conversando con...

Francesca Tuscano intervista Michail Savel’evic Kuz’min

Michail S. Kuz’min è nato nel 1949. Ha studiato Psicologia all’Università di Leningrado. Dal 1974 al 1989 è stato il teorico del Club di cartoonist di Leningrado. È giornalista (attualmente freelance), saggista, poeta e aforista. La sua prima pubblicazione poetica ufficiale è una raccolta di versi nel settimanale “Rybak Litvii”, nel 1983. Nel samizdat sono uscite le raccolte: Idee fisse (Navjazcivye mysli, Idees-fixes, 1980), Dialogo bollente (Kipjas’ij dialog, 1980) , Il polso dell’autosuggestione (Pul’s samovnusenija,1982), Foglie diurne – radici notturne (Dnevnye list’ja – nocnye korni,1983) , La casa riscaldata dalle utopie (Dom, otaplivaemyj utopijami, 1985) , Raccolta di carta (Bumaznyj sobor, 1987) . Alla fine degli anni Ottanta – inizio anni Novanta, i suoi versi sono apparsi in varie riviste e antologie. Del 1998 è la raccolta di miniature lirico-filosofiche La casa riscaldata dalle utopie (Dom, otaplivaemyj utopijami). Attualmente Kuz’min sta preparando un’edizione delle sue poesie. Secondo un suo aforisma, “Il poeta non è l’autore di qualche decina (o centinaio) di versi. Il poeta è un risultato. Il punto nel quale le rette parallele si incrociano”.

Michail Savel’evic, Lei è un poeta, un aforista, un teorico, un giornalista… Ma Lei cosa si sente di essere? 

In periodi diversi della vita mi è capitato di occuparmi di cose diverse, di diversi tipi di lavoro. Non solo intellettuale, ma anche fisico. E, durante il giorno, la dispersione delle occupazioni è altrettanto grande. Il tempo in cui preferisco lavorare è la mattina. Ma nel caso in questione non è importante che io scriva un articolo o una poesia. È che, semplicemente, la mattina mi sento fresco al massimo, pulito, immacolato, persino trasparente. Mi attraversano senza difficoltà raggi e pensieri. Sì, io stesso, la mattina, emano raggi. Non letteralmente, certo.

Il ritmo mattiniero del lavoro si è maturato nel corso di molti anni?

Assolutamente sì. Mi sembra che tutte le opere più importanti e centrali io le abbia scritte proprio di mattina. La sera o la notte divento troppo sporco, troppo macchiato…Non stanco, ma non più trasparente. Ahimé, la vita sociale fa sempre il suo sporco lavoro. Ma il mattino sono di nuovo pulito, e pronto a lavorare con le parole, che sono anch’esse pulite, fresche e persino cristalline…

Ma ci sono parole sporche (troppo logore)?

Ci sono, ma cerco di evitarle. Certo, io sono dell’avviso che anche le parole banali, troppo logore possono rinnovarsi e ritornare fresche. Se lo si tenta, certo.

Come?

Bisogna semplicemente ripulirle, con uno straccio, come il vetro. Ecco l’esempio di una breve poesia, nella quale utilizzo le parole più usuali, che improvvisamente cominciano a suonare diversamente…:
La bambola aveva 80 anni,
E gridava,
come da bambina: – Mamma!

Se ho capito bene, allora Lei non fa differenza tra i Suoi impegni e le Sue inostasi?

La vita stessa fa questo per me. Semplicemente, ci sono dei periodi nei quali mi occupo (e mi sono occupato) intensivamente di giornalismo. Adesso, ad esempio, dedico più tempo ai generi miniaturistici (frammenti, riflessioni, aforismi). Non è escluso che cambierò rotta verso la poesia o i saggi.

La poesia non Le impedisce di occuparsi di giornalismo?

No. Nella cerchia dei colleghi giornalisti sono per l’appunto il giornalista che guarda al mondo in modo poetico. Quello che non può fare un giornalista comune, lo posso fare io, giornalista-poeta. Ma bisogna conquistarselo questo diritto… E io me lo sono conquistato…

Qual è la differenza tra un giornalista comune e un giornalista-poeta?

Il giornalista comune si attiene strettamente ai fatti. È in mano ai fatti…Io posso proporre tutte le ipotesi possibili (persino quelle deliranti). Io non mi aggrappo al fatto, da esso parto soltanto… E, in generale, a me piace molto mistificare la realtà. Con l’aiuto delle mistificazioni (e delle ipotesi) io faccio mio il mondo circostante. Me ne approprio… Riassumo – se il giornalista si aggrappa ai fatti, io mi aggrappo all’intuizione. Ho fiducia in essa.

Può fare un esempio di qualche testo (articolo, saggio), nato da un momento di intuizione?

Sì. Un impulso iniziale lo ricevetti una volta dal film di Pier Paolo Pasolini «Accattone» (1962). Quando vidi questo film per la seconda o la terza volta, cominciai a fare attenzione non più ai protagonisti, ma ai comprimari – i bambini, i ragazzi, che in questo film sono abbastanza numerosi. Sono ragazzi di 11-13 anni. E all’improvviso mi accorsi che nel 1962 anche io avevo proprio quell’età! Mi sentii un loro coetaneo. Cominciai ad osservare attentamente quei ragazzi, a guardarli, e notai che (per come si comportavano) erano davvero molto simili a me. Io mi trovo qui, a Pietroburgo, e loro lì, nella periferia di Roma. E tuttavia ci somigliamo. C’è molto che ci unisce…

Questo è un preambolo, per così dire…

Ma l’intuizione è in questo. Credo che le persone, che non sono semplicemente contemporanee, ma coetanee, conservano una “somiglianza” durante tutto il corso del proprio cammino di vita. Come se il Creatore stesso avesse posto in loro uno stesso progetto, uno stesso compito superiore…

E quale saggio è nato da questo postulato?

Nel 2003 si celebravano i cento anni dalla nascita del pittore americano di origine russa Mark Rothko e del poeta russo Nikolaj Zabolockij. Coetanei. Volevo confrontarli e capire in quanto fossero simili e vicini l’uno all’altro, per il sentimento che avevano della loro esistenza e per l’opera. All’Ermitage (nel Palazzo d’Inverno), per il centenario di Mark Rothko era stata aperta una grande mostra, di fatto una sua retrospettiva. E nella Casa di Puskin (Istituto di Letteratura Russa), nello stesso periodo, si teneva un grande convegno internazionale sull’opera di Nikolaj Zabolockij. Decisi di accostare i due coetanei – Rothko e Zabolockij. Effettivamente misi a confronto quadri e poesie…

Il risultato?

Da un lato può sembrare che questo sia un compito molto speculativo. Ma io ho davvero trovato molto di comune nei versi e nei quadri. Come se Rothko e Zabolockij, senza accordarsi, facessero la stessa cosa, ma in generi diversi. Ne fui molto meravigliato e molto soddisfatto. Riuscii persino a pubblicare in una rivista un breve articolo su questo esperimento. E così l’intuizione ha trionfato…

Secondo Lei, la poesia russa, attualmente, ha ancora un ruolo importante nella società?

Sì, lo ha, ma non più quella poesia che era significativa negli anni 60-80 del Novecento. A quel tempo tutti noi eravamo appassionati della poesia contemporanea e della poesia del Secolo d’argento. E anche del Secolo d’oro. Adesso ampie masse popolari recepiscono la poesia sotto la forma delle canzoni. Questa non è poesia, è un suo surrogato. Le canzoni (le melodie) possono essere buone, ma la poesia non è sempre di livello… Della poesia contemporanea adesso si occupano piccoli gruppi di russi. Ma questi gruppi sono molti. A Pietroburgo, a Mosca e in altre grandi città, praticamente ogni giorno ci sono incontri e letture di poeti. Certo, i libri hanno tirature misere. Una vita poetica intensa si svolge in Internet, soprattutto nei blog e in Facebook.

Cosa significa essere poeta?

Significa occuparsi di qualcosa di marginale, di non serio, che non dà denaro né gloria.

E allora perché Lei e chi la pensa come Lei ve ne occupate?

La poesia è il tentativo di creare qualcosa di parallelo alla realtà. Non così effimero come la vita stessa, ma più saldo. Se è stato stabilito che dobbiamo scomparire per l’eternità, allora, forse, rimarranno le poesie o i pensieri. O, se vuole, con l’aiuto delle poesie non solo codifichiamo l’esistente, ma lo decifriamo. La poesia è il DNA della vita stessa…E il fascino è nel fatto che ogni poeta decifra il suo DNA…

Quale poesia è necessaria in Russia e in Occidente?

La poesia è necessaria dove non c’è. E, innanzitutto, per chi non la legge e non la capisce. Mi sembra che sia necessario attribuire alla poesia (alla singola composizione poetica) lo status di opera d’arte. Che il componimento poetico si traduca in oggetto d’arte e sia esposto in un museo o in una galleria di arte contemporanea. E che nelle vie le poesie ci tendano anche agguati. Immaginiamo – vado in un negozio a fare la spesa, e per strada mi imbatto in una poesia che viene diritta fuori da una aiuola…

Ma questa sembra fantascienza!

Ma ecco un caso che proviene dalla realtà. Ricordo che qualche anno fa (dieci anni fa, ormai) nei vagoni della metropolitana di Pietroburgo, per tutto l’anno, furono esposti dei piccoli manifesti (delle locandine) con versi di poeti russi e inglesi. In tutto 32 poesie. E la gente le leggeva. La mattina andava al lavoro e la sera tornava dal lavoro e leggeva, leggeva, leggeva…
E all’Aja (mi sembra nel 1999) mi è capitato di vedere un tram perfettamente bianco, sulle fiancate del quale erano scritti dei versi di Iosif Brodskij. Spettacolo indimenticabile… Era come se la poesia si materializzasse davanti ai tuoi occhi. Diventava effettivamente importante e percepibile…

Chi è il principale nemico della poesia?

I romanzi e i film. I cattivi romanzi e i film lunghi. Ma io non sono contrario ai cortometraggi e al film d’animazione. Personalmente non capisco perché devo leggere un romanzo della lunghezza di 300-400-500 pagine. Ad esempio, amo molto gli articoli e i saggi di Umberto Eco, mi inchino di fronte alla sua sagacia e al suo intelletto. Ma perché scrive romanzi? Per dimostrare che li sa scrivere? Ogni volta che mi metto a leggere un suo nuovo romanzo, mi sento uno che è stato messo in prigione. La poesia non mi priva della libertà, mentre il romanzo (anche avvincente) me ne priva. Uno degli ultimi romanzi di Umberto Eco, “La misteriosa fiamma della regina Loana”, l’ho letto fino a pagina 132 (più o meno un quarto del romanzo). Sono d’accordo con l’affermazione che sia un romanzo molto interessante. E, mosso dall’interesse della lettura, potrei leggerlo fino in fondo. Ma non voglio forzarmi in questo modo. Il romanzo mi soggioga, mi rende schiavo della lettura… E io voglio rimanere libero. Ripeto, le poesie (ma anche i racconti, i saggi) non mi privano della libertà.

Lei conosce bene la letteratura contemporanea occidentale. Cosa ne pensa?

Io amo le forme brevi. Diciamo, preferisco i racconti di Tommaso Landolfi ai romanzi di Umberto Eco. I racconti di Julio Cortázar (e le sue poesie) li apprezzo più dei suoi romanzi. Forse, posso fare un’eccezione per il romanzo “Il gioco del mondo”. Posso rileggere le opere brevi, ma i romanzi lunghi è difficile. Amo le cose corte (racconti, parabole) di Roland Topor, Jacques Sternberg e di Alejandro Jodorowski. Amo anche i pezzi teatrali brevi di Fernando Arrabal. Preferisco i racconti di Milorad Pavic ai suoi romanzi.

Quanto è importante per Lei rileggere quella o quell’altra opera?

Molto importante. Mi interessano, rigorosamente, solo quei testi che rileggo senza fine, e che rileggerò. Le cose che si leggono una volta sola, e di queste ce ne sono molte nella letteratura contemporanea, non mi interessano…

Lei guarda più di una volta anche i buoni film?

Si capisce. Per esempio, i film di Michelangelo Antonioni, “Il grido”, “L’avventura”, “La notte”, “L’eclisse”, “Blow up” li ho guardati più di una volta. Solo riguardando un film, questo diventa parte di te.

Che cosa pensa dell’attuale popolarità del genere dell’aforisma? È semplicemente una moda o un mezzo efficace per esprimere la contemporaneità?

Si può parlare davvero di un boom del genere dell’aforisma, ad esempio in Internet. Sono molti i siti, di ogni genere, nei quali vengono pubblicati aforismi, frasi, pensieri, giudizi di autori contemporanei e di classici di questi generi. Ci si può iscrivere, e ogni mattina ricevi la citazione del giorno. Una vivace vita aforistica si osserva anche in Facebook. Io stesso pubblico regolarmente i miei pensieri, i miei aforismi nel mio account, in quella che si chiama bacheca. Pubblico un aforisma, e ricevo subito un commento. Sembra davvero un miracolo. Si stenta a crederlo. Prima di Internet certo questo non accadeva. Per il momento mi è difficile valutare pienamente questa situazione. Una sola cosa è chiara: la distanza tra l’autore e il lettore si è accorciata fino al limite.

Una realtà totalmente nuova?

Certamente! Prima, gli aforismi, che creavo e scrivevo in un quaderno, aspettavano sulle pagine di carta, recuperavano le forze. Dopo qualche tempo potevo pubblicarli in qualche quotidiano o rivista. Per arrivare a questo passavano anni. Adesso non mi è necessario aspettare. Penso qualcosa e la pubblico immediatamente.

La fretta non è sempre un bene.

Proprio così. In effetti non ho fretta di pubblicare alcuni miei pensieri. Aspetto un segnale interno. Qualcuno dentro di me (forse, io stesso) deve dirmi – È ora! E allora pubblico il mio pensiero.

Quali siti dedicati all’aforisma può segnalare nell’immenso oceano di Internet?

Ce ne sono molti. Ma devo indicare quello di Fabrizio Caramagna. Il suo sito (http://aforisticamente.com) impressiona. Pubblica aforismi di autori di tutto il mondo. Pubblica delle grandi rassegne con introduzioni. E, cosa preziosa, nella lingua dell’originale e nella traduzione in italiano. Non posso trattenermi dal vantarmi.

Di cosa?

Sono stato il primo autore russo del quale siano comparsi degli aforismi in questo sito.

A Suo avviso, qual è lo scopo finale del genere dell’aforisma? Perché Lei scrive aforismi? Domando, per così dire, in modo diretto: per essere un saggio, un signore del pensiero?

Ho detto più di una volta, e non smetterò di ripetere, che per me la creazione dell’aforisma è un processo poetico. Un lavoro poetico. Una creazione poetica, nella quale ci sono slanci e cadute. La saggezza – è un altro processo. Non mi pongo l’obiettivo di dare consigli a qualcuno, di mettere sulla retta via. Io non sono un predicatore, non sono un moralista. E non voglio assolutamente assumermi il ruolo del saggio. Non voglio fingermi un saggio. Se alcuni dei miei aforismi sembrano anche saggi, è merito esclusivo della poesia stessa. È la dimostrazione della sua potenza e della sua forza.

Lei è membro della Società francese per la tutela dell’umorismo. A Suo avviso, su cosa dovremmo (o non dovremmo) ridere adesso? E Su cosa si ride in Russia?

La storia della mia associazione onoraria fa un po’ ridere in sé. Negli anni Settanta mi occupavo attivamente dello studio del disegno umoristico, e in particolare della creazione degli artisti francesi. Disegnatori come Bonnot (Claude Favard) e Jean-Pierre Desclozeaux avevano creato questa Società. Organizzavano con regolarità mostre di caricature e umorismo noir, a Grenoble e ad Avignone. Scrissi alla Società. Spiegai di cosa mi occupavo. Chiesi che mi inviassero i cataloghi delle mostre, per studiarli. In effetti, mi inviarono i cataloghi e mi informarono anche che mi avevano nominato socio onorario della Società. Questo fatto mi rese felice. E, per lunghi anni, se così si può dire, mi ha dato calore…

C’è stato un tempo nel quale tra Russia e Europa Occidentale esisteva la «cortina di ferro». Le ha creato problemi?

Creava problemi a tutti. E la cosa più offensiva stava nel fatto che, ad esempio, un pittore mi inviava un suo album di disegno (caricature), e alla dogana lo sequestravano con qualche pretesto. Ma questo è tema per una conversazione a parte. Dico solo che, malgrado gli ostacoli colossali e il peso della censura, alcuni libri e alcuni album mi sono arrivati comunque. Con il tempo ho messo insieme persino una collezione non ordinaria di libri e album piuttosto rari. E in seguito (erano già gli anni Novanta) ho scritto un numero non piccolo di articoli sull’opera di alcuni pittori, tra i quali anche dei francesi (Bonnot, Bosc, Mose, Roland Topor, Jean-Jaques Sempé, Jean Pouzet, André Francois, Maurice Henry). E, cosa importante, pubblicai questi articoli in diversi quotidiani. Ossia, mi sono rivolto con questo materiale ad un vasto pubblico di spettatori e di lettori.

Lei è un esperto del mondo del disegno umoristico. Ma io Le ho fatto una domanda più generale: su cosa si deve ridere in generale?

Non è necessario fare congetture su cosa si ride o non si ride. Si deve semplicemente cercare nel mondo che ci sta intorno qualcosa di interessante, assurdo, paradossale. Se lo troviamo ci suscita una risata di gioia in sé. In linea di principio non bisogna neanche cercare. Il paradosso appare da solo al nostro orizzonte, quando lo vogliamo.

A proposito, perché noi ridiamo di un paradosso?

Di un paradosso noi ridiamo due volte. La prima volta, perché non capiamo. La seconda volta, perché non possiamo capire.

Ma, parlando seriamente, Lei di cosa ride?

Io amo l’umorismo nascosto (segreto). Per dire, nei serissimi film di Jean-Luc Godard c’è un abisso di umorismo nascosto (paradossale). Per questo e per molto altro amo i film di questo regista. A suo tempo mi colpì molto il film “Drowning by numbers” (“Giochi nell’acqua” 1988) di Peter Greenaway. Da poco mi ha incantato il film d’animazione “Wywijas” del giovane autore polacco Andrzej Jobczyk (http://www.youtube.com/watch?v=bhalVHqpkmE).

Di cosa si ride in Russia?

Adesso si ride di tutto. Gli umoristi si sono moltiplicati. Ci sono programmi umoristici in quasi tutti i canali televisivi. Ma quello che viene presentato come divertente non lo è. L’umorismo – per quanto ciò sia triste – è diventato più semplice, primitivo, volgare.

L’umorismo intellettuale e raffinato non gode di stima?

C’è richiesta di umorismo intellettuale. E, in linea di principio, ci sono autori per questo tipo di umorismo. Ma sono pochi e non arrivano al grande pubblico. Da quello che si sa, questi umoristi lavorano in alcuni club. A dire la verità, l’idea stessa dell’umorismo fatto per professione non mi piace. È ridicolo che ci siano persone che sanno cosa faccia davvero ridere. Io sono a favore, con tutte e due le mani (e soprattutto con la testa), della risata che non è possibile prevedere.

Michail Savel’evic, se La ho capita bene, i poeti russi (i veri poeti) mostrano esempi diversi di libertà di spirito, di manifestazione di amore verso la libertà. Talvolta sono autentiche imitazioni, talvolta no. Ma chi risponde adesso, in Russia, del clima morale generale? L’intelligencija, innanzitutto, come ai tempi sovietici? Cosa sta accadendo all’intelligencija?

Una domanda difficile. Non è semplice rispondere. Ma ci provo, con onestà. Innanzitutto, non si deve pensare che l’intelligencija sia una sola, che essa, in linea di principio, sia sempre quella. Che esistano in Russia dinastie di intellettuali, che contano ormai molte generazioni. In linea di principio possiamo immaginare bene dinastie di attori, di circensi, di pittori, di scrittori. Ma le dinastie degli intellettuali non esistono. Ogni epoca dà alla luce i suoi intellettuali. Diciamo che gli intellettuali russi della fine del XIX-inizio XX secolo non somigliavano agli intellettuali sovietici degli anni 20-30 del XX secolo, ma gli intellettuali degli anni Sessanta sono decisamente diversi dagli intellettuali di adesso.

Ma attualmente ci sono intellettuali?

Buona domanda…Gli intellettuali ci sono sempre stati. Negli anni Sessanta, Settanta, e Ottanta. Ma poi…

Cosa è successo dopo?

Per quanto mi faccia tristezza ammetterlo, negli anni Novanta nella società russa la stima per l’intelligencija è scomparsa. Ed è apparsa la stima verso altri uomini.

Chi?

Gli specialisti, gli esperti, i manager. In generale, gli uomini d’affari. I self-made man di ogni tipo. La società era cambiata precipitosamente, e le occorrevano persone non complicate, che lavorassero attivamente in tutti i campi. Naturalmente, sono apparse. E gli intellettuali eternamente sordi ed eternamente lamentosi (scusate per questi epiteti) se ne sono andati chissà dove, nell’ombra.

Ma sono scomparsi del tutto?

No, certo. Sono semplicemente scomparsi dagli schermi televisivi. E sono apparsi, per così dire, nuovi idoli, nuove stelle, nuovi padroni del pensiero…

E per quanto tempo, nella nuova Russia, le persone si sono inchinate di fronte agli esperti e agli specialisti?

Questa situazione è durata abbastanza a lungo, 15-17 anni. Ma, negli ultimi tempi, nella società russa è nuovamente apparsa la stima nei confronti dell’intelligencija. Cioè nei confronti delle persone che obbligano a pensare e che suscitano un’inquietudine morale.

E a che collega questa stima? Perché improvvisamente gli intellettuali sono diventati di nuovo richiesti?

Ho il mio punto di vista su questo problema. Ma non sono un sociologo, sono un poeta, che, con le parole di Aleksand Blok, “ha teso l’orecchio alla terra”. Ed ecco, ho teso l’orecchio verso la terra russa, e ho capito che nella società stessa ci sono stati alcuni cambiamenti molto importanti. E questi cambiamenti hanno nuovamente suscitato interesse per la l’intelligencija.

Si spieghi meglio, se non è difficile.

Voglio dire che negli anni Novanta la società russa era precipitosa, dinamica, cambiava velocemente. E non c’era necessità di intellettuali combattivi. Ma adesso siamo di nuovo in un’ “epoca di stagnazione”. In verità, questo è già argomento a parte per una conversazione, ed in esso non c’è molta poesia…

Intende dire che inizia di nuovo un momento culminante per l’intelligencija?

Precisamente. L’intelligencija di oggi, credo, deve mostrare alla società il suo risvolto morale. Ricorda come nell’Amleto di Shakespeare il principe danese mostra a sua madre due medaglioni, due immagini. Una è l’immagine dell’uomo vero, l’altra del perfido vigliacco…Ecco, anche l’intelligencija di oggi cerca di mostrare e spiegare alla società chi è chi. E, per dirla in altri termini, nella società russa che si è stancata della mancanza della verità e della mezza verità è di nuovo apparsa la stima verso l’onestà e la giustizia.

E quanto presto, secondo la Sua opinione, trionferanno l’onestà e la giustizia?

Non voglio fare il profeta. Ma una cosa è chiara: questo processo è già inarrestabile…

E i poeti partecipano ad esso?

Partecipano. I poeti cittadini (o i poeti che intervengono attivamente) partecipano in modo più intenso, visibile. La poesia satirica è di nuovo richiesta. È sufficiente dare un’occhiata ad Internet. Ma anche i poeti lirici non dormono. Si sono già svegliati…

E adesso, per così dire, una questione internazionale. Negli anni Sessanta l’intelligencija italiana e quella sovietica avevano dei legami molto stretti. Bisognerebbe riprenderli?

Si deve, certo. Che gli artisti diventino amici di artisti. I poeti dei poeti. I musicisti dei musicisti. E di conseguenza che anche gli interpreti diventino amici di interpreti. In qualche modo questo accade anche adesso. Forse, non in modo così intenso come 30-40 anni fa, ma accade.

È contento che, negli ultimi tempi, le Sue opere (aforismi e poesie) siano state tradotte in modo abbastanza attivo in italiano, e che si pubblichino nelle riviste?

Mi fa molto piacere. Mi riscalda l’anima. E stimola la prossima ricerca creativa…

Matematica intuitiva
Tante perle ci sono in fondo al mare
Tanti sono i drammi di Shakespeare
Tanti atei ci sono su questa terra
Tanti sono i romanzi di Dostoevskij
Tanti innamorati ci sono al mondo
Tanti sono i sonetti di Petrarca
(traduzione di F. Tuscano, in Hebenon, anno XVII Quarta Serie nn. 9-10 Aprile-Novembre 2012)

 

Intervista in lingua originale

Creative Commons License
This work is licensed under a Creative Commons Attribution-ShareAlike 3.0 Unported License

 

L'autore

Francesca Tuscano
Francesca Tuscano
Francesca Tuscano è nata il 7 settembre 1964. Laureata in Lingua e letteratura russa e in Italianistica, addottorata in Letterature Comparate, si occupa soprattutto di storia dei rapporti tra cultura russa e cultura italiana, sui quali ha scritto diversi saggi. Ha tradotto dal russo testi di B. Akunin, R. Jakobson, Ju. Lotman, V. Chlebnikov, M. Kuzmin, A. Blok, A. Achmatova, N. Kaplan, e saggi di letteratura critica su Pasolini e Leonardo da Vinci (quasi tutti ancora inediti in italiano). Ha pubblicato una monografia sulla Russia nella poesia pasoliniana (La Russia nella poesia di Pasolini, Book Time 2010). Ha pubblicato le raccolte di poesie M.Y.T.O. (Era Nuova 2003), alla quale sono seguite La notte di Margot (Hebenon-Mimesis 2007), Gli stagni di Mosca (La Vita Felice 2012) e Thalassa (Hebenon-Mimesis 2015). Ha scritto anche libretti d’opera e testi teatrali (tra i quali Come si usano gli articoli, pubblicato in I diritti dei bambini, Rubbettino 2005). Nel 2016, per il Mittelfest di Cividale del Friuli, è stata messa in scena l’opera lirica Menocchio su suo libretto (musica di Renato Miani).