la vita quotidiana e la cultura popolare del Paraguay, in particolare ai termini in lingua indigena, che non vengono mai tradotti per renderli comprensibili al lettore. L’io e l’altro si trovano in equilibrio ma non si fondono mai: da una parte l’io narrante continua ad esprimersi nella propria lingua nativa, dall’altra, i personaggi sono caratterizzati dal ricorso ad una lingua meticcia ricca di americanismi e indigenismi. La contaminazione, l’accostamento del castigliano al jopara è senz’altro la principale peculiarità di cui il traduttore deve tener conto, soprattutto perché questa sorta di “interlingua” rispecchia l’identità culturale del popolo paraguaiano molto più del castigliano o del guaraní puri. Essendo io sposata con un paraguaiano ed avendo vissuto per lunghi periodi in Paraguay, lo spagnolo dei racconti di Josefina Plá, con la forte presenza del guaraní, è quello che più mi è familiare. Non è stato sempre facile rendere in italiano un idioma, la cosiddetta “terza lingua” del Paraguay, di uso esclusivamente orale e all’occhio del purista fondamentalmente sgrammaticato, ricco di peculiarità morfosintattiche e d’intonazioni fortemente espressive. Ha richiesto molta attenzione anche discernere se l’autrice, in certi casi, avesse usato un particolare vocabolo nell’accezione paraguaiana o nel significato castigliano, spesso discordanti e semanticamente distanti.

Interessante la tua scelta di mantenere per le parole guaraní una grafia conservativa, così come compare negli originali della Plá, invece di normalizzare così come stabilito dalle norme attualmente vigenti. Ce la vorresti illustrare?

Pur non essendo più in uso, la grafia originale della Plá, soprattutto grazie all’accento grafico sulle parole ossitone, permette a chi non conosce le regole ortografiche guaraní di leggere le parole con la corretta accentazione e di distinguere, ad esempio, i pronomi personali dai determinanti possessivi. D’altra parte, tuttora la normalizzazione ortografica del guaraní non si può dire pienamente consolidata, basti pensare che “democrazia” si può scrivere democracia e demokrácia, e molti sono ancora i sostenitori dell’ortografia “popolare”, quella che compare nei racconti della Plá. Non so dire se l’autrice avesse preferito per una scelta personale conservare tale sistema ortografico, anziché accogliere le norme approvate a Montevideo nel 1950. Mi pare tuttavia interessante sottolineare l’evoluzione continua del sistema ortografico, che ci riconduce al carattere fortemente orale della lingua indigena.

Permettimi ora una critica: fai un uso a mio parere eccessivo delle note a piè di pagina. Avendo il tuo testo una nota linguistica, un’appendice e un’introduzione, non sarebbe stato forse meglio affidare a tali apparati i commenti che metti in nota, senza interrompere il flusso di lettura?

Riconosco che forse le note sono eccessive, ma vi ho fatto ricorso quando mi sembravano necessarie per spiegare in maniera dettagliata i costumi, l’architettura, l’abbigliamento, la storia di un paese, di una cultura e di usanze che ai più sono totalmente ignoti. Per esempio, la nota sulla cittadina Caacupé permette di comprendere anche l’offerta del manto ricamato da Severina in un altro racconto. D’altronde, come afferma Pennac, il lettore può avvalersi del diritto di saltarle, soprattutto se è già a conoscenza del contesto storico, sociale e antropologico del Paraguay.

Oltre a cercare di ricalcare la sintassi dell’originale, in uno straniamento che conduce il lettore italiano in ambienti esotici, lasci spesso termini della cultura guaraní in originale nel testo, alcuni in corsivo e altri no, a volte tradotti o illustrati in nota, altre volte lasciati semplicemente lì. Cosa c’è alla base di tali scelte?

I termini guaraní sono, o almeno dovrebbero essere, tutti in corsivo. La prima volta che compaiono si rimanda al glossario; per le successive occorrenze si presume che il lettore abbia già acquisito una certa dimestichezza col glossario e sappia dove cercare il lemma guaraní, nel caso non ne abbia ancora memorizzato il significato. Per i calchi linguistici, pure in corsivo, è sempre riportato il paragrafo delle annotazioni linguistiche cui far riferimento. Ho inserito, come ulteriore sussidio per il lettore, alcune note a piè di pagina in presenza di intere frasi o di unità sintattiche, per lo più di due elementi lessicali, il cui significato, nel glossario, si trova in corrispondenza solo del primo lemma, come nel caso di retymá caré “gambe storte”. Quando la traduzione è stata incorporata nel testo, ho invece ritenuto superfluo il rinvio al glossario.

Rimanendo sullo straniamento e sull’esotismo, ho notato che a volte lasci in lingua termini che forse avrebbero potuto trovare una qualche traduzione.

Ho scelto di non tradurli perché era mia intenzione “estraniare” il lettore dal noto, comunicargli la forte e peculiare identità di un paese praticamente sconosciuto. Tradurre rancho con “casupola” o “catapecchia”, per esempio, avrebbe significato privare il termine della sua particolare caratterizzazione, di un contenuto semantico più ampio, legato alla tradizione architettonica locale, al senso di comunità, all’ambiente, ai materiali adoperati nella costruzione. A me, invece, premeva mettere in luce tutto ciò che contraddistingue il Paraguay, che è manifestazione unica e originale di una cultura meticcia ancora prospera, per quanto ignota ai lettori occidentali.

Te la sentiresti di approfondire la discussione riguardo al profilo stilistico sia del testo di partenza, sia della tua traduzione? Non tanto relativamente al lessico, a proposito del quale sei stata sufficientemente esaustiva, quanto alle caratteristiche strutturali e al registro?

I racconti, scritti a distanza di vari anni gli uni dagli altri, presentano caratteristiche strutturali abbastanza omogenee dal punto di vista dell’intreccio, che generalmente introduce i protagonisti dei racconti in maniera immediata, catapultando subito il lettore all’interno della storia, rendendolo di colpo spettatore di un evento o proiettandolo dentro una casa, un autobus, un dialogo, un flusso di pensieri. Tendenzialmente, la narrazione segue un ordine di progressione cronologica, nel quale le sequenze descrittive in castigliano colto, la lingua della scrittura, si alternano alla riproduzione dell’oralità mediante un discorso diretto prevalentemente in jopara. Sia a livello diegetico che mimetico, è frequente il ricorso alla paratassi: l’autrice si esprime attraverso una prosa castigliana priva di fronzoli, essenziale ma esaustiva, spesso allusiva e polisemica; ma è anche abile nel riprodurre la parlata meticcia altrettanto concisa ed evocativa. L’avvicendamento tra castigliano, di registro sempre alto, e jopara, socioletto sempre informale delle classi popolari, coincide generalmente con l’alternanza tra diegesi e mimesi, tra il narratore e i suoi personaggi. Ma il castigliano rappresenta anche la razionalità, il flusso lineare del pensiero, mentre il ricorso al jopara o ad inserti in lingua indigena esprime l’emotività o un fluire irrazionale dei pensieri. In generale, per evitare di cancellare la polifonia e restituire un metatesto scialbo e monocorde, ho optato prevalentemente per l’alternanza tra linguaggio letterario e forme colloquiali o dialettali quali veicoli dell’oralità indigena; d’altro canto, scegliendo quello che mi sembrava il giusto mezzo tra esigenze diverse, ho preferito limitare le risorse dialettali rispetto ai testi originali per non scivolare nel macchiettismo dialettale visibilmente posticcio, in nome di una trasposizione in italiano che fosse il più naturale possibile.

Oltre a non tradurre molti termini, a volte rimani anche sintatticamente fedele al testo di partenza. Alla luce di queste tue scelte, ritieni che i racconti della Plá siano realmente traducibili?

Il problema della traducibilità compare prevalentemente in presenza del jopara, ovvero della lingua comunemente parlata in Paraguay, che attinge tanto al guaraní quanto allo spagnolo, conservando la struttura sintattica dell’idioma indigeno e dando spesso origine a calchi difficilmente traducibili. Quasi sempre ho scelto di segnalare la presenza dei calchi attraverso una nota che rimanda alle annotazioni linguistiche, dove sono riportate tutte le occorrenze presenti nei racconti, sia quelle che ho tradotto letteralmente sia quelle che ho ignorato per una maggiore scorrevolezza del testo. Le espressioni e frasi in lingua mista, apparentemente in uno spagnolo parlato male, rappresentano un tratto caratteristico della compenetrazione tra castigliano e guaraní. In questi casi, ho scelto spesso di ricorrere ad espressioni dialettali che replicassero il forte dominio dell’oralità nella società locale, a scapito della traduzione letterale, che avrebbe implicato, ad esempio, rinunciare alla concordanza di genere e numero, rendendo poco fluida la lettura. Ad ogni modo, ho preferito mantenere sempre in lingua originale i termini in guaraní adoperati dall’autrice, soprattutto le interiezioni o le particelle interrogative, poiché trasmettono una forte carica emotiva e rappresentano un elemento fortemente caratterizzante della collettività meticcia, cosa di cui Josefina Plá era evidentemente consapevole. E questa voce locale può affiorare dal testo solo evitando di cancellarla sovrapponendole categorie interpretative a noi familiari, esaltandone la differenza ed evitando una riscrittura del testo originale. Non essendo gli elementi testuali direttamente traducibili, ed essendo ignota al lettore finale la cultura paraguaiana, in alcuni casi vi sono delle perdite. Per cercare di recuperare questo “residuo intraducibile” ho fatto ricorso ad un apparato metatestuale che favorisse la comprensione di quanto non riuscivo a trasporre in italiano.

La tua traduzione avviene a ben più di mezzo secolo dalla scrittura del testo originale. Quanto il tuo linguaggio, quello della traduzione, è vicino a noi oggi o quanto lo è alla lingua del periodo in cui l’originale è stato scritto? E come e quanto è cambiata la lingua parlata in Paraguay dal tempo in cui i racconti sono stati scritti a oggi?

A parte le traduzioni letterali dei calchi linguistici che ho scelto di mantenere pur se possono risultare artificiose per il lettore italiano, ritengo che il linguaggio del metatesto sia molto vicino a quello attuale, così come lo è la lingua, o le lingue, del prototesto. Anche per quanto riguarda la lingua parlata, la gente si esprime esattamente come i personaggi di questi racconti di mezzo secolo fa e la diglossia riportata dalla Plá continua ancora oggi a caratterizzare il Paraguay, nonostante il guaraní stia guadagnando sempre più terreno: è stato riconosciuto come idioma ufficiale dal 1992, è molto più presente nei mass media, è materia scolastica obbligatoria dal 1994 nonché strumento di lavoro imprescindibile per medici, insegnanti, avvocati, allevatori, giornalisti, ecc., e aspira a divenire lingua ufficiale del Mercosur.

Con la tua traduzione fai conoscere in Italia una nuova autrice e proponi racconti ambientati in un Paese, il Paraguay, con il quale non abbiamo molta familiarità. Anche se la letteratura latinoamericana è ormai diffusa e apprezzata qui da noi, esistono zone poco esplorate. Ritieni che i racconti da te tradotti si inseriscano in quell’immaginario sudamericano che già possediamo, oppure pensi che possano contribuire a ampliarlo o a creare nuovi stereotipi?

Mi auguro che i racconti di Josefina Plá contribuiscano ad arricchire la conoscenza delle molteplici identità sudamericane. Il Paraguay, in quanto unico paese latinoamericano in cui la lingua indigena, pur essendo tuttora lingua “dominata”, è ufficiale e parlata da circa il 90% della popolazione, rappresenta indubbiamente un’eccezione. Lo stesso accade con la storia: al contrario di quanto avvenuto in altri paesi latinoamericani, in cui i meticci e la loro lingua sono stati sistematicamente emarginati e discriminati, il Paraguay si caratterizza per l’accettazione e l’integrazione dei mancebos de la tierra nella società coloniale. Per queste singolarità, credo che piuttosto che creare nuovi stereotipi, Josefina Plá avrebbe voluto che i propri racconti inducessero il lettore all’apprezzamento di un’identità culturale unica ma anche alla riflessione consapevole sulle contraddizioni e le problematiche sociali del paese.

Di Marquez – e di molti suoi epigoni – è stato detto, tra gli altri da Varanini e Pasolini, che la sua fortuna derivi dal fatto che non sapesse scrivere bene, ma fosse piuttosto un gran cantastorie; sapeva cioè raccontare con lo stile diretto e spontaneo dell’oralità. Ritieni che una simile definizione possa valere anche per Plá?

No. Josefina Plá scriveva benissimo; i suoi racconti sono molto ben strutturati, e lo stesso discorso vale per le opere teatrali, i saggi, gli articoli di critica letteraria e, soprattutto, le poesie. Sapeva anche raccontare storie e scrisse un divertente libro di fiabe per bambini, ma in uno stile ricercato, lontano dalla spontaneità dell’oralità. Conosceva varie lingue ed aveva un vastissimo e solido bagaglio culturale. D’altra parte, vivere in Paraguay, dove il guaraní è diffusissimo e la cultura indigena impregna la società, le permise di apprezzare gli elementi distintivi della cultura collettiva, di riconoscere e sfruttare la forza fonica, emotiva ed evocativa della lingua indigena, che sicuramente esercitò un grande fascino su di lei per l’incredibile ricchezza del vocabolario, anche astratto. Pur essendo convinta che solo lo spagnolo potesse garantire al testo scritto una risonanza universale, riconosceva che il razionale castigliano aveva bisogno del guaraní per esprimere le emozioni e penetrare gli angoli più reconditi dell’animo umano.

Rimanendo in tema, il tuo non è uno degli autori ispano americani consolidati, ma una sorta di nuova rotta, un’autrice tutta da scoprire, anche sotto il profilo traduttivo. Quanto tutto questo, unito alla ricerca stilistica inedita, ha reso complesso il tuo lavoro di traduttrice?

Indubbiamente Josefina Plá è un’autrice del tutto sconosciuta in Italia, ma in Paraguay è considerata la promotrice di un rinnovamento culturale di cui tuttora si raccolgono i frutti: senza di lei non ci sarebbero la poesia, la narrativa, il teatro, la critica d’arte moderni nel paese. È una figura nota ed apprezzata anche in altri paesi sudamericani ed è stata più volte proposta per il Premio Cervantes. Per questo ho tentato di rispettare quanto più possibile il testo originale: riproducendo le allitterazioni, le sonorità, ricostruendo i giochi di parole, indagando i significati nascosti delle parole. Anche se non sempre è stato possibile trovare la soluzione.

attilio.castellucci@uniroma1.it

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L'autore

Attilio Castellucci
Attilio Castellucci
Attilio Castellucci è laureato in Filologia Romanza presso la Sapienza, Università di Roma, materia nella quale ottiene anche il Dottorato di Ricerca. In seguito si trasferisce per cinque anni a Santiago de Compostela, dove lavorerà presso il centro di ricerche umanistiche “Ramón Piñeiro”. Attualmente lavora come tecnologo all'Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, dove si occupa di comunicazione e realizza documentari; in passato ha esercitato anche con la qualifica di direttore di biblioteca. Per svagarsi, insegna alla Sapienza, Università di Roma, dove impartisce Lingua e Letteratura Galega ma, all'occorrenza, anche Filologia Romanza e Lingua Spagnola; materia, quest'ultima, che ha insegnato anche presso l'Università degli studi della Basilicata. Quando può, si dedica alla traduzione, con un discreto numero di titoli tradotti al suo attivo, soprattutto dal galego e dallo spagnolo, ma senza disdegnare altre lingue, quali il francese e l’inglese. È responsabile dell'accordo tra la Xunta de Galicia e la Sapienza, Università di Roma: dal 1999 dirige il CEG di Roma, il Centro di Studi Galeghi. Dal 2019 al 2022 ha fatto parte del Consiglio direttivo dell’AIEG, l’associazione internazionale di studi galeghi; attualmente, nella stessa associazione, fa parte del Consiglio Scientifico.